di Antonio Monopoli
L’attuale situazione dopo circa un anno di pandemia è sotto gli occhi e nel vissuto quotidiano di ciascuno di noi. Il dogma centrale che ha guidato gli interventi che sono stati fatti in questi mesi è stato che il diffondersi del virus andava contrastato “a qualsiasi costo” ed in effetti così è stato: per la prima volta abbiamo assistito ad una limitazione delle libertà personali inimmaginabile ed improponibile fino a pochi mesi fa. Di fatto tutti noi abbiamo subito un periodo di “detenzione domiciliare” accettata soltanto per la nobiltà della sottostante motivazione: la salvaguardia della vita di ciascuno di noi e la sopravvivenza della Nazione. Se certamente il fine è stato nobile gli strumenti scelti si sono mostrati, per alcuni aspetti, inadeguati ed i risultati in parte deludenti. La convinzione che con il lock down il virus scomparisse così come si spegne un fuoco non più alimentato ha lasciato, mano a mano che queste restrizioni venivano prorogate, il posto alla delusione ed alla rassegnazione che sempre più venivano ad essere affiancate dalla rabbia e dalla prostrazione di una larga parte della popolazione che ha dovuto prendere amaramente atto di come la pandemia stia avendo una funzione catalizzatrice della forbice che si allarga sempre maggiormente tra le fasce sociali a causa della riduzione numerica di quello che un tempo era il ceto medio e che oggi viene sempre più assottigliandosi scivolando verso una condizione di precarietà e povertà.
L’aver tolto di fatto, a gran parte degli italiani, la possibilità di poter lavorare ha fatto affiorare tutti i limiti e le contraddizioni presenti nella nostra organizzazione sociale. Mai come oggi si è sottolineata la distinzione tra garantiti e non garantiti individuando nel primo gruppo essenzialmente i dipendenti pubblici e nel secondo con differenti gradazioni di sofferenza i dipendenti privati, i lavoratori autonomi ed i cosiddetti lavoratori “in nero”.
L’insufficienza e l’inadeguatezza delle protezioni offerte dallo Stato ai non garantiti sta mostrando tutta la propria perniciosità. Persone abituate a procurarsi il proprio reddito con la quotidianità del lavoro e del sacrificio si sono trovati obbligati ad una innaturale inoperosità, mentre i costi fissi non coperti dagli anemici “ristori” continuano ad erodere i risparmi di una vita o in assenza di questi pongono una grossa ipoteca sulla possibilità di riprendere in futuro la propria attività.
Ma i costi non sono stati e non sono solo quelli economici. Il danno che tutti, ed in primis i bambini, stiamo subendo è molto grande e parzialmente irreversibile. La nevrotizzazione sociale, figlia della paura e della sensazione di impotenza rispetto al virus e rispetto ad una classe dirigente che non sempre viene vissuta come adeguata ed all’altezza della situazione, il martellamento da parte del mainstream che ci coinvolge e ci travolge ogni volta che accendiamo la radio o il televisore, Il radicale cambiamento delle nostre abitudini, l’impedimento alla coltivazione delle relazioni sociali ed al vissuto del contatto fisico cui eravamo abituati e di cui oggi percepiamo la deprivazione , lasceranno nella vita di ciascuno di noi ferite e cicatrici indelebili.
Accanto a tutto questo, però c’è il timore di una delusione specifica che riguarda la maniera in cui verremo ad essere ed a trovarci dopo questa situazione. Ogni crisi, infatti, ha in sé i semi di una ambivalenza e cioè da un lato può essere fonte di peggioramento della propria situazione e dall’altro può rappresentare una opportunità. In molti abbiamo sperato che questa crisi mondiale e, comunque, nazionale potesse rappresentare un momento di resettaggio della società. Si è pensato che si potesse passare da una visione egoistica ed individualistica tipica del capitalismo turbofinanziario ad una visione economica di tipo solidale e collaborativo. La speranza che ciò possa avvenire non è stata abbandonata, ma quello che si sta evidenziando e che tutto questo non può cambiare se non con un cambiamento delle persone che gestiscono il potere. Il cambio di paradigma nasce prima nella mente e poi nei fatti. Non ci si può aspettare da chi per decenni è cresciuto alla vecchia scuola né dai, sia pur giovani, allievi di costoro il rinnovamento. Non si tratta del fisiologico passaggio del testimone tra generazioni, ma di un salto culturale che richiede la sostituzione di una classe dirigente portatrice di una visione del mondo e di valori di fondo che, se non contrastati, rischiano consegnare i molti nelle avide mani di pochi mossi da miopi interessi egoistici. Occorrono persone portatrici in maniera profonda di nuove idee che abbiano una concezione e siano in grado di vivere il potere come servizio alla Comunità. Purtroppo negli ultimi decenni abbiamo visto e subìto troppe volte l’esperienza di come anche chi parlava dei “problemi della gente” spesso lo faceva con la pancia ed il portafoglio pieno articolando una bella elaborazione teorica di cose non vissute o ancor peggio ripetendo una lezioncina ideologica, magari per puro obbligo di appartenenza ad un gruppo politico ove in quel momento si trovava a transitare.
Accanto a politici seri abbiamo, purtroppo, subìto la presenza di tanti politicanti che abbiamo visto decidere o ancor peggio spesso assecondare decisioni di altri soggetti portatori di interessi particolari e che hanno ridotto la nostra Nazione in una condizione di sbandamento e preparazione all’asservimento ad una ristretta classe economico-finanziaria dominante.
L’abbassamento generalizzato del livello culturale, la precarietà generatrice dell’impossibilità di pensare al proprio futuro in termini positivi e costruttivi, l’instillazione di una ideologia individualistica che vede nella lotta prevaricatrice o nella resa indolente e apatica le uniche opzioni possibili di una vita di pura sopravvivenza, sono il frutto di chi sta tentando di “rubare” il futuro alla nostra Nazione, dimenticando, però la lezione della Storia che ci insegna come anche sotto uno spesso strato di cenere la brace continua a conservare la potenzialità di generare la fiamma. Il fermento sociale non è morto e le transitorie patine Ideologiche o pseudo tali sono destinate a scomparire corrose dall’egoismo individuale di coloro che le usano strumentalmente per fini personali o di piccoli gruppi portatori di interessi ben diversi da quelli sbandierati per carpire il voto degli elettori a cui si è voluto far credere che la democrazia consista in null’altro che nel mettere una scheda in una urna ogni cinque anni.
È giunto il momento di tornare a prendere consapevolezza che la democrazia vive nelle menti e nell’impegno quotidiano dei “cittadini democratici” che hanno il diritto ed il dovere, alla luce della nostra Costituzione e dei valori fondanti la Repubblica, di pretendere la partecipazione costante alle scelte ed alla costruzione della nostra Comunità nazionale.
Non è e non sarà facile, ma il cambio di paradigma sociale verso una società fondata sulla solidarietà e la reciproca collaborazione, rispetto all’attuale deriva, è l’unica alternativa ad un naufragio collettivo che ci porterebbe ad una riproposizione storica della classe dei pochi ricchi e di quella dei tanti poveri, servi sempre meno consapevoli dell’ingiustizia della propria disgraziata condizione.
Commenta per primo