di Francesco Cappello
Quelli che ‘bisogna tornare al nucleare’ non valutano la disponibilità effettiva del combustibile nucleare che è una risorsa assai scarsa e per ora non rinnovabile né i costi complessivi, altissimi, del complesso della filiera nucleare, giustificabili solo pensando al rapporto inscindibile tra nucleare civile e militare
In Italia si torna a discutere del “tradizionale” nucleare da fissione, già bocciato da due referendum e dai tragici incidenti di Chernobyl e Fukushima.
Palazzo Chigi ha confermato, come anticipato dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, l’intenzione di presentare entro la fine di gennaio un disegno di legge quadro per rilanciare il programma nucleare italiano. L’adozione dei decreti attuativi richiederà circa due anni. Il piano legislativo prevede la creazione di una nuova agenzia per il nucleare, con un focus sui mini-reattori modulari (vedi il mio Nucleare. È ora. L’Italia è pronta? Piccolo non è necessariamente bello). Questa tecnologia è al centro di una recente collaborazione che vede coinvolte l’italiana Enea e le francesi Edison ed Edf.
L’Italia è in prima linea nella preparazione della guerra nucleare
Violando il Trattato di Non-Proliferazione, l’Italia non si limita a schierare sul proprio territorio bombe nucleari statunitensi (le B61 ad Aviano e Ghedi), preparandosi a usarle su ordine USA ma tramite la Leonardo costruisce missili nucleari per l’arsenale francese.
I prezzi di un bene salgono quando esso è scarso ed assai richiesto. Ecco l’andamento dei prezzi dell’uranio a partire dal 2017
Una centrale media ne consuma circa 20 tonnellate all’anno
I costi economici del nucleare sono insostenibili
Per quanto alto sia il prezzo dell’uranio esso incide assai poco sul prezzo del kwh elettrico da nucleare.
Per calcolare l’effettivo prezzo del kwh da nucleare bisognerebbe valutare tutti costi dell’intera filiera del nucleare, dalla installazione allo smantellamento (il decommissioning può richiedere decenni) passando per l’arricchimento, i costi di esercizio della centrale e costi necessari al trattamento e confinamento delle scorie, ecc. (vedi nota 1). Calcolati i costi complessivi bisognerebbe confrontarli con l’energia effettivamente prodotta e venduta al consumatore finale. Si trovano così costi di produzione sostenibili soltanto grazie all’intervento di sostegno pubblico. A pensar male gli alti costi del nucleare civile (vedi nota 1) si giustificano con il suo supporto al nucleare militare (2). Non a caso i nove paesi che possiedono armi atomiche – se si esclude Israele che insiste ipocritamente a non ammettere esplicitamente di detenere ordigni nucleari – possiedono reattori nucleari ad uso civile.
L’Uranio è una risorsa scarsa
Come corollario bisognerebbe aggiungere che i prezzi salgono quando l’offerta non riesce a star dietro alla domanda. La stragrande maggioranza dei politici che invoca il ritorno al nucleare pare non sapere che per ottenere uranio bisogna scavare molto, o meglio, sempre di più per ottenerne sempre di meno…
Il tenore dei minerali di uranio in una miniera, ovvero la concentrazione di uranio nella roccia, è destinato, infatti, a diminuire significativamente sino al punto di rendere antieconomica l’estrazione. Questo accade perché una minore concentrazione di uranio richiede di lavorare volumi maggiori di roccia per ottenere la stessa quantità di materiale utile, facendo lievitare i costi.
L’estrazione e la lavorazione di minerali a basso tenore comportano un incremento delle spese operative, inclusi carburante, macchinari e manodopera. Inoltre, il processo di separazione del minerale consuma più energia, rendendo l’intera operazione meno efficiente.
La gestione ambientale diventa anch’essa più complessa, poiché il trattamento di quantità maggiori di materiale estratto genera più rifiuti e scorie, aumentando così i costi di smaltimento e i requisiti normativi.
In queste condizioni, le miniere con basse concentrazioni di uranio tendono a perdere competitività rispetto a quelle con depositi più ricchi, dove l’estrazione è economicamente più vantaggiosa.
La redditività di una miniera con un tenore in diminuzione dipende da vari fattori. Un aspetto determinante è il prezzo di mercato dell’uranio: se il prezzo è alto, anche miniere con concentrazioni più basse possono essere sostenibili. Tuttavia, se il prezzo dell’uranio scende, il margine di guadagno diminuisce, rendendo alcune miniere non più convenienti. Nuove tecniche, come la lisciviazione in situ, possono permettere di estrarre uranio a costi più contenuti, rischiando di rendere economicamente vantaggiosi anche i minerali a basso tenore. La storia fornisce esempi concreti di questo fenomeno. Ad esempio, la miniera di Rossing in Namibia ha affrontato difficoltà economiche proprio a causa del calo del tenore e dei prezzi bassi dell’uranio. In altri casi, come in Canada e in Australia, lo sviluppo di nuove tecnologie ha consentito di mantenere operative miniere che altrimenti sarebbero state chiuse.
Tuttavia, se i costi di estrazione e lavorazione superano il valore di vendita dell’uranio estratto, l’attività diventa insostenibile dal punto di vista economico, costringendo alla chiusura della miniera o alla riduzione delle operazioni.
In ogni caso man mano che si abbassa la concentrazione bisogna movimentare e setacciare quantità crescenti di rocce a parità di minerale ottenuto. Il risultato è una devastazione del territorio ancora più pronunciata.
La propaganda corrente presenta l’uranio come una fonte di energia pulita. Affermano impunemente che non verrebbe prodotta CO2 (secondo loro responsabile dei cambiamenti climatici) senza mai pensare a tutta la filiera di produzione dell’energia elettrica dal nucleare (vedi nota 1).
Intanto diamo un’occhiata alle miniere di uranio
L’estrazione e la separazione dell’uranio causano diversi problemi ambientali. Innanzitutto, generano grandi quantità di rifiuti minerari, contenenti elementi radioattivi residui e metalli pesanti, che possono contaminare il suolo e le falde acquifere.
L’estrazione dell’uranio richiede l’uso di grandi quantità di acqua, soprattutto nei processi di lavorazione e separazione del minerale. L’acqua viene utilizzata per raffreddare i macchinari, per il trasporto dei materiali estratti e, soprattutto, per la lisciviazione chimica, una tecnica che separa l’uranio dal minerale grezzo. Tuttavia, questo utilizzo può causare impatti ambientali significativi, come l’inquinamento delle falde acquifere con sostanze chimiche e radioattive, richiedendo rigorosi controlli e sistemi di gestione per ridurre i rischi. L’inquinamento delle acque è amplificato dall’uso di acidi o sostanze chimiche tossiche per la lisciviazione. Inoltre, la dispersione di radon e polveri radioattive durante l’estrazione e la lavorazione rappresenta una minaccia per l’aria e per le comunità vicine. Anche la gestione delle scorie radioattive richiede attenzioni rigorose per evitare danni a lungo termine.
Le riserve mondiali di uranio sono distribuite principalmente tra alcuni paesi chiave. L’Australia detiene circa il 28% delle riserve globali, con oltre 1,7 milioni di tonnellate. Segue il Kazakistan con circa 906.800 tonnellate (15% delle riserve mondiali) e il Canada con 564.900 tonnellate (circa il 10% delle riserve globali). La Russia e la Namibia, ciascuno con circa l’8% delle riserve mondiali, pari a circa 470.000 tonnellate. Anche il Sudafrica, il Brasile e il Niger possiedono circa il 5% ciascuno delle riserve globali. La Cina possiede il 3% delle riserve di uranio, pari a circa 224.000 tonnellate. In totale, le riserve conosciute di uranio ammontano a circa 5,4 milioni di tonnellate. È importante notare che queste cifre si riferiscono alle riserve di uranio conosciute che possono essere estratte in modo economico.
Dividendo la quantità totale di riserve conosciute (5.400.000 tonnellate) per il consumo annuo (67.000 tonnellate) nelle centrali esistenti avremmo una durata di 80 anni. Se si quadruplicassero le centrali esistenti, a parità di potenza, avremmo uranio per 20 anni. Un pò pochino. In tanti hanno sperato nei reattori veloci autofertilizzanti che sono però rimasti una chimera. Hanno troppi problemi. Oggi solo 3 su 437 reattori nucleari operativi nel mondo sono autofertilizzanti. Uno di questi, il reattore autofertilizzante europeo, Superphénix in Francia, non è più funzionante. È stato operativo dal 1986 fino al suo arresto nel 1997. Dopo diversi problemi tecnici e controversie, il reattore è stato definitivamente chiuso e smantellato.
Il conto della serva. 16mila centrali per sostituire i combustibili fossili
Non è difficile stabilire che ai consumi attuali sarebbero necessarie quasi 16mila centrali nucleari da un gigawatt per sostituire completamente i combustibili fossili a livello mondiale (vedi nota 3). Se per ipotesi riuscissimo a costruirle tutte, esse potrebbero aiutarci solo per un paio d’anni prima di esaurire completamente l’uranio disponibile che dovremmo saper estrarre completamente e rendere disponibile nello stesso ordine di tempo…
Ovviamente sono tante le obiezioni che è possibile muovere ad un calcolo così approssimato e grossolano ma esso rende bene l’idea.
(1) La filiera nucleare comprende diverse fasi, ciascuna delle quali comporta costi economici distinti e significativi. Proviamo a individuarli tutte stimando seppure indicativamente i relativi costi.
Si parte dall’esplorazione e individuazione del sito, che include la ricerca dei giacimenti di uranio, le analisi ambientali per valutare la sostenibilità dell’estrazione e l’acquisizione dei permessi necessari. I costi stimati per questa fase si aggirano tra i 10 e i 50 milioni di dollari per sito. Pur essendo relativamente contenuti rispetto all’investimento complessivo, questa fase è fondamentale per identificare riserve economicamente sfruttabili.
La seconda fase riguarda l’estrazione e il trattamento del minerale uranifero. L’estrazione avviene attraverso diverse tecniche, come miniere a cielo aperto, miniere sotterranee o lisciviazione in situ, a seconda delle caratteristiche geologiche del sito. Una volta estratto, il minerale viene trattato per produrre il “yellowcake,” una polvere concentrata di uranio. I costi attuali superano i 70 dollari per libbra di uranio estratto. A ciò si aggiungono i costi di trasporto del “yellowcake” verso gli impianti di conversione e arricchimento, che possono variare tra i 5 e i 20 dollari per chilogrammo, a seconda della distanza e delle misure di sicurezza necessarie.
Nella fase successiva, il “yellowcake” viene convertito in esafluoruro di uranio (UF₆) per facilitarne l’arricchimento isotopico, un processo essenziale per aumentare la concentrazione di uranio-235, il principale isotopo fissile. Questo arricchimento può essere effettuato con tecnologie come la centrifugazione e la diffusione gassosa, che comportano un costo medio di 40-60 dollari per unità di lavoro di separazione (SWU). Successivamente, l’uranio arricchito viene trasformato in pastiglie di biossido di uranio (UO₂), che vengono assemblate in barre di combustibile, con un costo complessivo di produzione che varia tra i 200 e i 300 dollari per chilogrammo.
La fase di progettazione, costruzione e operazione della centrale nucleare rappresenta il cuore della filiera e il maggiore investimento. La progettazione comprende la scelta del sito e lo sviluppo del progetto ingegneristico, mentre la costruzione prevede l’installazione del reattore, dei sistemi di raffreddamento e delle infrastrutture di sicurezza. Il costo complessivo per costruire una centrale di capacità tipica di 1.000 MW si aggira tra i 6 e i 10 miliardi di dollari.
Una volta operativa, la centrale comporta costi annuali di esercizio, che includono la gestione del personale, la manutenzione degli impianti e i controlli di sicurezza, con una spesa stimata tra i 50 e i 100 milioni di dollari. Parte di questi costi è destinata alla gestione del combustibile esausto, che richiede piscine di raffreddamento o cask di stoccaggio temporaneo.
Il trattamento e il confinamento delle scorie radioattive rappresentano un’altra componente significativa dei costi. Le scorie di basso e medio livello vengono trattate e stoccate in depositi superficiali o intermedi, mentre le scorie ad alta radioattività richiedono soluzioni più complesse, come il confinamento in depositi geologici profondi. Il costo del trattamento e dello smaltimento delle scorie può variare, ma rappresenta in media il 10-15% dei costi totali della filiera, con cifre che possono superare i 500 milioni di dollari nel ciclo di vita di una centrale.
Infine, alla fine della vita utile della centrale, stimata generalmente tra i 40 e i 60 anni, si procede con lo smantellamento e il decommissioning. Questa fase comporta la rimozione del combustibile esausto, la demolizione delle strutture, la decontaminazione delle aree contaminate e il ripristino del sito. I costi sono rilevanti, oscillando tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari per centrale.
(2) L’uranio utilizzato nelle centrali nucleari può essere trattato e arricchito per essere utilizzato nelle armi nucleari, ma questo processo è complesso e rigorosamente controllato a livello internazionale. Ecco una panoramica:
- Uranio Naturale: L’uranio estratto dalla terra contiene circa lo 0,7% di uranio-235 (U-235), l’isotopo fissile necessario per le reazioni nucleari. Il resto è principalmente uranio-238 (U-238).
- Arricchimento: Per l’uso nelle centrali nucleari, l’uranio viene arricchito fino a contenere circa il 3-5% di U-235. Questo livello di arricchimento è sufficiente per sostenere una reazione nucleare controllata in un reattore.
- Riprocessamento: Il combustibile nucleare esaurito dalle centrali può essere riprocessato per separare il plutonio e l’uranio residuo. Il plutonio può essere utilizzato per la produzione di armi nucleari.
- Arricchimento Ulteriore: Per essere utilizzato nelle armi nucleari, l’uranio deve essere ulteriormente arricchito fino a contenere oltre il 90% di U-235. Questo livello di arricchimento è noto come “uranio altamente arricchito” (HEU).
- Conversione: L’uranio arricchito viene convertito in una forma metallica e modellato in componenti specifici per le armi nucleari.
Non a caso l’arricchimento dell’uranio e il riprocessamento del combustibile nucleare sono soggetti a rigorosi controlli internazionali per prevenire la proliferazione delle armi nucleari. Organizzazioni come l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) monitorano e verificano le attività nucleari dei paesi per garantire che l’energia nucleare venga utilizzata solo per scopi pacifici. Ovviamente si possono avere reattori finalizzati solo alla produzione di plutonio per armare le testate nucleari come pare succeda nel caso della Corea del Nord. Rimane il fatto che praticamente tutti i nove paesi che possiedono armi atomiche – se si esclude Israele che insiste a non ammettere esplicitamente di detenere ordigni nucleari – possiedono reattori nucleari ad uso civile.
(3) Il consumo energetico globale totale nel 2021 è stato di circa 173.340 terawattora (TWh), secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE). Circa l’80% di questa energia proviene da combustibili fossili, il che significa che circa 138.672 TWh sono forniti da petrolio, gas naturale e carbone. Una centrale nucleare da 1 GW produce circa 8,76 TWh all’anno (dato che ci sono 8.760 ore in un anno). Per sostituire i 138.672 TWh di energia prodotta dai combustibili fossili il numero di centrali necessarie possiamo ottenerlo dividendo i 138.672 TWh complessivamente necessari con gli 8,76 TWh/anno per centrale che dà 15.832.
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