C’è una pandemia. Si chiama “disoccupazione” e si può eradicare una volta per tutte

Mancanza di lavoro e assenza di fiducia

di Pavlina Tcherneva

Negli Stati Uniti, il Covid-19 ha agito come detonatore per la disoccupazione di massa. Ciò non ha fatto altro che esporre ulteriormente le evidenti disparità economiche presenti nella vita di tutti i giorni in USA: assistenza sanitaria, lavoro, banche, sistema carcerario, istruzione, alloggi. All’interno di questa miscela tossica si cela un altro motore d’ingiustizia sociale: la disoccupazione. Si tratta di una caratterista del nostro sistema economico data sempre come scontata quando non direttamente giustificata, minimizzata durante le fasi espansive del ciclo economico ma difficile da ignorare ora, nel mezzo di questa pandemia.

E, quando dico “pandemia”, non intendo il Covid-19. Intendo la disoccupazione di massa, ossia una crisi incombente di nostra creazione.

A differenza di altri Paesi, dove l’intervento pubblico è stato utilizzato a garanzia che i lavoratori a rischio di perdita d’impiego per via della crisi economica causata dal Covid-19 non venissero licenziati, negli Stati Uniti ci si è arresi alla presunta “inevitabilità” della disoccupazione di massa. Si è trattato di un errore enorme. Il budget previsto per il CARES act sarebbe stato più che sufficiente a corrispondere ogni singola retribuzione in USA per tre mesi. La Germania, che nello stesso periodo ha attuato il blocco dei licenziamenti, ha avuto un incremento del tasso di disoccupazione dal 5% di marzo a un contenuto 5,9% di aprile laddove in USA si è verificata una vertiginosa ascesa del numero di disoccupati nello stesso periodo e il tasso di disoccupazione è passato dal 4,4% al 14,7%. A maggio, un leggero decremento della disoccupazione (dal 14,7al 13,3%) è servito quale scusa affinché il Congresso (a guida repubblicana) rifiutasse di fare passare un ulteriore pacchetto di aiuti contro la disoccupazione. È come allontanare il salvagente da una persona che sta annegando, solo perché si è avvicinata un poco alla riva.

Dato che ci siamo dimostrati incapaci di affrontare una emergenza sanitaria quale un’epidemia è, sembriamo tristemente impreparati ad affrontare l’altra epidemia: l’epidemia della disoccupazione.

La disoccupazione ha tutte le caratteristiche di un’epidemia e si propaga come tale. I licenziamenti di massa sono l’agente infettivo.

Questa non è un’iperbole. La disoccupazione ha tutte le caratteristiche di un’epidemia e si propaga come tale. I licenziamenti di massa sono l’agente infettivo e si diffondono da vetrina a vetrina, da famiglia a famiglia, da comunità a comunità. Quando licenziate, le persone riducono le proprie spese. Meno acquisti da parte delle persone significa meno vendite da parte delle aziende. Queste ultime rispondono con ulteriori licenziamenti, privando del reddito altri lavoratori. La disoccupazione si diffonde come un virus in quanto, nel momento in cui una persona diviene disoccupata, quest’ultima spinge involontariamente un’altra persona a perdere il lavoro.

La disoccupazione non è, per così dire, un’epidemia daltonica. Non attacca alla cieca e non colpisce in modo indiscriminato. Anzi: sceglie con estrema cura le proprie vittime. Il mondo del lavoro è un potente motore di riproduzione delle disuguaglianze di razza e di sesso. Uomini e donne afroamericani soffrono tradizionalmente di tassi di disoccupazione molto più alti rispetto ai bianchi americani. Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupati fra i giovani della comunità nera sono permanentemente a livello di depressione economica. Nel maggio 2020, ad esempio, mentre il tasso di disoccupazione fra i bianchi americani è sceso (dal 13,8% al 12,1%), tra i neri americani è aumentato (dal 16,7% al 16,8%).

L’enorme percentuale di afroamericani di sesso maschile tra la popolazione carceraria ha effetti estremamente nocivi sulle loro prospettive d’impiego. In un recente studio si stima che, ad esempio, nel 2014 quasi il 30% dei neri negli Stati Uniti non riceveva un solo dollaro di reddito durante i primi anni d’impiego. Sono sbalorditive le disparità presenti in modo patologico nel mondo del lavoro. Gli stessi lavoratori, che la nostra società ritiene di particolare importanza per il fatto di svolgere lavori essenziali, muoiono a tassi più elevati e soffrono di alti livelli di disoccupazione.

Come un’epidemia, anche la disoccupazione è virulenta e ha un impatto duraturo sulle comunità e sulle persone, in particolare sui più vulnerabili tra noi: coloro che sono stati assunti per ultimi ma che sono i primi a essere licenziati; coloro che soffrono delle condizioni di lavoro più precarie, di orari irregolari, di retribuzioni basse e di benefit nulli o minimi; coloro che non dispongono di risparmi (o che li hanno esauriti oppure che li stanno per esaurire) e coloro che sono maggiormente soggetti a livelli d’indebitamento alti e sempre meno sostenibili (di nuovo, negli Stati Uniti si tratta tipicamente di donne e persone di colore). I lavoratori disoccupati di lunga durata soffrono di redditi permanentemente più bassi durante tutta la loro vita lavorativa e nel contempo soffrono di periodi maggiori di assenza d’impiego. Nella letteratura economica è addirittura presente uno specifico termine per indicare questo tipo di fenomeno, un nome che sembra in effetti riferirsi a una patologia medica: isteresi. Quest’ultima parola si riferisce a come gli effetti della disoccupazione persistano anche dopo lo choc iniziale provocato dall’irrompere di una crisi economica.

Anche la disoccupazione ha effetti letali. Essa aumenta i tassi di mortalità, i suicidi e la propensione alle malattie. I disoccupati e le loro famiglie soffrono di tassi più elevati di patologie di tipo sia fisico sia mentale, sono soggetti a visite più frequenti dal loro medico e spendono di più in farmaci. I loro figli tendono maggiormente a soffrire di malnutrizione e di patologie legate all’alimentazione, e affrontano prospettive a loro volta scarse nell’ambito dell’istruzione e del lavoro. La disoccupazione causa il degrado della comunità, aumenta l’impiego di risorse pubbliche (al fine di attenuare tutti questi effetti socioeconomici negativi legati a questo fenomeno) e riduce le entrate fiscali locali. Come un morbo, la disoccupazione non colpisce solo i disoccupati, ma anche coloro che li circondano.

Una cura per la disoccupazione

Oggi, negli Stati Uniti, ogni scelta di tipo sanitario è condizionata dall’impatto economico che questa potrebbe provocare. In particolare, il motore primo delle scelte intraprese delle istituzioni pubbliche è la paura di quanti posti di lavoro possano venire meno a causa di tali scelte. Tuttavia, anche se non abbiamo ancora una cura definitiva per il Covid-19, sappiamo bene come eradicare la piaga economica, civile e sociale della disoccupazione di massa per sempre e una volta per tutte.

Il modo più rapido e indolore di affrontare la crisi della disoccupazione è attraverso l’intervento diretto del settore pubblico. Lo Stato può occupare tutti i disoccupati. Può farlo direttamente esso stesso, garantendo in questo modo anche la salute pubblica e la salute di questi lavoratori. Lo fece anche Franklin Delano Roosevelt durante la grande depressione degli anni trenta attraverso progetti infrastrutturali finanziati con fondi pubblici, iniziative di conservazione e tutela ambientali e possibilità d’impiego in favore di artisti e musicisti.

Non mancano le cose che possiamo e dobbiamo fare. La creazione di programmi d’impiego utili ad affrontare questa crisi è necessaria, ma si tratta di una risposta ancora inadeguata. I progetti temporanei terminano non appena l’opinione pubblica percepisce il problema della disoccupazione come non sufficientemente grave, lasciando così privi di lavoro milioni di concittadini.

Il Covid-19 può anche essere qualcosa d’imprevisto, ma la disoccupazione di massa è stata pianificata.

L’unico modo per affrontare il flagello della disoccupazione una volta per tutte è attraverso il Lavoro Garantito, un programma attraverso cui il settore pubblico fornisca buoni posti di lavoro con salari dignitosi a qualsiasi cittadino li desideri, indipendentemente dalla condizione personale dei richiedenti e dalle circostanze per cui si domanda di aderire a tale programma. Non importa se l’economia si stia ancora riprendendo da una crisi molto profonda oppure se si sia vicino alla condizione di pieno impiego: senza l’istituzione di un programma permanente utile a impiegare chi abbia difficoltà a trovare lavoro, noi lasceremo che tra di noi rimangano sia le ingiustizie economiche sia quell’epidemia silenziosa – inflitta alle persone e alle comunità – dalla disoccupazione.

Oltre  a disuguaglianze di razza ed economiche persistenti da lunga data, ora in USA vi sono da affrontare altre due calamità: quella della salute pubblica (aggravata dalla mancanza, negli Stati Uniti, di un sistema sanitario di tipo universalistico come invece presente in tutti gli altri Paesi economicamente sviluppati del mondo) e quella della disoccupazione di massa. Sinora abbiamo risposto alla prima creando la seconda. Il Covid-19 può anche essere qualcosa d’imprevisto, ma la disoccupazione di massa è stata pianificata. Mentre medici e scienziati cercano il più celermente possibile di trovare cure efficaci per il Covid-19, noi sappiamo già come proteggere i posti di lavoro esistenti e in che modo creare buone opportunità d’impiego per i disoccupati, chiunque questi ultimi siano e ovunque si trovino. Il tempo di realizzare il Lavoro Garantito su base permanente è ormai arrivato.

Pavlina Tcherneva è professore associato di economia al Bard College di New York e ricercatrice presso il Levy Economics Institute. Il suo lavoro è incentrato sulla ricerca macroeconomica negli ambiti della Modern Money Theory e delle politiche fiscali, con particolare attenzione alla piena occupazione e in special modo ai programmi di Lavoro Garantito. Autrice del libro, pubblicato nel giugno 2020 in lingua inglese dalla casa editrice Polity Books, “The Case for a Job Guarantee”.

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