Banche e covid – in mezzo al guado e… non fate l’onda

Avere o non avere?

di Franz Ferrè

Nella stagione del Covid, le banche hanno dovuto assumere una volta in più lo stesso ruolo che il sistema economico occidentale ha affidato loro negli ultimi decenni: il prestatore di ultima istanza. Le banche sono state l’istituzione che ha permesso a dei produttori senza più stipendio fisso di continuare ad essere consumatori e comprare (magari a rate) ciò che non avrebbero più potuto permettersi. Ciò ha tenuto in piedi il sistema economico, salvandolo dalla sua più grande aporìa.

In un sistema meno insano, infatti, il prestatore di ultima istanza avrebbe dovuto essere lo Stato, attraverso la sua Banca centrale, ma nella UE quel prestatore non può più prestare nulla, ed ecco che sono state le banche a tenere su il ramo su cui il sistema era seduto e che stava alacremente segando. E così è stato anche questa volta: di fronte al buco di reddito generato dal lockdown, il grosso degli aiuti è arrivato (e sta arrivando) sotto forma di prestiti, erogati, appunto, dalle banche.

Il problema è che i redditi persi nei mesi scorsi non saranno recuperati presto, anzi, probabilmente non saranno recuperati mai, anche perchè sta delineandosi un quadro in cui, nei prossimi mesi, gli stessi soggetti economici registreranno ulteriori buchi, invece di recuperare.

E’ questo il primo dei due grossi problemi delle banche italiane: chi ha fatto il proprio mestiere ha prestato molti soldi a clienti che, per lo più, rischiano di non poterli mai restituire. I clienti che stanno usufruendo delle sospensive sui mutui, o delle altre agevolazioni sui crediti esistenti, sono moltissimi. Dentro alle banche tutti lo sanno, e nessuno ne parla, come del resto nessuno ne parla fuori: la situazione ricorda qualcuno che è finito dentro alle sabbie mobili fino al collo, ma poi ha smesso di affondare e, guardandosi in giro, implora “non fate l’onda”.

Ma l’onda ci sarà, e rischia di essere molto alta, se l’aumento dei crediti non più esigibili, ovvero – per dirla con il linguaggio degli gnomi dell’Eurotower – Non Performing Loans, cioè NPL sarà di una certa consistenza. Parte dei prestiti erogati nella fase di emergenza hanno la garanzia statale, ma questa non si annuncia di facile escussione, non tanto per il fatto che non possa essere pagata, quanto per i meccanismi, che non si annunciano semplici e per i tempi, che non si annunciano brevi.

E qui veniamo al secondo grossissimo problema, ovvero le nuove regole europee sul trattamento degli NPL, denominate “calendar provisioning”: forse non tutti sanno che, tra le iniziative previste per i prossimi anni, la BCE ha introdotto una modifica alla normativa sul trattamento proprio dei crediti deteriorati, prevedendo che le banche, una volta classificato un credito tra quelli “non performing”, abbiano un tempo prestabilito entro il quale gestirlo, recuperandolo, oppure, quando il recupero non è possibile, vendendolo. Nel frattempo, mentre si esperiscono le procedure per il recupero (verso il cliente, o verso i suoi garanti, tra cui – come detto – lo Stato), questi crediti vanno svalutati di una misura prestabilita ogni anno e, se non si riesce a recuperare i crediti entro il tempo fissato dalla normativa, venderlo. I prestiti garantiti hanno scadenze più lunghe, quelli “di cassa” vanno ammortizzati entro tre anni e poi venduti.

Tutto ciò dovrà applicarsi entro il 2026 integralmente, ma già si applica sui crediti originati da aprile 2019, quindi, per quanto finora stabilito, anche sui prestiti concessi a seguito dell’emergenza Covid,

La norma è stata approvata in un “trilogo” (uno dei luoghi più oscuri ed opachi della oscura e opaca macchina burocratica UE) a dicembre 2018 e nessuno in Via Nazionale si è sentito in dovere di alzare nemmeno un ditino per obiettare alcunchè (come del resto era accaduto anche ai tempi delle norme sul Bail-in). La norma ha concluso indenne tutto il suo iter, ed oggi ha forza di legge comunitaria. Però, l’emergenza determinata dalle conseguenze economiche della pandemia ha aperto gli occhi al resto del mondo bancario italiano che recentemente ha espresso in diverse sedi, e per bocca di autorevoli suoi esponenti, la grande preoccupazione per le conseguenze di questa normativa.

L’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, nel corso di una specifica audizione presso la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle Banche, ha definito “una bomba atomica” la nuova legge, perché tratta tutti i crediti deteriorati allo stesso modo, mischiando sofferenze e UTP, ovvero esposizioni Unlikely To Pay (i vecchi “incagli”) che sono crediti molto spesso ancora buoni, che necessitano di rimodulazioni o proroghe, ma che poi tendono ad avere ottime possibilità di recupero. “Tratti un credito vivo come un credito morto, invece vanno separate le categorie ed evitato l’automatismo”, ha spiegato Nagel. Tale problema, già molto rilevante al momento dell’entrata in vigore della norma, è diventato enorme e potenzialmente devastante dopo lo scoppio dell’epidemia di Covid. A fronte delle previsioni della legge, le banche potrebbero trovarsi entro due tre anni al massimo di fronte a richieste insostenibili di maggior capitale. Oppure dovranno svendere i propri NPL a prezzo di saldo, dato che qualunque transazione dove il venditore ha un tempo limite per vendere, lo vede in posizione nettamente svantaggiata (e non è difficile immaginare chi saranno i compratori: il mercato degli NPL già oggi è per oltre metà in mano ad aziende di proprietà estera, principalmente tedesca…). Anche l’ABI, per bocca del suo Direttore Generale, Sabatini, ha chiesto esplicitamente un rinvio, ritenendo “essenziale” che ci siano “alcuni cambiamenti” per ridurre la “criticità di questo approccio”, poiché “appare (..) urgente riconsiderare una norma che impone alle banche pesanti perdite a fronte del supporto fornito ai creditori in difficoltà”.

Il report di Price Waterhouse Coopers sulle conseguenze della nuova normativa non lascia dubbi, e afferma “nei prossimi anni le posizioni deteriorate peseranno sui bilanci delle banche in modo consistente”. In effetti la svalutazione forzata è prevista (e finora mai smentita) su tutti i crediti deteriorati (sofferenze e incagli) presenti in portafoglio dal marzo 2018 in poi, con raggiungimento della svalutazione totale tra il 2023 (non garantiti) ed il 2026 (garantiti di banche virtuose). Gli impatti economici di questa normativa vengono elencati da PWC con termini eufemistici, ma ugualmente non equivocabili: maggiori oneri patrimoniali e di conto economico, necessità di rivedere la strategia di gestione dei crediti deteriorati (strategia che fin qui aveva garantito un recupero quasi doppio rispetto ai prezzi di vendita realizzati con le cessioni “di mercato”), attraverso un’accelerazione dell’attività di recupero e un incremento delle cessioni, ovvero due fenomeni altamente depressivi dei potenziali ricavi. PWC individua, infine, una serie di cambiamenti che l’introduzione di questa normativa causerà sulle strategie stesse delle banche, le quali, sapendo che un eventuale passaggio a “non performing” di una posizione, innescherà questo infernale meccanismo, dovranno essere ancor di più selettive sulle concessioni, in modo da fare prestiti solo a soggetti altamente affidabili, meglio (molto meglio) se con cospicue ed abbondanti garanzie alle spalle.

Il che ridurrà ulteriormente il credito a molte, moltissime imprese. Ed eccola, l’onda, altissima e, forse, definitiva, sull’economia reale del nostro paese, ancora una volta proveniente da “fuoco amico”, cioè dalle istituzioni di quella UE che da tre decenni ha fatto dell’Italia il suo terreno di caccia preferito.

Quo usque tandem…?

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