L’astronomica finanziarizzazione di Stellantis

Dopo i dazi avanti con il petrolio

Parcheggio industriale. Auto invendute

di Francesco Cappello

Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale. Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose

Stellantis è nata il 16 gennaio 2021 dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e Groupe PSA. La nuova entità era diventata uno dei principali produttori automobilistici al mondo, con un portafoglio di 14 marchi, tra cui Fiat, Peugeot, Jeep, Alfa Romeo, e Maserati.

È scoppiato il bubbone della profonda crisi che sta attraversando il colosso automobilistico, in termini di calo delle vendite e aumento ingestibile delle scorte che ha portato alle dimissioni di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis. Il valore delle azioni è crollato di oltre il 50% rispetto al picco del 2024. Il licenziamento coatto dell’amministratore delegato ha fatto seguito ad uno scontro interno con il consiglio di amministrazione che gli ha comunque garantito una buon’uscita da 120 milioni di dollari e il mantenimento nel consiglio di amministrazione.

A contribuire alla crisi del gruppo c’è sicuramente stata la minore attenzione verso i segmenti produttivi più tradizionali che in passato avevano decretato il successo del gruppo, a favore della transizione troppo veloce verso l’elettrico che ha causato prezzi troppo elevati delle auto elettriche e standard di qualità, sicurezza e sostenibilità ambientale assai discutibili.
Anche la minaccia di Donald Trump di eliminare i sussidi per i veicoli elettrici, che negli Stati Uniti ammontano a 7.500 dollari per auto ha contribuito. Tuttavia l’esito catastrofico della gestione Tavares, si misura soprattutto dagli esiti deleteri della finanziarizzazione, davvero astronomica, di Stellantis.

La nomina provvisoria di John Elkann alla guida del gruppo, è peraltro in continuità con la precedente gestione finanziaria dell’azienda, attenta, cioè, soprattutto a garantire la massima remunerazione possibile agli azionisti.
Il caso Stellantis non è perciò del tutto paragonabile ad altre vicende del settore automobilistico, come quella di Volkswagen, Audi, Mercedes e altre. I profitti realizzati negli ultimi anni da Stellantis non sono, infatti, il risultato di una solida strategia industriale, ma derivano principalmente dalla riduzione dei costi del personale e dall’aumento dei prezzi al consumatore. Una strategia tipica del capitalismo più tradizionale che ha portato ad una drastica riduzione dei posti di lavoro in Italia, delocalizzazione, chiusura di numerose fabbriche e ad un progressivo disimpegno di Exor (1) dal settore automobilistico.

Parcheggio industriale. Auto invendute

La finanziarizzazione, che si accompagna alla perdita di attenzione a tutte quelle condizioni reali dello sviluppo della produzione industriale e del suo successo, si traduce in pratica in un progressivo abbandono dell’obiettivo primario dell’attività produttiva e della creazione di valore attraverso la produzione di beni o servizi, a favore della massimizzazione del profitto in termini di dividendi per gli azionisti, perseguita attraverso strategie di natura prettamente speculativa-finanziaria. Stellantis ha distribuito quasi 24 miliardi di dividendi in soli 4 anni, privilegiando la remunerazione degli azionisti a scapito degli investimenti in ricerca e sviluppo e del miglioramento delle condizioni lavorative e delle remunerazioni dei dipendenti.
Questa strategia ha portato ad un arricchimento degli azionisti ed in particolare della famiglia Agnelli (detentrice del 14% di Stellantis tramite Exor), a discapito della salute a lungo termine dell’azienda. Parallelamente alla distribuzione sproporzionata di dividendi, Stellantis ha implementato una drastica riduzione del costi del lavoro. In Italia, ad esempio, il numero di dipendenti è stato dimezzato, con la conseguente chiusura di stabilimenti e il massiccio ricorso alla cassa integrazione. Questa strategia, in linea con il modello tradizionale della globalizzazione, ha portato allo spostamento della produzione in paesi con manodopera a più basso costo. Un altro elemento chiave della strategia finanziaria di Stellantis è stato lo sfruttamento della crisi inflazionistica per aumentare i prezzi dei propri prodotti, massimizzando i profitti a breve termine. Questa politica ha però comportato una riduzione del mercato, costringendo l’azienda a ricercare nuove strategie per garantire la remunerazione degli azionisti.
Inoltre, Stellantis ha fatto ricorso a strumenti finanziari speculativi come i buyback (2) per manipolare il valore delle azioni e massimizzare i profitti per gli azionisti. Tali operazioni, pur essendo legali, non contribuiscono alla creazione di valore reale e possono mettere a repentaglio la stabilità dell’azienda. Le conseguenze di queste dinamiche sono state devastanti per Stellantis e per il settore automobilistico italiano, contribuendo alla deindustrializzazione del paese, alla chiusura di stabilimenti e alla perdita di posti di lavoro. La dipendenza dagli aiuti statali, sotto forma di incentivi, ha ulteriormente aggravato la situazione, creando un circolo vizioso dannoso per l’azienda.
Da parte italiana, dal 2016 al 2024, Stellantis, ex FCA, ha ottenuto circa 100 milioni di euro in aiuti statali, includendo fondi per l’aggiornamento tecnologico delle fabbriche e per sostenere la cassa integrazione dei dipendenti. Nel periodo 2014-2020, l’azienda ha ricevuto circa 446 milioni di euro. Durante la pandemia, ha beneficiato di una garanzia statale di 6,8 miliardi di euro, con l’impegno di mantenere e aumentare gli investimenti in Italia. Guardando indietro a un periodo più lungo, dal 1970 fino ad oggi, i vari governi hanno fornito oltre 220 miliardi di euro alla società, che un tempo era la Fabbrica Italiana Automobili Torino (3).

La focalizzazione sui profitti a breve termine ha portato ovviamente ad una mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo, rendendo Stellantis vulnerabile alla concorrenza di aziende più innovative che investono maggiormente nel personale e nella ricerca. In definitiva, il caso Stellantis dimostra come la finanziarizzazione dell’impresa possa innescare una spirale negativa di disinvestimento, deindustrializzazione e dipendenza dagli aiuti statali, con conseguenze negative per l’azienda, i lavoratori e l’intero sistema economico. La vicenda di Stellantis rappresenta, in ultima analisi, una preoccupante manifestazione della crisi storica del capitalismo italiano, caratterizzata da una finanziarizzazione malsana con radici profonde nel passato (4).

La delocalizzazione per abbattere i costi di produzione e la dipendenza dagli incentivi statali sono elementi ricorrenti dalla FIAT a Stellantis. Stellantis ha potuto, ad esempio, beneficiare dell’inserimento nel PNRR. La crisi innescata dalla finanziarizzazione rischia di travolgere l’intero comparto, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro. Essa è il risultato di un connubio perverso tra un modello di business predatorio, la debolezza della politica italiana, l’assistenzialismo verso le grandi imprese e la mancanza di pianificazione con relativi investimenti a lungo termine finalizzati allo sviluppo industriale.

Finanziarizzazione di guerra

Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale (4). Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose. Si tratta, a lungo andare, di un circolo vizioso catastrofico. Nell’ambito italiano e più in generale europeo, il gruppo ha sofferto anch’esso dei costi energetici più elevati, causati della suicida decisione di sanzioni alla Federazione Russa, su ordine di Washington, che si è spinta, come è noto, sino al sabotaggio del North Stream (vedi il mio Le condizioni economiche della guerra da Biden a Trump). Questo ha reso più difficile per Stellantis mantenere la competitività, specialmente rispetto ai produttori cinesi che offrono veicoli a prezzi più bassi anche grazie a quell’apporto energetico a basso costo proveniente dalla Russia a cui l’Europa ha follemente rinunciato. I produttori automobilistici cinesi, come BYD e Leapmotor, sono, infatti, diventati una minaccia significativa grazie ai loro veicoli elettrici (EV) a più alta tecnologia e a basso costo.
I dazi alla Cina sono un’arma spuntata e a doppio taglio oltretutto inefficace perché la Cina sta già provvedendo a installare impianti di produzione di automobili direttamente in Europa. Ad esempio, BYD ha aperto una fabbrica in Ungheria e Chery ha avviato una joint venture in Spagna mentre altre case automobilistiche cinesi come Geely e Great Wall Motor stanno a loro volta considerando investimenti in Europa saltando a piè pari i dazi europei.
La scelta bellica è stata e sarà finché non vi si porrà termine un vero disastro non solo per l’industria dell’auto (vedi il mio Gli USA hanno vinto la guerra contro l’Europa). In Italia, infatti, a settembre 2024 l’ISTAT ha registrato il ventesimo mese consecutivo di calo della produzione industriale con tutto ciò che ne consegue. L’economia europea è, infatti, un’economia di trasformazione, quasi del tutto dipendente dall’energia e dalle materie prime e sta subendo processi inflattivi (inflazione da costo) che sono stati aggravati dalle scelte guerrafondaie e maldestramente affrontati dalla BCE alzando i tassi di interesse (come se si trattasse di inflazione da domanda). Ovviamente l’innalzamento dei tassi penalizza gli investimenti industriali e abbassa insieme all’inflazione il potere di acquisto dei cittadini (costi di mutui e prestiti più alti). Ne sono conseguiti perdita di competitività, deindustrializzazione e delocalizzazione e finanziarizzazione quale strategia per continuare a fare profitti mentre tutto va in malora (4).
Rispetto a ottobre dello scorso anno gli inattivi nel nostro paese sono aumentati di quasi 400.000 persone; da inizio anno 232.000 lavoratori sono stati collocati in cassa integrazione. Henry Ford si domanderebbe come fa un operaio in cassa integrazione o disoccupato ad avere un potere d’acquisto sufficiente a comprare un’automobile, oltretutto elettrica…

(1) Exor è una holding di investimento della famiglia Agnelli, con sede nei Paesi Bassi. È una delle principali azioniste di Stellantis, nata dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles e Groupe PSA nel 2021. Nonostante ciò, negli ultimi anni Exor ha ridotto la sua esposizione al settore automobilistico e ha iniziato a diversificare i suoi investimenti in settori come la sanità, la tecnologia e gli investimenti alternativi. Ad esempio, nel 2023 Exor ha acquisito il 15% di Philips, un leader mondiale nelle tecnologie per la salute. Inoltre, ha creato una nuova piattaforma chiamata Lingotto per gestire asset alternativi, come private equity, infrastrutture e venture capital
(vedi Elkann e la Exor escono sempre più da Stellantis ed entrano in altri nuovi business Altro che rilancio italiano).

(2) Il buyback è un’operazione in cui un’azienda compra le proprie azioni sul mercato. Questo può succedere per diversi motivi, come aumentare il valore delle azioni rimanenti riducendo il numero di azioni in circolazione, utilizzare la liquidità in eccesso invece di distribuire dividendi, e migliorare gli indicatori finanziari come l’utile per azione, rendendo l’azienda più attraente per gli investitori. In parole semplici, il buyback è come se un negozio decidesse di riacquistare i propri prodotti per aumentarne il valore o perché ha troppi soldi in cassa.

(3) https://www.iltempo.it/economia/2024/12/05/news/stellantis-220-miliardi-aiuti-statali-incentivi-bonus-carlos-tavares-elkann-cassa-integrazione-41059465/

(4) Nel coso degli anni 80 “i fondi di investimento e i fondi pensione che avevano comprato titoli di stato si assicuravano rendimenti netti mai inferiori al sette per cento. Quando i tassi di interesse diventarono insostenibili per lo stato italiano, l’acquisto dei titoli fu giudicato non più redditizio e subisce un crollo. I fondi rivolgono, di conseguenza, la loro attenzione al mercato azionario. Comincia così la crescita del mercato azionario. In realtà, i titoli di Stato più redditizi erano rimasti in mano ai Fondi che però non ne avrebbero rinnovato l’acquisto. La loro attenzione si sarebbe piuttosto rivolta al mercato azionario provocando il boom della borsa degli anni ’90. All’epoca anche le banche prestavano soldi per finalizzarli all’acquisto di azioni. Il modello economico che si afferma aveva già fatto la sua comparsa sulla scena economica prima della crisi del ’29; come nel suo primo esordio, anche in quegli anni l’obiettivo per il proprietario era quello di conseguire i maggiori profitti possibili. I soldi, però, non sono più spesi nell’economia reale ma investiti in borsa. La finanza, con l’entrata in scena dei fondi di investimento e pensione cambia pelle. Se prima, infatti, era generalmente finalizzata ad estendere i suoi mezzi di pagamento alle necessità della economia produttiva, ora questi nuovi investitori istituzionali, pessimi azionisti di maggioranza, im- pongono preventivamente al manager la realizzazione di quel margine di profitto del 7%, che era stato, durante gli anni ’80, il rendimento promesso ai loro sottoscrittori (il 7% era il rendimento netto delle obbligazioni pubbliche italiane, punto di riferimento – bench- mark – mondiale della finanza del tempo). Come già accennato, però, la realizzazione di tali margini di profitto risulta possibile solo riducendo l’occupazione e le risorse impegnate, in forma di investimenti, senza intaccare la produzione. La produttività cresce del 2% all’anno in media dall’81 al ’95 mentre i salari reali solo dello 0,6%. La scala mobile sarà disattivata. La disoccupazione aumenterà, i lavoratori risulteranno più facilmente ricattabili e indotti ad accettare salari disallineati con il costo della vita. La domanda interna vedrà un calo inesorabile. A tali scellerate decisioni, dettate unicamente dalla strategia finanziaria, sono seguiti licenziamenti e piani di ristrutturazione, svendite di parti meno produttive delle aziende, chiusure dei centri di ricerca delle imprese. L’obiettivo infatti diventa il massimo ritorno nel più breve tempo possibile e la chiusura di tutto ciò che non fornisce un utile monetario immediato. A suo tempo, tali fondi avevano suscitato particolare entusiasmo nella sinistra che attribuiva loro capacità taumaturgiche nel rendere partecipe della ricchezza generata dal capitalismo anche la classe operaia insieme al ceto medio, senza pensare che la logica utilizzata è necessariamente proprietaria e che finirà per avere come vittime le stesse aziende, i suoi operai (gli operai, in particolare e per assurdo, si sono trovati a investire presso istituzioni finanziarie che hanno cannibalizzato le aziende per cui lavoravano) ma anche quell’orizzonte di trasformazione di cui era portatrice la classe dei lavoratori e nella quale si insinua un individualismo egoista che spera contemporaneamente e contraddittoriamente sia di conservare il posto di lavoro «che il licenziamento, grazie a cui si realizza il rialzo delle quotazioni, tocchi piuttosto al vicino» che di vedere «lievitare» il valore delle azioni in borsa su cui è stato indotto a puntare. Tutte queste pratiche hanno, così contribuito a varare una sinistra che ha finito per disperdere i valori sanciti dalla Costituzione”.
Dal mio “Ricchezza fittizia povertà artificiosa” Edizione ETS – 2018 p. 91

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