di Eleonora Tafuro Ambrosetti
Non si fermano le manifestazioni di piazza in Armenia. Nel giorno dell’anniversario delle violente proteste contro i risultati fraudolenti delle elezioni presidenziali del 2008 che causarono dieci morti (conosciute semplicemente come Marti mek, “primo marzo”), i sostenitori e gli oppositori del premier armeno Nikol Pashinyan sono nuovamente scesi in piazza. Le marce si sono svolte senza particolari incidenti. Tuttavia, a pochi mesi dalla dolorosa sconfitta armena in Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli armeni) per mano dell’Azerbaigian lo scorso autunno, il governo sembra essere vicino al collasso e Pashinyan ha dichiarato di essere pronto a indire nuove elezioni.
Al potere dal 2018 in seguito alla cosiddetta rivoluzione di velluto, lo scorso 25 febbraio Pashinyan ha denunciato un tentativo di colpo di Stato da parte dell’esercito, che ha chiesto formalmente le dimissioni del premier. Lo Stato Maggiore delle Forze Armate ha giustificato la richiesta di dimissioni in virtù del licenziamento da parte di Pashinyan di Tigran Khachatryan, primo vice capo di Stato Maggiore, dichiarato ufficialmente eroe nazionale lo scorso ottobre. Il licenziamento di Khachatryan è il risultato di uno scontro sorto in seguito alle dichiarazioni di Pashinyan sul mancato funzionamento dei missili Iskander di produzione russa durante la guerra contro l’Azerbaigian, dichiarazione poi smentita dal ministero della Difesa russo.
L’opposizione armena ha fortemente criticato la scelta del premier. In un tweet del 25 febbraio, Edmon Marukyan, avvocato e leader del partito Armenia Luminosa ha scritto: “Le ultime azioni del primo ministro mirano a decapitare un esercito già gravemente provato (…). Chiedo al Presidente della Repubblica Armen Sarkissian (…) di preservare le forze armate insieme al loro comando generale, che ora ha bisogno del sostegno di tutti noi per la restaurazione dell’esercito”.
In seguito alla richiesta di dimissioni e agli attacchi dell’opposizione, Pashinyan ha ordinato anche la rimozione del capo di Stato Maggiore, Onnik Gasparyan. Inoltre, in vari discorsi in diretta Facebook, Pashinyan ha invitato i militari a rispettare la costituzione e a non interferire nei processi politici del paese, dichiarando che solo il popolo ha diritto di decidere se destituirlo dalla sua carica. Sempre attraverso il suo account Facebook, Pashinyan ha dichiarato la “fine del velluto”, intendendo non la fine della rivoluzione da lui iniziata, quanto piuttosto la sua ferma intenzione di lottare contro le forze che la minacciano.
Il peso della storia
Dopo essere salito al potere nella primavera del 2018 attraverso una rivoluzione pacifica, la cui legittimità popolare è stata confermata dai risultati delle elezioni parlamentari a dicembre dello stesso anno, Pashinyan ha tentato di promuovere riforme radicali per rilanciare l’economia armena e combattere la corruzione, una piaga che affligge il paese così come la maggior parte degli stati nella regione, guadagnandosi un ampio sostegno popolare. Nonostante il sostegno alle sue riforme, Pashinyan ha dovuto tuttavia affrontare le critiche dell’opposizione e di alcuni membri dell’apparato militare per essere presumibilmente troppo morbido su alcune questioni e per non aver fatto il servizio militare. Soprattutto, Pashinyan (che, contrariamente a molti suoi predecessori, non è originario del Nagorno-Karabakh) è stato accusato di eccessiva arrendevolezza nei confronti del principale nemico armeno, l’Azerbaigian guidato da Ilham Aliyev. È stato proprio l’ultimo conflitto con l’Azerbaigian a causare un’erosione importante del consenso a Pashinyan. In seguito a una cocente sconfitta militare, il premier ha infatti accettato un cessate il fuoco mediato dalla Russia che ha posto fine a sei settimane di combattimenti in Nagorno-Karabakh. Gli appelli alle dimissioni di Pashinyan sono cresciuti esponenzialmente in seguito all’accordo, che molti armeni hanno bollato come un tradimento.
Un golpe a tutti gli effetti?
L’attuale crisi, ancora in divenire, segna una certa rottura con la tradizione politica nello spazio post-sovietico. Secondo l’analista del Carnegie di Mosca Alexander Baunov, se l’esercito armeno estromettesse il primo ministro e nominasse un nuovo governo per mantenere l’ordine fino a nuove elezioni, si tratterebbe del primo vero colpo di stato militare nella regione; finora, infatti, la tradizione sovietica in base alla quale l’esercito rimane fuori dalla politica è stata generalmente mantenuta anche dagli stati post-sovietici. Intanto, il Cremlino ha espresso preoccupazione per la situazione in Armenia e ha esortato entrambe le parti a mantenere la calma e a ricondurre la situazione entro i confini dell’ordine costituzionale. La Russia, che ha attualmente schierato quasi 2000 soldati in Nagorno-Karabakh in seguito al cessate il fuoco, ha però assunto una posizione di sostanziale imparzialità nella crisi, descrivendola come un affare interno alla repubblica armena. Diversa la posizione della Turchia, storico alleato dell’Azerbaigian; Ankara, che ha ancora fresco il ricordo del tentato golpe contro il governo di Recep Tayyip Erdoğan del luglio 2016, ha fortemente criticato il tentativo di rovesciare il governo di Pashinyan ad opera dell’esercito armeno.
In un paese fortemente segnato dalla recente sconfitta militare, ma anche dalle conseguenze dell’epidemia di COVID-19, che continua a colpire duramente l’Armenia e per cui non si è ancora iniziata la campagna di vaccinazioni, la frustrazione della popolazione è comprensibile; tuttavia, un vuoto politico rischia di portare ad un ulteriore peggioramento delle crisi economiche e sanitarie già in corso. È per questo che Pashinyan spera di rafforzare la legittimità del suo governo attraverso nuove elezioni. Eppure, l’opinione pubblica armena è spaccata. Secondo un recente sondaggio condotto da GALLUP, Pashinyan rimane il politico più popolare in Armenia; allo stesso tempo, però, ben il 43,6% auspica le dimissioni del premier – un aumento del 9% rispetto a un precedente sondaggio condotto lo scorso novembre. Probabilmente, molta è l’avversione nei confronti di Pashinyan, ma molta anche la paura che il vecchio regime torni a governare il paese.
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