L’arte tra lavoro, politica e pandemia

Un dialogo tra Davide Dormino e Nicolas Martino

di Davide Dormino

Nicolas Martino: Perché quello artistico non è considerato un lavoro? È un problema che ci si comincia a porre da un po’ di tempo ormai, tanto che recentemente si sono costituite delle organizzazioni che riuniscono i lavoratori dell’arte con l’intenzione di rendere pubblica una condizione che soffre della mancanza di tutele e della mancanza di un vero riconoscimento in tutti i diversi livelli della filiera artistico-produttiva. È un problema curioso, anche perché – a pensarci bene – nella società postindustriale dove il lavoro è diventato sempre di più immateriale, quello artistico è il modello per eccellenza del lavoro creativo diffuso e di tutto il lavoro in generale: flessibilità, autoimprenditorialità, capacità relazionali e capacità di trovare soluzioni creative ai diversi problemi che si pongono di volta in volta, sono caratteristiche, da sempre, del lavoro artistico, ma sono ormai diventate le caratteristiche di tutto quanto il lavoro da almeno quarant’anni. Probabilmente pesa sul lavoro artistico un pregiudizio di origine romantica, per cui la la bohème da cui nasce l’artista, pone questo tipo di attività al di fuori del lavoro salariato, dei mestieri e delle libere professioni, anche quando chi ci si dedica non ha un capitale familiare che gli permette di lavorare senza necessariamente guadagnare. Probabilmente i tempi sono ormai maturi perché anche quello artistico venga considerato per quel che è, un vero e proprio lavoro che come tale deve essere riconosciuto e tutelato. Ancora adesso se qualcuno, interrogato su che lavoro faccia, risponde “l’artista”, vedrà l’interrogante stupirsi e rimanere interdetto: ma che lavoro è? Sì ho capito l’artista, ma come guadagni? Ecco, probabilmente ci sarebbe bisogno di una struttura socialmente condivisa che rispondesse definitivamente a questo stupore facendola finita con la retorica dell’artista come perdigiorno o nullafacente. Tu che ne pensi? Anche tu, nella tua esperienza, ti sei scontrato con questi luoghi comuni?

Davide Dormino: Qualche mese fa ho sottoscritto telefonicamente un contratto con una compagnia per attivare una linea internet al mio nuovo studio. Arrivati ad un punto, la signorina mi ha chiesto che lavoro facessi, e io ho risposto “artista, scultore”. Dopo qualche secondo di attesa la mia interlocutrice mi ha risposto che “artista” non era in elenco e ha aggiunto se “libero professionista” potesse andar bene. Naturalmente ho risposto di sì. Questo piccolo esempio spiega nella pratica quello che dici tu, Nicolas. È vero, sono anche un libero professionista poiché posseggo una Partita Iva ma conosco tantissimi artisti che ne sono sprovvisti. Potrebbe esser questo un primo passaggio necessario? Avere una Partita Iva fa intendere che il lavoro di artista sia un “lavoro? Di certo il sistema fiscale non ci agevola, cosa che invece avviene in tanti altri paesi europei come ad esempio la Germania dove gli artisti vengono considerati essenziali per la società. Forse questo potrebbe essere un punto da sottoporre ai nostri governanti.
Nicolas Martino: Se quello artistico è un lavoro, proviamo a interrogarci anche su quale quale sia il ruolo sociale o politico dell’artista. Anche questo è un problema particolarmente sentito negli ultimi anni, soprattutto da quando, sempre di più, ha preso piede la cosiddetta arte pubblica che vede l’artista non tanto esporre nelle gallerie private e produrre opere per le case dei collezionisti e dei musei, ma lavorare negli spazi urbani e pubblici entrando direttamente in relazione con il tessuto sociale e politico collettivo. Probabilmente il ruolo dell’artista, in questo senso, consiste nella capacità di trasformare la percezione diffusa rispetto a un problema, a un oggetto, a una questione di interesse generale. L’artista è qualcuno che contribuisce alla presa di coscienza di un problema che riguarda una comunità e insieme alla stessa comunità cerca e propone una soluzione che riesca a trasformare le forme di vita individuali e collettive. L’artista lavora al livello delle percezioni e del sensibile, le soluzioni che trova sono sempre estetiche, ma proprio per questo anche politiche. Tu cosa ne pensi e qual è la tua esperienza in questo senso?

Davide Dormino: Ogni nostra scelta quotidiana è politica. Essere artisti è un’attitudine naturale, un’esigenza interiore che ci spinge a immaginare il mondo in modo differente da come ci viene presentato. Gli artisti, attraverso il loro lavoro, decodificano la realtà andando a scovare alcuni fenomeni che senza la loro ricerca rimarrebbero nascosti, per questo che l’arte rappresenta davvero l’ultimo territorio per la riflessione individuale e la libertà. L’arte è resistenza, strumento rivoluzionario per eccellenza in grado di terminare coscienza sociale, politica e spirituale. Purtroppo, uno dei limiti dell’arte contemporanea è l’inaccessibilità dovuta anche ai diversi livelli di lettura che ogni opera possiede e questo la rende ai più, distante. Gli artisti hanno perso un po’ la capacità di connessione legata all’uomo e ai suoi bisogni e quindi la coscienza civile legata all’attività artistica. Il “mondo dell’arte”si è chiuso per parlarsi addosso dimenticandosi che gli artisti sono sempre stati considerati “difetti di fabbricazione,” sfuggiti al controllo di qualità della linea di produzione, come diceva Castaneda, eretici e guerrieri. Un grande artista dovrebbe saper comunicare alla mente più raffinata ma anche a chi non ha gli strumenti necessari per comprendere.

Nicolas Martino: A proposito della pandemia che stiamo attraversando, se proviamo a chiederci quale possa essere il ruolo specifico dell’artista, mi sembra che la risposta non possa che essere direttamente collegata a quanto dicevamo poco fa. In questa condizione in cui sembriamo costretti in una specie di deprivazione sensoriale, che può ripensare il modo di costituire un sentire e una comunità quando le forma tradizionali delle relazioni sociali, della prossimità e dello stare insieme sono messe in questione dall’emergenza sanitaria? Chi può contribuire a inventare una nuova sensibilità individuale e collettiva, un nuovo modo di sentire, di stare insieme e condividere esperienze se non l’artista? Tu sei d’accordo? Cosa ci puoi dire su questo a partire dalla tua particolare esperienza di artista in questi ultimi mesi?

Davide Dormino: la cultura è un virus potentissimo perché crea coscienza e senso critico nelle persone e il fatto che i luoghi della cultura, musei, teatri, cinema, centri sociali, in questo momento, siano interdetti al pubblico ci dà la dimensione di ciò che stiamo perdendo e di cui purtroppo siamo complici se non decidiamo di opporci. Certo, magari questi luoghi fossero sempre pieni! Evidentemente sono considerati superflui. Credo che la cultura serva oltre che a comprendere il presente e prevedere il futuro, ad evolvere, a divertirci con intelligenza, per spazzare via i barbari e chi non ha niente da dire, serve a sconfiggere gli ignoranti che ci governano. L’arte misura la temperatura della civiltà. Quello che mi ha rattristato in questi mesi, è la totale incapacità di prendere una posizione da parte degli artisti, l’incapacità di essere comunità di far pulsare il sangue ribelle nelle proprie vene.

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