di Paolo Genta
Quante decine o centinaia di indizi e di ”coincidenze” saranno ancora necessari affinché il popolo dormiente di questa nazione violentata da quarant’anni di soprusi di Stato si accorga della situazione di violenta repressione e di annullamento dei diritti fondamentali, che si sta instaurando? “Wir sind das Volk!” (Noi siamo il popolo) gridavano con determinazione e gioia i tedeschi della DDR quel 9 Ottobre 1989 davanti alla Nikolaikirche di Lipsia. Ma gridavano anche “Auf die Strasse!” (tutti in strada) e “Keine Gewalt!” (nessuna violenza). Ironia di una storia che continua a ripetersi cocciutamente. Perché erano anche i tempi di quella Tienanmen cinese del 4 giugno 1989: una Cina a cui ancora potevamo permetterci di guardare da lontano, come qualcosa che, in fondo, non ci riguardava. E invece, eccola qui la Cina, che fa irruzione dentro le nostre coscienze, dentro i nostri corpi, imposta da un governo non legittimato (erede di leggi elettorali già riconosciute incostituzionali), che, come è tradizione dei regimi autoritari, fa strame del parlamentarismo. Eh sì, perché il metodo cinese (sfrenato turbocapitalismo delle élite e capillare controllo sociale delle masse, rivestiti da ipocriti richiami al “socialismo popolare”) è stato scelto per noi, dalle élite globaliste, dopo il fallimento di altri due ben noti e colossali esperimenti sociali della storia: la rozza dittatura socialista di stampo staliniano, ormai lontana nel tempo e sbugiardata dalla smaccata evidenza della sua radicale incapacità di gestire la pianificazione economica; il Neoliberismo, introdotto a forza di conquiste postbelliche e commerciali in paesi, dapprima, a regime democratico-parlamentare e ora commissariati dalle multinazionali e deprivati delle loro stesse Costituzioni. Il capitalismo neoliberista, certo, non è ancora morto, ma, almeno per noi “masse”, è un modello insostenibile, tenuto in vita da strutture di sfruttamento e di coercizione del lavoro. Queste strutture, però, per i padroni del mondo della finanza internazionale sono irrinunciabili e trovano un forte ostacolo alla propria espansione illimitata, nelle istituzioni democratiche e nel Welfare State, entrambi generatori di richieste di diritti e tendenzialmente sottrattori di consenso totale. Il capitalismo neoliberista andrebbe secondo loro riadattato in versione autoritaria, perché per loro non è affatto in crisi: necessita solo di un “upgrade”, che può venire dal modello cinese, che si presenta invece ideale. Nominalmente socialista ma fortemente ancorato ad una “Demokratur” elitaria di partito, a forte centralismo autoritario e con una salda ideologia pseudo-collettivista, negatrice di ogni autodeterminazione individuale, fortemente dirigista ma, paradossalmente, innestato su un impianto neoliberista sfrenato, che riesce a bloccare ogni opposizione delle masse e ad eliminare con silenziosa repressione il pensiero critico dei non allineati. Nessuna richiesta di consenso: basta una omologazione totalitaria imposta da un impianto giuridico illiberale ma “legale” e per definizione impossibile da sradicare, senza arrivare allo scontro diretto (come nel caso delle proteste, per ora fallite, dei cittadini di Hong Kong questa primavera). Questo è ciò che ci aspetta fra pochi mesi e che, anzi, sta già diventando realtà delle prossime settimane, percepibile agli occhi di chi anche solo intuisce la smisurata abnormità dei provvedimenti adottati. Preoccupa in modo angosciante, però, il numero considerevole di tantissime acefale adesioni, più o meno consapevoli, alla ridicola e indimostrabile versione governativa (che si rifiuta ostinatamente, in tutti i modi, di esibire le basi scientifiche delle decisioni adottate). E in realtà questo è il problema, almeno in Italia. “Sind wir das Volk?”, cioè: siamo, noi italiani, popolo? Il nostro “Volk” è profondamente diviso. Qui non accade ancora nulla di ciò che è stato a Berlino, a Londra, a Parigi, a Zurigo il 29 agosto 2020. Dobbiamo combattere tre paure: la prima, quella della “pandemia” in sé, è facilmente liquidabile da chi è da tempo evaso dal mainstream e segue l’informazione alternativa documentata. La seconda è la paura dei manipolatori, che mostrano terrificanti tratti di malvagità psicopatica: un’angoscia che cresce con l’acquisizione di informazione su cose come il pedosatanismo, le catene di omicidi degli oppositori al Deep State in America, l’arroganza sorda e spietata delle incredibili imposizioni che ci assediano ogni giorno e gli smisurati quanto inaccettabili conflitti di interesse. Ma si tratta pur sempre della paura di un nemico che chi è disposto a tutto può, però, affrontare con serena determinazione. La terza è, invece, quella che sgomenta di più anche chi ha liquidato o controllato le prime due. E’, appunto, questa stucchevole constatazione che a differenza di cinquanta anni fa, quando si sapeva protestare, ora, almeno qui da noi, la stragrande maggioranza del popolo non solo accetta supinamente decisioni irresponsabili, antiscientifiche, palesemente illegali e criminali, ma invoca addirettura a gran voce protezione, svendendo la propria vita biologica e sociale per trenta denari di (falsa) sicurezza vaccinale della propria incolumità: una incolumità che è disposta a difendere passando letteralmente sul corpo degli altri (i non-vaccinandi), rifiutando cocciutamente le informazioni che contraddicono la sua “zona di comfort” e trasformandosi in una massa di pericolosi delatori. Quindi che fare? Lo scontro tra “sottoposti” è parte del progetto del mainstream. Vediamo che da mesi sta montando drammaticamente una netta contrapposizione nelle stesse relazioni tra individui in famiglia, in strada, sul lavoro, tra colleghi. Avventurarsi a discutere con gli “integrati”, per gli “apocalittici” non sarà un’impresa facile: e quella del Covid19 non è che l’ennesima occasione di tragico confronto tra critici della versione ufficiale (beceramente etichettati come complottisti, terrapiattisti, vegan-omeopatici, no-vax, fascisti e, ora, negazionisti) e semplici individui inermi ed impauriti o perfino “collaborazionisti” e “debunker”, proni fino al paradosso al diktat dei loro padroni, strenui difensori di un mondo scontatamente decifrabile e ovvio. Le armi di entrambi sono affilate fin dai tempi dell’11 settembre: sì, perché in questi vent’anni, ed ora con un andamento esponenziale, sono state migliaia le controversie su tutti i temi “caldi” che rivelavano enormi interessi economici e di dominio per gli uni, e solamente una illusoria fissazione dietrologica, cialtrona, antiscientifica e “complottista” per gli altri. Ed ora i nodi vengono al pettine, perché questa sarà la madre di tutte le battaglie. Occorre dunque essere preparati e mantenere lucidità e capacità di ragionamento, per difendersi dalle menzogne e dalle furbizie dei sicari (ignari o consapevoli) del potere, ma anche dalla sprovveduta ignavia di individui ipocondriaci e inconsapevolmente condiscendenti. Alternativamente è anche possibile scegliere un cinico silenzio, ma pochi ce la fanno, davanti a scene ed affermazioni a volte di conclamata imbecillità. I “critici della versione ufficiale” (questo il loro vero nome) sono nati così: sono i figli dei loro prof di Filosofia, dei loro libri, della loro sete di conoscenza o di quell’innato “senso morale” (o semplice intuizione animica) che permette loro, spesso, di smascherare l’inautenticità e l’inganno. E, come critici, preferiscono morire, almeno, guardando in faccia chi li vuole uccidere, e non rimanendo abbracciati, ignari e sbigottiti, a tremare in attesa di un improbabile Dragone che li venga a salvare, come i coniglietti di Kung-Fu Panda. Solo un Dio ci può salvare, diceva Martin Heidegger nella famosa intervista a Der Spiegel del 1976. Forse, però, basterà ricordarsi alcune semplici regole, che il pensiero antico e orientale ci ha tramandato. I convinti del sistema non sono nemici, ma vittime. Seguono il loro percorso di vita con gli strumenti (cognitivi e culturali) che sono stati loro dati e che sono stati capaci di sviluppare nel solo modo che essi conoscevano. Occorre ascoltarli senza essere supponenti: decidere se insinuare in loro un ragionevole dubbio con qualche domanda, evitando affermazioni perentorie o, se sono colleghi, magari glissare per ragioni di necessaria convivenza. L’ascolto è una tecnica difficile, socratica, ma rispettosa dell’altro, anche se ciò che si ha davanti può non solo non piacere ma profondamente irritare. Non sarà facile, infatti, ascoltare pazientemente e “virilmente” petizioni di principio “scientifiche” o paralogismi basati sul principio di specializzazione (“scusa, ma tu che parli, sei un virologo?”). Qui si può ricordare che nessuno ha il dovere di laurearsi nella disciplina di cui critica razionalmente le sole affermazioni che possono avere, però, tragiche conseguenze sociali e politiche. Sono logica e ragionamento argomentativo quelli che ci permettono di affrontare posizioni spesso scientiste e dogmatiche, sostenute, in genere, da “esperti” mediatici altamente selezionati per la loro fedeltà al pensiero unico. E proprio questi “esperti” sembrano spesso, sorprendentemente, ignorare i princìpi base della scienza che pretendono di rappresentare: identità, non-contraddizione, terzo escluso, induzione, deduzione, causalità, protocollo del doppio cieco e molti altri. Come poi ci insegna Massimo Mazzucco da anni con il suo giornalismo di alto profilo, l’onere di una risposta coerente ad una critica che dimostra la falsità di una affermazione non è di chi muove la critica ma di chi la riceve. Spesso, invece, chi riceve affermazioni probanti che lo smentiscono finisce per difendersi con un “e allora dimmelo tu che sai…”. Le affermazioni perentorie e categoriche dividono, irritano, attirano posizioni di difesa o di momentaneo assenso e sono inutili ai fini di una ricerca comune del vero. Le domande, invece, rispettano l’altro: sono democratiche, umili, mai insolenti né ingiustificate e, se ben poste, limitano la diversione e mantengono le sequenze logiche corrette. Saper ascoltare pazientemente permette di acquisire molti dati sul parlante, di orientarsi nelle sue logiche, di scoprire bias cognitivi, preconcetti. Occorrerà, infine, uscire da una mentalità “verificazionista”, che oppone la propria “vera” tesi a quella evidentemente “falsa” dell’interlocutore: una inutile contrapposizione che genera tensioni anche spiacevoli. La nostra stessa posizione, come quella altrui, è sempre da “falsificare”: va messa alla prova dei fatti, senza difenderla a priori. Il metodo falsificazionista protegge chi critica, dalle accuse di essere di parte o di doppiopesismo, conserva un valore retorico positivo: stesse regole per tutti e nessuno al riparo del processo di falsificazione. E’ un approccio onesto e difficile da rifiutare (a patto che venga concesso il tempo per un ragionamento, quindi non nei media). Riassumendo: l’impatto del Covid più vicino a noi è già quello con il nostro “consocio”. Conviene prepararsi alle buone tecniche di comunicazione, perché, come molti si stanno accorgendo, la riconquista dei diritti democratici e della nostra stessa autodeterminazione biologica non passerà dalla violenza della contrapposizione ma da un aumento generalizzato di consapevolezza e di cambiamento interiore che riconosce potenza ed energia alla parola e alle forme-pensiero collettive.
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