
di Ernesto Melappioni
Tra un roseo Stato Autoritario (se mai esistessero), e un pessimo Stato di Diritto, la scelta non dovrebbe sussistere per un individuo consapevole della storia umana. È una questione puramente logica. Il ragionamento è semplice, dopo millenni di Stati Assolutisti, e dopo i trascorsi Stati Totalitari del ‘900, il genere umano è approdato dopo due guerre mondiali alla Carta delle Nazioni Unite del 1945 e alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, dando forma ai neonati Stati di Diritto. Per la prima volta nella storia è venuto a crearsi un ordine giuridico internazionale a protezione dell’individuo e delle popolazioni. Per la prima volta nella storia l’individuo è stato riconosciuto soggetto in diritto internazionale. Diversamente dagli Stati Autoritari che l’hanno sempre considerato oggetto del loro diritto interno, come un capo di bestiame.
Anche se oggi non è tutto rose e fiori nei contemporanei Stati di Diritto, dal 1945 è scattata una rivoluzione giuridica internazionale che ha fatto fare un netto salto in avanti al progresso sociale del genere umano. Una peculiarità incisiva dello Stato di Diritto è che le leggi da esso emanate devono rispettare sempre e comunque i diritti inalienabili dell’uomo e dell’infanzia e nessun individuo è al di sopra della legge, neanche i capi di governo. Questo è un focus giuridico a prova di qualsiasi speculazione intellettuale: da circa 80 anni l’individuo umano è riconosciuto giuridicamente sacro, dotato di una personalità giuridica gerarchicamente superiore a quella dello Stato e di qualsiasi altro ente pubblico o privato (Art. 6 DUDU), per come espresso dal defunto professore di diritto internazionale Antonio Papisca, docente all’università di Padova ed emerito difensore dei diritti umani, nel suo articolo “Nessuno è sconosciuto”.
Ma molti politicanti di mestiere se ne sono dimenticati, persi e dispersi in sterili diatribe politiche ed egoistici interessi personali e di parte che allontanano e separano la gente comune piuttosto di avvicinarla intorno a questo focus universale. Dal 1945 l’umanità ha un chiaro riferimento giuridico sul quale deve usare la mente ragionante per risolvere qualsiasi questione politica ed economica. Senza un riferimento logico cognitivo qualsiasi ragionamento resta aria fritta in ogni ambito di applicazione. Un idraulico davanti a una casa allagata sa perfettamente quello che deve fare, individuare la perdita, chiudere la manopola dell’acqua generale e riparare la perdita. Sarebbe stupido se questo idraulico per prima cosa si mettesse a raccogliere l’acqua che continuerebbe a fuoriuscire dal guasto della conduttura.
La Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani hanno trasmesso all’intero genere umano un sorta di “codice genetico” inderogabile. Dopo gli eventi drammatici della Prima e della Seconda guerra mondiale è stato alzato un muro giuridico internazionale per evitare che le derive autoritarie di qualsiasi Stato potessero replicare gli eventi drammatici già vissuti nelle guerre precedenti, al fine di evitare una Terza Guerra Mondiale. La neonata formula dello Stato di Diritto, sbocciata in quest’ordine giuridico, si caratterizza dalla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e da validi meccanismi di controllo e bilanciamento a protezione dei diritti fondamentali dell’uomo stabiliti nella sua Costituzione e conformi alle inderogabilità del diritto internazionale.

Questa concezione giuridica dello Stato va tenuta separata dall’aspetto democratico. Lo Stato di Diritto è una cosa, il sistema democratico è un’altra. Come per tutte le altre leggi, anche la regolamentazione dei sistemi democratici interni deve rispettare i diritti fondamentali dell’uomo. Basti pensare che in Italia dal 1993, con la riforma elettorale “mattarellum”, siamo passati alla riforma “porcellum” del 2006 (dichiarata incostituzionale) a quella del “rosatellum” del 2017 che ci ha messo una toppa, allontanando il sistema democratico dagli iniziali principi costituzionali del sistema plurale puro. Anche l’ultima riforma “rosatellum” è fortemente criticata in quanto avvantaggia i partiti più grandi a discapito di quelli più piccoli, e quindi a discapito di una effettiva partecipazione sociale alla vita politica e parlamentare del paese secondo i diritti civili e politici ratificati in trattati internazionali e incorporati nel sistema giuridico italiano. L’Italia, è nata come una Repubblica parlamentare, ciò significa che l’elettore delega la sua sovranità all’intero parlamento come assemblea generale divisa in Camera dei deputati e senato. Da ciò se ne deduce che la riforma “rosatellum” esclude dal dibattito parlamentare idee politiche minoritarie, violando nei fatti i diritti umani.
Da questa oggettiva analisi, posta sul focus dei diritti umani, è facile comprendere che se la garanzia della separazione dei poteri e dei meccanismi di controllo e bilanciamento venisse recisa, lo Stato di Diritto verrebbe abbattuto come un albero indifeso sotto il ruggito della motosega del primo psicopatico di turno. Una circostanza drammatica che porterebbe all’instaurazione di uno Stato Autoritario con il controllo centralizzato di tutti e tre i poteri nelle mani di pochi. Un cataclisma giuridico che andrebbe a degradare l’equilibrio dell’ordinamento giuridico internazionale e conseguentemente le libertà individuali e i diritti politici e civili di qualsiasi individuo.
Mentre prima i colpi di stato erano la strategia più rapida per abbattere uno Stato democratico attraverso la forza militare per instaurare uno Stato Autoritario, oggi vengono utilizzate delle tecniche più raffinate con delle pianificazioni a lungo termine. Strategie machiavelliche, solitamente basata su propagande dogmatiche e demagogiche, che fanno leva sulle elezioni democratiche per portare al potere leader e coalizioni inizialmente legittime. Cavalli di troia che con il passare del tempo diventano strumenti per consolidare il controllo su tutte le istituzioni dello Stato democratico. La Turchia e l’Ungheria sono esempi lampanti di questo processo.
In Turchia, la svolta autoritaria di Recep Tayyip Erdogan non è stata il frutto di un colpo di stato, ma di un lento e costante processo che ha preso piede dopo una serie di vittorie elettorali. Erdogan, salito al potere nel 2002 con il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), ha inizialmente guadagnato consensi grazie a promesse di riforme democratiche e di sviluppo economico. Ma una volta consolidata la sua posizione, ha cominciato a smantellare quelle stesse istituzioni che avrebbero dovuto bilanciare il suo potere. Nel 2017, un referendum costituzionale ha cambiato radicalmente il sistema politico turco, trasformando il paese da una repubblica parlamentare a una presidenziale. Con questa riforma, Erdogan ha ottenuto poteri esecutivi enormemente ampliati, e la separazione tra i vari poteri è diventata sempre più fragile. Dopo il tentato colpo di stato del 2016, Erdogan ha utilizzato l’emergenza per giustificare una serie di purghe nei confronti di migliaia di soggetti, tra cui giudici, avvocati e giornalisti, creando un clima di paura e sottomissione. Le elezioni, che continuano a svolgersi regolarmente, non sono più un effettivo sistema di bilanciamento, poiché il potere esecutivo controlla ormai quasi ogni aspetto della vita politica e giuridica del paese.
Un altro esempio è l’Ungheria di Viktor Orbán, che ha visto una trasformazione simile, anche se più graduale. Nel 2010, dopo una vittoria elettorale schiacciante, Orbán ha ottenuto il controllo di una vasta maggioranza parlamentare, che gli ha permesso di modificare la Costituzione a suo piacimento. Con una serie di leggi, Orbán ha progressivamente minato l’indipendenza della magistratura, rendendo il sistema giudiziario vulnerabile a pressioni politiche. La libertà di stampa, essenziale per una democrazia sana, è stata altrettanto ridotta, con la concentrazione dei media in mano a pochi gruppi vicini al governo. Orbán ha anche preso di mira le organizzazioni non governative, etichettandole come “nemiche dello Stato” se non favorevoli alla sua agenda. Ciò ha creato un ambiente in cui la libertà di espressione è sotto attacco, e le istituzioni che dovrebbero bilanciare il potere sono sotto il controllo del governo. Nonostante le critiche internazionali, Orbán ha continuato a vincere le elezioni, dimostrando come un sistema elettorale democratico possa essere utilizzato per legittimare un processo di centralizzazione del potere. In entrambi i casi, Turchia e Ungheria, le elezioni democratiche non sono mai state l’inizio di una dittatura aperta, ma hanno segnato un punto di partenza per un progressivo indebolimento delle strutture essenziali alla sopravvivenza dello Stato di Diritto.
Viktor Orbán, durante un discorso pronunciato il 26 luglio 2014, mentre si trovava a Baile Tusnad, una località balneare in Romania, in occasione di un incontro con i sostenitori della sua politica, dichiarò pubblicamente: “Abbiamo bisogno di una democrazia illiberale, dove il governo è forte e capace di difendere l’interesse nazionale, e dove non si lascia troppo spazio a liberali, comunisti e altri gruppi che non sono interessati a difendere gli interessi del popolo ungherese.” Con queste parole, Orbán esponeva la sua visione di una democrazia che mantenesse il sistema elettorale e le strutture politiche fondamentali, ma che mettesse in discussione i principi liberali tradizionali come la separazione dei poteri, la libertà dei media e il rispetto dei diritti umani, civili e politici alla base dell’ordinamento giuridico internazionale.
Il fenomeno delle democrazie illiberali è iniziato a manifestarsi negli anni ‘90 all’interno della neonata Federazione Russa succeduta all’ex Unione Sovietica per opera di Vladimir Putin. Il vero protagonista del nuovo millennio nel mettere in pratica questa raffinata metodologia che è andata ben oltre i confini della stessa Russia, influenzando le sorti di altri Stati di Diritto nel panorama globale. Un autocrate che non ha mai avuto problemi di coscienza a utilizzare qualsiasi mezzo, anche violento, per raggiungere i suoi scopi. Quella messa a punto del regime russo è stata una pianificazione per certi versi più accostabile al gioco da tavola cinese Go che alla recente tradizione scacchista russa. Visto che per giocare bene a questo gioco è la strategia a lungo termine quella che risulta vincente. Il fenomeno delle democrazie illiberali ha preso piede in diverse nazioni a partire dalla fine del XX secolo e nei primi anni del XXI, segnando una tendenza preoccupante nel panorama globale. Questo tipo di regime combina elezioni regolari e strutture democratiche formali con una progressiva erosione delle libertà civili, della separazione dei poteri e dell’indipendenza della giustizia.
Tutto ha avuto inizio all’inizio degli anni 2000, con Vladimir Putin alla guida della Russia. Dopo l’ascesa al potere nel 2000, Putin ha gradualmente centralizzato il potere con una serie di riforme, iniziando a smantellare le istituzioni democratiche mentre preservava una facciata di democrazia. Sebbene il paese tenesse regolari elezioni, la Russia ha progressivamente visto una limitazione delle libertà civili e della libertà di stampa, insieme a un controllo crescente del governo sulle istituzioni. Questo modello autoritario mascherato da democrazia ha posto le basi per una serie di sviluppi simili in altre nazioni. Un altro esempio emblematico di democrazia illiberale si è avuto nelle Filippine, dove Rodrigo Duterte è salito al potere nel 2016. Pur mantenendo un sistema elettorale, Duterte ha adottato politiche fortemente autoritarie, tra cui la famigerata guerra alla droga, che ha portato a gravi violazioni dei diritti umani. L’intensiva repressione e il crescente controllo sulle libertà civili, accompagnati da una retorica populista, hanno rafforzato il carattere illiberale del suo governo, pur senza abbandonare completamente l’aspetto democratico formale. Nel 2010, Viktor Orbán ha assunto la leadership dell’Ungheria e ha iniziato a costruire il suo modello di “democrazia illiberale”. Il paese, membro dell’Unione Europea, ha visto una rapida centralizzazione del potere sotto Orbán, che ha preso di mira l’indipendenza della giustizia, la libertà di stampa e i diritti delle minoranze. In Turchia a partire dal 2010, Erdogan ha iniziato a concentrarsi sempre più sul consolidamento del suo potere, in particolare dopo il tentato colpo di stato del 2016. Ha promosso una riforma costituzionale che ha trasformato la Turchia in un sistema presidenziale, riducendo notevolmente il ruolo del parlamento e aumentando il controllo presidenziale su tutte le istituzioni. Le purghe, la repressione dell’opposizione, il controllo dei media e l’attacco alla libertà di espressione hanno fatto della Turchia un altro esempio emblematico di democrazia illiberale. Nel 2015, la Polonia è entrata nella lista dei paesi con tendenze illiberali sotto la guida del partito Legge e Giustizia (PiS). Il PiS ha iniziato a minare l’indipendenza del sistema giudiziario, il che ha suscitato preoccupazioni in tutta l’Unione Europea. Le riforme hanno limitato il potere della Corte costituzionale e ridotto l’autonomia dei media, portando la Polonia a una situazione di crescente tensione tra i principi democratici e l’autoritarismo mascherato. Simile è la situazione in Bielorussia, dove Aleksandr Lukashenko ha instaurato un regime autoritario fin dal suo primo mandato nel 1994, ma negli ultimi anni ha intensificato la repressione, in particolare dopo le elezioni del 2020, che sono state ampiamente contestate a livello internazionale. Le violenze contro i manifestanti e l’arresto di dissidenti hanno esemplificato la deriva autoritaria del paese, con una democrazia puramente formale che non ha nulla in comune con la partecipazione popolare effettiva. L’India, la più grande democrazia del mondo, ha visto una progressiva evoluzione verso un’autorità illiberale sotto la leadership di Narendra Modi a partire dal 2014. Sebbene le elezioni siano libere, la gestione del governo ha visto un crescente controllo sulle istituzioni, una retorica di intolleranza verso le minoranze e un’influenza crescente delle forze di destra. Le critiche a Modi riguardano l’erosione della libertà di espressione e l’attacco alle minoranze religiose, in particolare i musulmani, pur mantenendo il paese formalmente una democrazia. A questa lista si potrebbero aggiungere altri paesi che stanno seguendo la medesima tendenza come: Filippine, Venezuela, Malaysia, Serbia, Thailandia, Sri Lanka, Nicaragua, Bangladesh, Algeria, Argentina, Ecuador, Guatemala ed altri ancora. Tutti paesi governati a lungo dai medesimi soggetti e coalizioni politiche, senza un effettivo ricambio democratico.
Il fenomeno delle democrazie illiberali è emerso con la Russia di Putin e si è progressivamente diffuso in altre regioni del mondo con il comune denominatore di leader che, pur mantenendo strutture democratiche formali come le elezioni, centralizzano il potere e limitano i diritti fondamentali. Mentre in alcuni casi le tendenze illiberali sono più evidenti e radicali, in altri paesi l’evoluzione è ancora in corso. Tutti questi paesi stanno mostrando, in varia misura, segnali di centralizzazione del potere, limitazione delle libertà civili, repressione dell’opposizione politica e attacchi all’indipendenza della magistratura. È importante monitorare questi sviluppi all’interno di organizzazioni internazionali come l’ONU, dove i diritti umani e la qualità della democrazia sono temi chiave di discussione e intervento.
Ciò che accomuna tutti questi esempi è un’inquietante erosione dello Stato di Diritto, con un crescente utilizzo del potere statale per reprimere l’opposizione e limitare le libertà individuali, pur mantenendo l’apparenza di democrazie. Questo fenomeno dimostra come, sotto la superficie democratica dei giovani e fragili Stati di Diritto, possano emergere regimi autoritari che, a lungo andare, svuotano i sistemi democratici del loro significato. La trasformazione di uno Stato di Diritto in uno Stato Autoritario non avviene più con un colpo di stato violento, ma con una pianificata strategia a lungo termine attraverso dei Cavalli di Troia che vincono regolari elezioni.
Con questa ottica possiamo capire meglio cosa sta accadendo negli Stati Uniti di Trump. Ultimamente la American Bar Association (ABA), un’associazione volontaria di avvocati e studenti di giurisprudenza negli Stati Uniti di portata nazionale, ha preso una posizione fermissima contro gli attacchi al sistema giudiziario e alla professione legale da parte di esponenti dell’esecutivo, rispondendo alle recenti dichiarazioni di Elon Musk. Il miliardario ha utilizzato la sua piattaforma X per invocare l’impeachment dei giudici federali che hanno messo in discussione o bloccato alcuni provvedimenti del presidente Donald Trump atti a riformare in modo violento e radicale l’amministrazione federale. Musk, ha mostrato un atteggiamento di sfida nei confronti delle decisioni giudiziarie contrarie alle politiche dell’esecutivo in carica, ha ripetutamente chiesto che i giudici che si oppongono alla volontà del governo vengano rimossi dalle loro cariche. Secondo Musk, i giudici che “minano” la “volontà democratica del popolo” dovrebbero essere licenziati, minacciando di fatto il sistema di controllo e bilanciamento che caratterizza gli Stati di Diritto.
L’ABA ha risposto con una dichiarazione che, pur non menzionando esplicitamente Musk, ha fatto riferimento ai tentativi di delegittimare i giudici attraverso l’accusa di “corruzione” e alla retorica che incita alla punizione di coloro che non emettono sentenze favorevoli al governo. “Non possiamo avere un sistema giudiziario in cui il governo cerca di rimuovere i giudici semplicemente perché non deliberano come desidera il governo”, ha dichiarato l’associazione, sottolineando che questi attacchi ai giudici rischiano di diventare un pericoloso precedente che potrebbe minare la fiducia nell’indipendenza del potere giudiziario.
Questi sviluppi, seppur legati a singoli episodi politici e giuridici, rivelano una più ampia e preoccupante tendenza: quella di erodere i pilastri fondamentali dello Stato di Diritto statunitense. Come per le altre democrazie illiberali, anche negli Stati Uniti si sta assistendo a una preoccupante minaccia che mira alla separazione dei poteri, dove il potere esecutivo e politico cerca di influenzare e, in alcuni casi, intimidire il sistema giudiziario.
Il caso degli Stati Uniti non è diverso da quello della Russia, dell’Ungheria della Turchia e di altri paesi che seguono questa direzione. L’ABA ha sottolineato che, pur riconoscendo il diritto di critica nei confronti delle sentenze, non può essere accettato che i giudici vengano perseguiti o addirittura minacciati per aver preso decisioni in base alla legge e alla Costituzione. Questo tipo di intimidazione, oltre a minare l’indipendenza del sistema giudiziario, crea un clima di paura che potrebbe spingere i giudici a decidere in base alla politica piuttosto che alla legge. La dichiarazione dell’ABA è chiara: “Non possiamo permettere che l’immunità dei giudici venga indebolita per via politica”. In gioco non c’è solo la questione dei singoli casi, ma la stessa integrità dello Stato di Diritto statunitense e quella dell’ordinamento giuridico internazionale a tutela dei diritti umani.
Questo tipo di attacchi, che attualmente si stanno manifestando in altri Stati di Diretto del mondo con modalità differenti, come gli attacchi dell’attuale governo italiano alla magistratura, sono segnali di un pericolo comune: la trasformazione degli Stati di Diritto in Stati Autoritari. In un clima in cui i leader politici, i miliardari influenti e persino gli elettori più radicali cercano di manipolare la giustizia, il rischio è che la separazione dei poteri venga annientata, dando il via a un ciclo di concentrazione del potere che si autoalimenta nel tempo rendendo sempre più difficile un possibile ripristino. Per come già avvenuto in altri paesi, l’indipendenza della magistratura e la libertà di espressione rischiano di diventare collateralmente sacrificati sull’altare di un “populismo giudiziario” che mira a piegare le leggi alla volontà di pochi, facendo leva sul malcontento sociale e su una diffusa ignoranza delle popolazioni contemporanee sul senso profondo dello Stato di Diritto a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
L’ABA ha invitato anche tutti i professionisti legali e la gente comune a non restare in silenzio di fronte a questi attacchi. La difesa dello Stato di Diritto deve essere una priorità oltre che per i giuristi anche per tutti coloro che comprendono l’importanza dello Stato di Diritto come conquista storica determinante per un sano progresso sociale universale dell’intero genere umano. Se gli Stati Uniti si trasformassero in uno Stato Autoritario ne subirebbe le conseguenze l’intero ordinamento giuridico internazionale a protezione dei diritti umani. Oggi, la popolazione degli Stati Uniti, deve affrontare la sfida di proteggere il sistema giudiziario da attacchi che potrebbero compromettere drammaticamente la separazione dei poteri e la giustizia equa per tutti. La lotta contro l’intimidazione dei giudici e degli avvocati, e la difesa dei principi dello Stato di Diritto, è una battaglia decisiva che, se persa, potrebbe significare la fine del sogno americano e l’inizio di un incubo globale che determinerebbe un effetto domino devastante per l’intero genere umano.
Una situazione che avvantaggerebbe solo l’oggettivo di “Deep State” costituito da Holdings Company che controllano a livello internazionale banche e multinazionali, dirigendo nei fatti l’intero corso della politica economica globale. Riconducibile a quel 10% della popolazione mondiale che detiene il 70% della ricchezza globale, violando palesemente i principi statuari dei diritti umani, in termini di equità, giustizia e ridistribuzione della ricchezza. Un dominio sovrannazionale partecipato dai veri padroni invisibili del mondo dietro le facciate di tutti gli Stati contemporanei. Individui di qualsiasi estrazione nazionale che curano solo i propri interessi predatori sul pianeta intero. Un Deep State che di certo non corrisponde a quella ideologia suggestiva, dogmatica e demagogica che descrive ambienti surreali fatti di pedofili, cannibali e bevitori di adrenocromo. Oggi utilizzata da fazioni partitiche per salire al potere degli Stati di Diritto come Cavalli di Troia al fine di destabilizzare l’ordinamento giuridico internazionale a protezione dei diritti fondamentali dell’uomo. Ma quel Deep State fatto di famiglie dinastiche che, proprio grazie agli Stati che controllano, si trasmettono il potere politico ed economico raggiunto di genitori in figli, come i nobili del passato. Il progresso sociale preimpostato nel 1945 fallisce nel momento in cui l’elettore qualunque, che ignora la storia dell’emancipazione umana dalle minoranze dominanti, si ritrova suggestionato a eleggere un miliardario che appartiene a quella cerchia internazionale di miliardari che sfruttano l’intero genere umano, invece di adoperarsi per difendere individualmente, o in associazione con altri, i diritti umani, come stabilito nella Dichiarazione dei Difensori dei Diritti Umani. Oggi più che mai le popolazioni nazionali dovrebbero ritrovare unità su quei principi giuridici universali che per lo Stato di Diritto sono obbligatoriamente inderogabili. Come, per esempio, l’art. 1 della DUDU: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Ogni individuo coscienzioso per il benessere del genere umano dovrebbe orientare il suo pensiero e le sue azioni in questa logica universalista, per evitare di restare vittima di indecenti propagande eversive prive di buon senso.
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