di Pasquale Pugliese
Lo scorso 17 febbraio, all’età di 93 anni, ci ha lasciati Johan Galtung, fondatore e pioniere della ricerca scientifica per la pace. Ho incontrato una sola volta di persona Galtung partecipando ad un seminario/laboratorio che svolgeva – lui che aveva avviato i Peace studies internazionali e fondato il PRIO-Peace Research Institute di Oslo, insegnato nelle maggiori università del pianeta e fatto il consulente per le Nazioni Unite – all’interno di una sala civica di un quartiere a Bologna, agli inizi degli anni 2000. E per spiegare la “trascendenza” del conflitto – spiazzando tutti con la sua ironia – aveva posto la questione dell’arancia contesa da due bambini e delle possibili soluzioni, dimostrando che sono molto più di due, se solo si va oltre la superficie del conflitto e si indagano i bisogni profondi di ciascuno dei confliggenti. Per le note biografiche su Galtung rimando al profilo pubblicato su azionenonviolenta.it e ai molti articoli usciti sul sito web del Centro studi Sereno Regis, qui vorrei riepilogare in estrema sintesi alcuni degli elementi essenziali del pluriverso culturale e metodologico che fonda la proposta della nonviolenza di questo poliedrico studioso.
Superare la logica binaria della guerra
Approfondire l’approccio di Galtung ai conflitti significa dotarsi di alcuni di quei saperi che mancano maggiormente e drammaticamente nel nostro tempo, nel quale, da ogni parte, non si cerca altra soluzione se non quella binaria della guerra, fondata sulla dicotomia vittoria-sconfitta. Con la conseguente escalation di violenza, vittime ed armamenti, in un ciclo dal quale non si vede via d’uscita – per di più all’interno di un’orizzonte nucleare esplicitamente minacciato – che contamina sempre più pericolosamente la cultura profonda. “Una società strutturata attorno alla violenza diventa caricatura di se stessa,” – scrive Galtung – “sia che la violenza venga dalla cima di una piramide di potere, sia che provenga da piccole sacche di guerriglia: il terrorismo dall’alto è uguale al terrorismo dal basso. La cultura diventa un magazzino di ferite profonde, affondate nella memoria collettiva e nell’anima della gente, ferite che vengono usate per travisare ogni cosa e persona, piuttosto che per cercare nuovi approcci”. Una fotografia perfetta della condizione attuale, dove il più grave dei problemi – la guerra – è spacciato per la loro soluzione.
Diagnosi, prognosi e terapia dei conflitti
Per Galtung la pace non è solo l’assenza di guerra – che è una delle forme nelle quali si esprime la violenza – ma è l’assenza, e la progressiva riduzione, di ogni tipo di violenza, attraverso la trasformazione nonviolenta di tutti i conflitti. Inoltre, “essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione”. Questo obiettivo necessita di un preciso e specifico lavoro per la “pace con mezzi pacifici”, che affonda le radici e trova il suo nutrimento negli studi per la pace che sono, appunto, “lo studio delle condizioni del lavoro per la pace”. E’ la ricerca alla quale Galtung si è dedicato per tutta la vita, con un approccio epistemologicamente trans-disciplinare. A partire dalla scienza medica, per quanto riguarda i presupposti della triade Diagnosi, Prognosi, Terapia: “la nostra cultura è mancante della Diagnosi delle cause dei conflitti, della Prognosi di cosa sta per accadere, delle proposte di Terapia”. Affrontare i conflitti in questa chiave – comprendendone anche le specifiche strutture relative agli elementi della Contraddizione, agli Atteggiamenti ed ai Comportamenti all’interno di essi – è la precondizione per poterli “trascendere” senza violenza, la quale invece “è il pilastro per i media” che chiamano “oggettività” la cronaca della violenza. Non a caso, l’impegno culturale e formativo di Galtung si rivolgerà anche a promuovere il giornalismo di pace.
Violenza diretta, strutturale e culturale
La violenza non si esprime solo nella sua dimensione manifestamente dispiegata ed esplicitamente distruttiva, come accade nella guerra e nei conflitti armati, ma ha delle componenti più profonde, implicite, nascoste, ma necessarie affinché la punta dell’iceberg della violenza propriamente detta, e percepita da tutti, possa esplodere. In un ideale “triangolo della violenza”, se il vertice in altezza è rappresentato dalla “violenza diretta”, i vertici di base sono rappresentati, da un lato, dalla violenza strutturale, che è sia una violenza in sé, per esempio nelle forme dello sfruttamento economico o della repressione del dissenso, che – in riferimento ai conflitti armati – l’approntamento delle strutture organizzative ed economiche che preparano e consentono le guerre: dagli eserciti alle spese militari, dagli armamenti alle banche armate. L’altro vertice è rappresentato dalla violenza culturale, ossia da una forma pervasiva di giustificazione della violenza diffusa dagli apparati formativi, dai dispositivi mediatici, dalle curvature linguistiche che rendono l’esercizio della guerra – e la sua preparazione strutturale – un fatto ovvio, da non mettere in discussione. Alimentando anzi, al bisogno, il bellicismo e l’odio per il “nemico”, ossia la propaganda di guerra. La violenza culturale è, dunque, “sempre simbolica, si trova nella religione e nell’ideologia, nel linguaggio e nell’arte, nella scienza e nel diritto, nei media e nell’educazione. La sua funzione è piuttosto semplice: legittimare la violenza diretta e quella strutturale”. Come accade nel nostro paese negli ultimi due anni. E spesso chi produce e vende strumenti di guerra produce e vende anche i media che la promuovono.
I saperi della nonviolenza per trasformare e trascendere i conflitti
Per queste ragioni l’impegno nonviolento, a differenza di quello genericamente pacifista, è indirizzato a de-costruire tutta la filiera della violenza – non solo a contrastare questa o quella guerra – ed a costruire alternative nonviolente in riferimento a tutti i livelli esaminati. A cominciare dalla capacità di trascendimento dei conflitti, ossia dalla loro trasformazione nonviolenta. Ciò significa che non è il conflitto in sé a dover essere eradicato, in quanto il conflitto è fisiologicamente generato dai differenti bisogni contrapposti, ma la modalità violenta – e dunque patologica – della loro conduzione. “Il maggior numero delle parti in conflitto”, scrive Galtung, “ha qualche posizione valida: il lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e sostenibile a partire dal quel <<qualcosa di valido>>, per quanto minuscolo possa essere”. E’ necessario, dunque, aiutare le parti ad uscire dalla polarizzazione e dalla reciproca de-umanizzazione. Le tre caratteristiche necessarie, i tre saperi, per lavorare alla trasformazione de-polarizzante e umanizzante dei conflitti sono l’empatia, ossia la capacità di vedere le cose anche dal punto di vista dell’avversario, la creatività, in quanto ricerca di soluzioni non scontate e prevedibili, e la nonviolenza, in quanto metodo che porta oltre il conflitto violento, lo trascende, appunto. Saperi indispensabili per stare al mondo, in maniera non reciprocamente distruttiva, all’interno di sistemi complessi naturalmente generatori di conflitti.
Ristudiare Galtung a fondo
All’interno di queste essenziali coordinate di base, che si intersecano ed evolvono con altre più complesse per le quali rimando direttamente alle pubblicazioni di Johan Galtung – tra le quali in italiano Pace con mezzi pacifici (Esperia, 1996) e Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare (Plus, 2008), dalle quali sono tratte le citazioni di questo articolo – Galtung ha svolto un’operazione di diagnosi-prognosi-terapia di molti conflitti sulle diverse scale (micro, meso, macro e mega), che oggi – di fronte ad un mondo in fiamme, incapace di cercare soluzioni di pace con mezzi pacifici – è più urgente che mai ristudiare a fondo.
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