
di Ernesto Melappioni
Nel 1945, con la Carta delle Nazioni Unite, il genere umano voltò pagina. Dopo due guerre mondiali e l’orrore dei crimini contro l’umanità, nacque un nuovo ordine giuridico internazionale che riconosceva, per la prima volta nella storia, la centralità dell’individuo come soggetto di diritto internazionale.
Questo processo trovò compimento nel 1948 con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, documento fondante che sanciva la dignità umana come valore assoluto e indisponibile. Un evento che diede avvio a un fermento di trattati, patti e convenzioni internazionali che fece sorgere gli Stati di Diritto contemporanei predisposti con la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) a proteggere i diritti fondamentali dell’uomo, ponendosi complementari e cooperativi con questo innovativo ordinamento giuridico internazionale.
È stata una rivoluzione silenziosa e profonda. Dopo secoli di predominio degli Stati sovrani assolutisti o autoritari, che potevano disporre della vita dei propri cittadini come una loro esclusiva proprietà, il nuovo ordinamento pose l’essere umano al centro, gerarchicamente superiore a ogni entità pubblica o privata. Da oggetto del diritto interno, l’individuo diventava finalmente soggetto in diritto internazionale titolare di diritti inviolabili e universali.
In questo gap si inserisce lo Statuto di Roma del 1998, trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale (CPI), con il compito di perseguire singoli individui rei di aver commesso crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra. Un meccanismo teso a garantire che nemmeno i capi di Stato siano al di sopra della legge. Per la prima volta nella storia, l’intoccabilità istituzionale, retaggio di un mondo pre-moderno, è stata messa in discussione in nome della giustizia e del progresso sociale globale. Un accordo internazionale di cooperazione fra Stati che devono restare disponibili alla cattura e alla consegna di certi criminali alla CPI, quando su questi pende una mandato di cattura emesso dalla medesima. Un decisivo passo in avanti che oggi, però, si dimostra minacciato dalla resurrezione degli Stati Autoritari con l’ideologia sovranista contrapposta alla sovranità giuridica individuale. Oggi, in uno Stato di Diritto, se l’individuo viene offeso o danneggiato dalle istituzioni, può richiedere ricorso e portare sul banco degli imputanti anche lo Stato. In uno Stato Autoritario questo non è possibile.
Nel novembre 2024, la CPI ha emesso mandati di arresto internazionali contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità per le loro azioni criminali commesse a Gaza. Le accuse sono gravi: uso della fame come arma, attacchi deliberati alla popolazione civile, e ostacolo sistematico all’accesso a beni essenziali come cibo, acqua, elettricità e cure mediche. Davanti a un simile atto giuridico, gli Stati di Diritto, avrebbero dovuto alzare le difese per proteggere l’ordinamento giuridico internazionale a tutela della persona umana. Invece, alcuni Paesi hanno scelto di voltare le spalle al diritto internazionale.
L’Ungheria di Viktor Orbán, Stato membro della CPI, ha accolto Netanyahu con tutti gli onori. La visita ufficiale avvenuta ad aprile 2025, nonostante il mandato di arresto, è stata accompagnata dalla clamorosa dichiarazione del governo ungherese di ritirarsi dalla Corte Penale Internazionale, attaccando la legittimità della Corte e rifiutandosi di eseguire il mandato. In questo scenario è il caso di ricordare che Viktor Orbán, nella storia recente, è stato artefice della dissoluzione dello Stato di Diritto ungherese. Nell’arco della sua salita al potere, attraverso colpi di riforme costituzionali, ha determinato la rottura della separazione dei poteri accentrando nell’esecutivo sia il potere legislativo che quello giudiziario, oltre a limitare la libertà d’espressione prendendo il controllo sugli apparati strategici dell’informazione. Così facendo si è accostato a quello schieramento di neo Stati Autoritari definiti anche con il binomio terminologico di “democrazie illiberali”, come la Russia di Vladimir Putin o la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. Dove la democrazia è solo apparente e populista, priva di pluralismo e meccanismi di bilanciamento e controllo tipici degli Stati di Diritto. Quella di Viktor Orbán di accogliere Benjamin Netanyahu, calpestando il mandato di cattura della CPI, è stata una frattura profonda e pericolosa con il solo fine di proteggere un indagato per crimini contro l’umanità. Orbán, in questo modo, ha sfidato apertamente l’ordinamento internazionale che tutela i diritti fondamentali di ogni individuo del pianeta.
Ancor più significativa è la posizione degli Stati Uniti, che non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma, e quindi non sono formalmente vincolati dalla CPI. Nel febbraio 2025, il primo ministro israeliano ha effettuato un viaggio a Washington per incontrare il presidente Donald Trump. I temi trattati includevano le crescenti tensioni con l’Iran, la situazione a Gaza e le nuove tariffe commerciali imposte dagli Stati Uniti. Questo incontro ha sottolineato la forte alleanza tra i due leader e ha evidenziato la loro determinazione a perseguire azioni militari congiunte contro l’Iran, qualora le trattative sul programma nucleare di Teheran non avessero prodotto risultati concreti. Ma il gesto compiuto da Donald Trump nell’aprile 2025, quando ha accolto Netanyahu per la seconda volta nel giro di pochi mesi, ha un peso politico ancora più drammatico. Un’accoglienza calorosa, corredata da elogi pubblici e nuovi pacchetti di aiuti militari, manda al mondo un messaggio devastante: chi è potente è impunibile. Sempre e comunque a discapito dell’ordinamento giuridico internazionale a tutela dei diritti umani. Tuttavia, non tutte le reazioni internazionali sono state favorevoli. Paesi come la Spagna, l’Irlanda e i Paesi Bassi hanno espresso la loro intenzione di applicare il mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale, dichiarando che avrebbero arrestato Netanyahu se fosse entrato nei loro territori. La Spagna, in particolare, ha sottolineato il suo impegno nel rispettare le decisioni della CPI e nel garantire la giustizia internazionale.
Queste visite e le reazioni internazionali ad esse correlate hanno messo in luce le profonde divisioni all’interno della comunità internazionale riguardo alle responsabilità sui crimini di guerra e sulla giustizia internazionale. Mentre alcuni Paesi hanno scelto di sostenere Netanyahu e sfidare l’autorità della Corte Penale Internazionale, altri hanno ribadito l’importanza di rispettare le decisioni della CPI e di garantire che i responsabili di crimini contro l’umanità siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le conseguenze di queste visite e delle reazioni che le hanno accompagnate non si limitano alla sfera diplomatica. Esse legittimano il disprezzo per le istituzioni internazionali, minano la fiducia nella giustizia globale, bloccano il progresso sociale e pongono una minaccia concreta alla sopravvivenza di quel fragile sistema di protezione dei diritti umani che la comunità internazionale ha faticosamente costruito dal dopoguerra in poi.

Siamo di fronte a un inquietante cambiamento geopolitico. Il diritto internazionale non è più uno strumento fondante e neutrale per il sano progresso del genere umano, ma sta diventando il risultato di un compromesso costante tra giustizia e potere. Quando alcuni Stati, soprattutto quelli più influenti sul piano geopolitico, decidono di disconoscerlo apertamente, il sistema entra in crisi, spalancando le porte alla restaurazione degli Stati Autoritari. Il caso Netanyahu è un banco di prova decisivo che il genere umano sta attraversando. Se si accettasse che un leader possa sfuggire all’indipendenza della giustizia internazionale, grazie alla protezione politica dei suoi alleati, allora si metterebbe in discussione l’essenza stessa dello Stato di Diritto in generale. Oltre ad accettare che gravi crimini, come il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, possano essere trattati come merce di scambio nelle relazioni internazionali, si accetterebbe anche la demolizione dell’indipendenza della giustizia anche nei sistemi giudiziari interni agli Stati di Diritto. Questo è il nodo focale sull’intera questione che gira intorno a Benjamin Netanyahu, essendo il diritto internazionale privo di una centralità statuaria e basato esclusivamente su precedenti giurisprudenziali.
Il principio su cui si fonda la CPI è semplice quanto rivoluzionario: nessuno è al di sopra della legge. Eppure, mai come oggi questo principio appare estremamente vulnerabile. L’isolamento della CPI, sotto attacco sia da parte di regimi autoritari consolidati, che da parte di Stati di Diritto in crisi come quello statunitense, rischia di rendere la circostanza simbolica. Una giustizia senza esecuzione è una giustizia mutilata.
Non si tratta solo di Israele, di Gaza, o di Benjamin Netanyahu. Si tratta del futuro dell’intero ordinamento giuridico internazionale. Ogni volta che un mandato di arresto viene ignorato, ogni volta che un leader accusato di crimini gravissimi viene accolto con tappeti rossi invece che con manette, il messaggio che passa è chiaro: la giustizia vale solo per i deboli.
Il rischio è quello di un ritorno a un mondo pre-1945, dove il diritto era subordinato alla forza, e i diritti umani un lusso riservato ai vincitori. In un’epoca segnata da guerre regionali, emergenze ambientali e crisi migratorie, indebolire il sistema internazionale dei diritti umani significa scavare la fossa della cooperazione globale. La storia ci ha insegnato che l’impunità alimenta la barbarie. Quando non ci sono conseguenze per i crimini, questi si ripetono. Per questo oggi è più che mai necessario riaffermare con forza il primato della persona umana, la centralità della sua dignità, e la superiorità del diritto sulla forza. Oltre ad essere un imperativo morale è una condizione di sopravvivenza per l’intera umanità. Non basta più celebrare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ogni dieci anni o commemorare i crimini del passato con cerimonie solenni. Serve coraggio politico per difendere le istituzioni che rendono quei valori reali. Serve coerenza per applicare la legge anche quando colpisce gli alleati. Serve una volontà collettiva per far sì che la giustizia internazionale non resti un’illusione. Perché se oggi permettiamo che il diritto venga piegato al potere, domani potremmo essere noi, o peggio ancora i nostri figli, a pagarne il caro prezzo. L’umanità è di fronte a un bivio. Quando un autocrate sale al potere e demolisce lo Stato di Diritto, ci resta per decenni. Vladimir Putin ne è l’esempio più eclatante. Decenni di occupazione autoritaria significa demolire la coscienza sociale intergenerazionale di una popolazione a protezione dei diritti fondamentali dell’uomo. Un orrendo salto nel passato che il genere umano non può permettersi.
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