di Vincenzo Russo Traetto
A la lampa, a la lampa chi ce more e chi ce campa Lassa chiovere Maronna senza lampe e senza trone Luna ‘e gennaio e Sole ‘e maggio quanno lampa scampa
‘O Diavolo ha criato ‘o tuono pe’ fa paura a la gente e Cristo ha criato ‘o lampo pe’ l’avvertì e ‘a Luna pe’ dicere s
Nasce primme ‘o Destino e po’ nascimme nuje Anema e curaggie ‘a Morte s’arraggie
Luna Lunella mamma ‘e tutt’e stelle
Quanno trone schiove e nun fa male ‘a carne se mettene ‘e prievete n’terra e diavolo ‘ncielo Salute ‘a nuje e a Isso in Paravise
Czeslaw, ma gli altri lo possono chiamare anche Ceslao, venne in Italia negli anni novanta del secolo scorso, arrivò sulle rive del Volturno non con una zattera ma seguendo il percorso della Domitiana, una terribile strada costruita dai Romani per collegare il porto di Puteoli al resto dell’impero. Il percorso originale attraversava il fiume in prossimità dell’ultima ansa passando proprio sotto al castello e lì c’era una zattera, per la precisione una barchetta, una scafa, che collegava la riva destra con la riva sinistra, la scafa era un “tratto liquido” della strada romana. Ma la scafa, questa navicella, per il fatto di esistere, per la spola sottolineata quotidianamente, dava il senso al luogo ed il nome al paese.
Sissignore, io di Castel Volturno vi scrivo: lo scafaiuolo scendeva dal castello, scioglieva l’ormeggio come le briglie ad un cavallo e guadava il fiume trasportando da una parte all’altra persone e cose, cibo e materiale di lavoro, commerci vari. Le bufale no, le bufale nuotavano e a volte anche i bufalai quando era bel tempo oppure poteva capitare che la scafa era attraccata alla riva opposta e non c’era lo scafaiuolo e allora bastava una mezza guardata “…facciamo nu’ tuffo a sciummo”.
I castellani? Perdinci a loro sembrava nel ventre materno ed il fiume faceva ninna nanna, a volte li sgridava e straripava, qualche volta era troppo tardi. Il Volturno, che dopo essere partito da un fosso a Vigna Lunga sul Monte Meta, nel Molise, e avere misurato più di 170 km, era contento che la scafa stesse ad aspettarlo insieme al castello, un saluto prima di spirare nel mare.
Poi arrivò il ponte che come quello sul fiume Drina, in Bosnia, cambiò la storia e la natura dei luoghi, l’andamento ed il ritmo. Le bufale furono subito contrarie. Il ponte per loro era pericoloso per questioni pratiche. Il fiume anche lui era contrario per questioni sentimentali: gli mancava la carezza della scafa. Al ponte sembrava che gli desse uno schiaffo e lo mettesse in secondo piano. Poi tutti dissero che il ponte era pericoloso e costruirono una strada in un’altra parte, un’anabasi nell’entroterra verso Cancello Arnone, in un luogo che era solo campagna ed ora sembra disperazione, ed il ponte offeso si chiuse in sé stesso comprendendo che cosa avesse passato la scafa ed i scafaiuoli quando erano stati abbandonati.
Czeslaw anzi Ceslao veniva dalla Malopolska, la parte meridionale della Polonia quasi a ridosso della Slovacchia. Da poco aveva superato la ventina, alto, biondo, occhi cerulei che cambiavano il colore passando dalla montagna al mare incavati in orbite scavate ed ombrate come se non dormisse mai o comunque male. Forse un sogno trasformatosi in un incubo, lo cerchi durante tutto il giorno, vuoi dormire per incontrarlo il sogno ma poi diventa un’ossessione e allora non dormi. Però lui fischiettava non come una volta, così gli diceva la mamma, però fischiettava.
“A la lampa a la lampa chi ce more e chi ce campa.”
Lui non ci moriva ma ci campava male. Le mani grandi e cotte dalle temperature dell’acqua che scioglie a 35 gradi il latte di pecora e di mucca nel Bryndza o nell’Oscypek, formaggi delle antiche tribù moldave che nel 1400 popolarono la sua terra sul fiume Wisla. La
sua sagoma era tracciata più dalle ossa che dalla muscolatura. Sembrava che le spalle tirassero su il corpo, lo attaccassero a penzoloni in un punto invisibile nell’aria. Non i muscoli ma le ossa delle braccia giravano il mestolo nella tina di legno come se fosse il vento a muoverlo come i panni a sventolare su una corda.
Czeslaw lasciò Cracovia ed il Castello di Wawel ed il fiume Wisla per un altro castello ed un altro fiume.
“Nasce primme ‘o Destino e po’ nascimme nuje”
Il destino lo legava ad un fine, ad un castello e ad un fiume e qui trovò tutto, Czeslaw trovò tutto ma non quello che gli mancava, non quello che cercava. A Castel Volturno in un caseificio il suo scheletro si aggrovigliava con un mestolo su una tina e girava il latte di bufala per la mozzarella in un caseificio sul fiume vicino al castello nel solco della vecchia strada romana che si faceva aiutare dalla scafa.
“Luna Lunella mamma ‘e tutt’e stelle”
“Il fiume Wisla partì dai Carpazi e attraversò tutta la Polonia, passando per Cracovia e poi Torun nella Pomerania, girando per Varsavia, fino alla baia di Danzica nel Mar Baltico” così spiegò la mamma a Czeslaw.
“Quando arrivò alla collina di Wawel non c’era Cracovia ma solo una collina, una grotta che portava al fiume, un drago e poi arrivò un Re.” continuò il papà.
Come c’era un drago? Il drago. Il drago – il terribile Smok Wawelski – viveva nella caverna sotto la collina, alla riva sinistra del fiume.
Smok Wawelski era terribile e particolare, un drago polacco che come tutti i polacchi era un fervente cattolico ed incline al senso di colpa. Una volta pensò di prendere gli ordini e
diventare vescovo, essere ricordato nella Storia come “il vescovo di Cracovia”. Per natura non poteva esimersi da fare il drago ma per intelletto ed etica non poteva che chiedere perdono.
Tutti i lunedì mattina usciva dalla grotta volteggiava sul fiume e appena avvistava un campo lo bruciava, poi si pentiva e per compunzione si rotolava nella cenere e dopo un po’ si sbellicava dalle risate. Il raccolto che poteva essere frumento, grano, segale, prugne, legumi tutto in fumo. I contadini allora furenti lo accerchiavano con pale e forconi ma lui lesto ad uno lo arrostiva e ad un altro lo inghiottiva, con i trebbi si toglieva un bottone da un molare o una scarpa da un canino. Si alzava in volo e tornava nella caverna come se niente fosse, piangeva e pregava. Era la sua natura. Non poteva farci niente. Era fatto così. La particolarità: gli piacevano le ragazze. Quando gli correvano incontro le contadine per scacciarlo via, li Smok Wawelski si sublimava. Era un drago particolare, raccontava mamma e papà a Czeslaw. Apriva le braccia in segno di resa e faceva gli occhi dolci per rassicurarle. Non tutte le contadine ma quelle giovani, quelle maturate gli provocavano lo stesso effetto dei loro mariti: sbadiglio, fuoco e boccone.
Le giovani contadine lo calmavano, era più forte di lui il sentimento, e seppure aveva fame digiunava, in lui il cuore dominava lo stomaco, se aveva lo schiribizzo di stracciare tutte le spighe di grano alzate per l’obwarzanek – il pane a forma di anello ricoperto di sesamo e papavero – desisteva, se stava per azzannare i germogli del pikny jas – particolare fagiolo bianco della zona – e vedeva una fanciulla si bloccava e cominciava a fischiettare. Ma non è che dovevano essere contadine potevano essere anche nobili damigelle lui fischiettava. Per lui non c’era distinzione di classe e ceto sociale: non discriminava le diafane guance delle principesse a quelle abbruscate delle agricole. Per cui su tutto il corso del fiume Wisla – dalla Slesia al Baltico ma con particolare riferimento ad un raggio di 100 km dalla collina di Wawel – ogni lunedì o si sentiva uomini gridare – stavano arrostendo, avevano una coscia azzannata, non si trovavano più una mano, un piede – o si sentiva un fischiettio e risolini di donzelle. Era lui: Smok Wawelski, “il drago che amava le ragazze”, così sarà ricordato dalla Storia.
Appena vedeva una ragazza mora o biondo cenerino che fosse, occhi verdi come i platani o scuri come la pece il drago terminava di cacciare fuoco e iniziava a fischiare, vagolando fischiettava.
“Luna ‘e gennaio e sole ‘e maggio quanno lampa scampa”
Si addivenne, quindi, ad una soluzione con il drago, un ragionevole compromesso dei contadini. Ogni mese una bella ragazza veniva accompagnata all’ingresso della caverna: un dono, un sacrificio. Quando Smok Wawelski, stava per uscire dalla grotta, la giovinetta tremante dietro il fusto di una quercia balbettava un ritornello solfeggiava una melodia dolce ed incerta e si parava davanti, lui la scopriva e zacchete non si alzava più in volo, rimaneva lì, fisso la guardava e la riguardava, la scrutava e a seconda del colore dei capelli i suoi occhi cambiavano colore cominciando un lungo girotondo intorno alla fanciulla, un fischio poi un altro, poi un motivetto, addirittura una melodia intera. Tutto il giorno fino al tramonto. Le prime volte le famiglie le davano per morte. Avevano messo in conto che per salvare i mariti ed i raccolti dovevano sacrificare a turno una “figlia di famiglia” al mese ma non avevano previsto la coerente reazione del drago che invece di incenerirle gli dedicava balli lunghissimi ed articolati e repertori musicali melodiosi e bellissimi che neanche al Festival dei Due Mondi del Duca di Spoleto si erano mai sentiti. Così raccontavano, per lo meno, le giovani che ritornavano in famiglia inaspettatamente a notte inoltrata. Sul volto delle fanciulle si coglieva un’espressione particolare un certo non so che. Erano esauste, per niente tramortite dalla paura, anzi.
Si arrivò al punto che l’offerta, l’ex voto, da mensile divenne settimanale e tutta la cerimonia fu spostata dal lunedì mattina al sabato pomeriggio con contestazione dei barbieri e tripudio dei ristoratori. Le famiglie accompagnavano le figlie e non andavano più via ascoltando tutto il repertorio di danza e canto di Smok Wawelski.
Il drago aveva capito l’antifona, la sua natura dragonesca era divisa tra mangiatore di uomini, inceneritori di raccolti e appassionato della bellezza femminile. Prevaleva quest’ultima, inoltre aveva una bella voce ed un elegante movimento di artigli.
“‘O Diavolo ha criato ‘o tuono pe’ fa paura a la gente e Cristo ha criato ‘o lampo pe’ l’avvertì e ‘a Luna pe’ dicere si”
Ed il re? Cosa poteva mai fare un re?
Che poteva Krakus, il leggendario re dei Lechiti, ardimentoso e nobile eroe che aveva unito sotto un unico stemma ed una sola lingua i polacchi, i pomeraniani, i masoviani, i vistolani, i slesiani e, perfino, i polabi? E quando narro dei polabi vi dico il vero.
Era pericoloso un patto tra popolo e drago senza sigillo del re. “Se i re non mettono i sigilli che ci stanno a fare?” avrebbe chiesto un vistolano.
“Se il popolo risolve i problemi da solo che senso ha avere un re?” insinuò un pomeraniano. I polabi non parlavano ma assentivano.
Il Re Krakus volle dare anche lui un “contributo istituzionale” e mandò una settimana sua figlia Wanda dal drago, il primo sabato dell’anno, alla presenza di tutta la famiglia reale e di tutto il popolo, clero e nobiltà compresi. L’occasione era il festeggiamento del fidanzamento della principessa con un potente principe germanico il cui nome già di per sè incuteva qualche timore: Arnolfo. Un “Arnolfo” non si chiama mai a caso. Ma i polacchi ed i tedeschi si sono sempre amati e poi odiati, poi riamati in un ciclo permanente. E i polabi avevano compreso tutto ma non parlavano.
“Lassa chiovere Maronna senza lampe e senza trone, Quanno trone schiove e nun fa male ‘a carne”
Wanda, la principessa figlia del re, era silfide, snella, slanciata, naturalmente elegante, timida ma risoluta, biondo vivo, camminava leggera come il vento tra le foglie degli alberi, pelle bianca come il latte di capra e due occhi come le mandorle, che non sai se sono nere o rosse.
Bastò un attimo, il primo, che Smok Wawelski, il drago, incrociasse gli occhi di Wanda, la principessa figlia del re Krakus, che gli occhi cerulei del primo non trovarono il colore giusto per i capelli di lei e lei non trovasse il respiro giusto alla fiammata degli occhi del drago. Un innamoramento di una saetta: un lampo ed un tuono. Il drago non seppe cantare e non seppe danzare, lei non seppe sorridere e neanche piangere. Fu tutto un attimo che lui la prese sotto un’ala e scomparvero nella sagoma della luna piena.
“Luna Lunella mamma ‘e tutt’e stelle”
Non passò la notte che Wanda fu riportata al castello del Re con le idee chiare: “Non voglio sposare Arnolfo”, timida ma risoluta, e fu guerra. Ma per Arnolfo non era solo un matrimonio politico ma un affare di cuore, era invaghito di Wanda e mise sotto assedio Cracovia, la città di re Krakus, con la minaccia di distruggerla. “Per tutto il cielo e poi per Odino, Thor e Freya, io la amo e l’altro è un drago!” ed in aggiunta “Per Balder, Heimdall e Tyr, è un drago e non ha il mio casato di antenati illustrissimi e potentissimi di Regni e Reami, Ducati, Marche, Contee”.
Morirono in poche settimane centinaia di soldati e civili da ambo le parti, cento, mille, duemila, trentamila e forse anche centomila – polacchi, pomeraniani, polabi e germanici – in un numero tale che non era neanche lontanamente confrontabile con quelli che aveva mangiato il drago Smok Wawelski in più di mille anni.
Re Krakus, impacciato e per porre rimedio all’offesa che proclamava Arnolfo, emanò un bando con un premio di gloria e ricchezze a chi avesse ucciso “il drago che amava le ragazze” proprio così era proclamato dal banditore che passava tutti i paesi dalla Slesia a Danzica. Mille cavalieri, conti, marchesi, principi e duchi si offrirono ma tutti furono letteralmente polverizzati. Occorre tener conto che nella contabilità di coloro che combatterono il drago e perirono non sono conteggiati quelli che alla presentazione della “domanda al Re per il rilascio del nulla osta per uccidere il drago che amava le ragazze” non avevano voluto pagare la tassa, la famosa imposta di bollo, pur nella giustezza della motivazione. “Ma come io non solo rischio di farmi ammazzare ma devo pagare del mio all’Erario?”. Non si poteva dare torto a questi valorosi, che pero ebbero salva la vita per non aver voluto pagare il fisco. La vicenda del drago di Cracovia, allora, fu l’occasione in cui si seppe che le guerre servono ad arricchire i re e che non pagare le tasse allunga la vita.
Ma veniamo a chi si cimentò nell’impresa.
“Smok Wawelski, esci fuori sono il principe Castratio De Castratiis, nobile e prode di mille….” Non finiva il proclama che una vampata di fuoco lo rendeva tizzone.
“Smok Wawelski, la mia spada ha sete del tuo sangue io sono ….” Neanche il nome ed un artiglio gli faceva volare la testa.
“Anema e curaggie ‘a Morte s’arraggie”
Allora un contadino si propose. Dove fallì la spada, vinse la zappa. Il villano Szewczyk Dratewka riempì di zolfo la carogna di un agnello che pose di fronte alla caverna del drago, Smok Wawelski – affamato di cuore ma anche di pancia – la divorò in un boccone, e subito si videro gli effetti dello zolfo. Il drago cacciava fuoco incontrollato da tutti gli orifizi: una scorreggia provoco l’incendio di un paio di pini, un rutto alla luna illuminò a giorno la collina di Wawel e l’intera città di Cracovia, uno starnuto provocò l’effetto di un razzo sbalzandolo di almeno 300 metri in alto, gli uscivano dei fuocherelli dalle orecchie che gli davano un’aria sinistra. Ed in bocca la lingua screpolata dall’arsura, iniziò una terribile sete e si butto nel fiume, bevve che bevve che quasi prosciugò il Wisla.
Bevve fino ad esplodere.
Tutti i pezzi del drago si sparsero per tutta la collina di Wawel e la città di Cracovia e per l’intera regione della Maropolska, la testa arrivò nel palazzo del Re ai piedi del letto della principessa Wanda. Gli occhi della testa mozzata del drago al tocco della principessa cambiarono colore e licenziarono una lacrima, una per ogni orbita, due lacrime. Dove c’è gusto non c’è perdenza, Wanda aveva gustato un amore oramai perso, si lanciò dal balcone abbracciata alla testa del drago cadendo sul groviglio di reticolato e lamiere che era stato messo dal Re padre a difesa del castello. Il corpo della principessa fu dilaniato dalle punte e dalle lame, si stracciò in mille pezzi che presero mille traiettorie diverse. Una gamba nel fiume, un piede in un raccolto di segale, un dito nella piazza principale e la testa della principessa arrivò ai piedi del trono di Krakus e quella del drago ai piedi del cavallo del principe.
Ognuno aveva avuto il suo,
“…se mettene ‘e prievete n’terra e diavolo ‘ncielo”
La guerra tra il principe Arnolfo ed il re Krakus terminò con la morte di Wanda.
Il re polacco ed il principe tedesco condivisero che la colpa era tutta del drago che amava le ragazze e che loro si erano limitati a fare gli uomini. Che altro avrebbero potuto fare?
“Non era possibile tollerare un drago che bruciava raccolti e mangiava uomini. No, non era possibile. Quali disastri per il benessere della popolazione. E poi quella caverna con un drago, tutti avrebbero avuto paura e Cracovia non sarebbe mai stata abitata da nessuno, tutti sarebbero scappati. La città ha bisogno di sicurezza” così disse il Re ai nobili e al popolo. E per la verità dobbiamo dire che il popolo applaudì.
“È stata la volontà di Dio, che ha guidato il libero arbitrio dell’uomo a fare giustizia di una bestia contronatura e di una principessa contro la volontà di Dio. Le cose innaturali sono contro Dio. Ed ora preghiamo.” disse il vero vescovo di Cracovia.
“Ma Io a Wanda l’amavo, ma Io non potevo permettere questa offesa. Non era solo contro di me ma contro tutto il mio casato, il mio casato di antenati illustrissimi e potentissimi di Regni e Reami da mille anni a questa parte. Fosse stato un drago di alto lignaggio forse avrei compreso e – dico di più – tollerato ma Lei si era innamorata di un drago che aveva a che fare con campi e contadine, un drago plebeo e che poi cantava e ballava. E che caspita siamo al circo. Odino non avrebbe compreso, la mia religione, oltre al mio casato, mi impedivano di accettarlo …” e, dopo una breve pausa, il principe Arnolfo chiuse con un “..questo”.
Il Re nella sua magnanimità al suo dolore di padre che aveva perso una figlia aggiunse il dolore di un principe che aveva perso l’amata. Ed io nel raccontarvelo ho un nodo alla gola.
Il Re se ne fece carico e ne sospirò: “Eehh” e con occhi in lacrime e la voce rotta accolse capo coronato di Arnolfo sul proprio petto “Arnolfo, non disperarti. Il mio dolore di padre immagina il tuo per la cara Wanda ma ti volevo dire che c’è Gertrude, la mia seconda figlia, no… no… non fare così… Mi chiedi com’è Gertrude? Occhi verdi come i platani ma anche scuri come la pece. I capelli? Come vuoi tu? Se vuoi si mette la parrucca? Te la devo far conoscere.”
Tutti ebbero il loro, anche Gertrude che in questa storia non c’entrava per niente.
“Cracovia fu costruita da un Re – con un castello su una collina sopra la caverna di un Drago, sulla riva sinistra di un fiume – che aveva una figlia morta per amore di un drago ucciso per l’amore di una figlia.” così terminarono il racconto la mamma ed il papà a Czeslaw.
Il sogno di Czeslaw, ma gli altri lo possono chiamare anche Ceslao, lo portò da Cracovia a Castel Volturno perché dove c’è un castello ed un fiume c’è un drago che ama una donna, trovò tutto ma non quello che cercava.
Castel Volturno aveva un castello e un fiume, aveva perso una scafa per un ponte e un ponte per una strada, ma un drago che amava le ragazze non lo aveva mai avuto e a volte i racconti della mamma e del papà sono ingannatori e questo Ceslao che venne da Cracovia non lo sapeva.
A la lampa, a la lampa chi ce more e chi ce campa
A la lampa, a la lampa chi nasce Lumbardo e chi nasce Albanese A la lampa, a la lampa chi nasce Drago e chi nasce Re
A la lampa, a la lampa chi nasce Castiello e chi nasce Sciummo (fiume) A la lampa, a la lampa chi moro e canta e chi campa e accire (uccide) A la lampa, a la lampa chi nasce a Krakau pe’ truvà nu’ drago vene ccà
A la lampa, a la lampa chi nasce a Castiello e se ne và e chi ce vene e nun ce vo’ restà Salute ‘a nuje e a Isso in Paravise
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