SERVITORE DELLO STATO O DEL POPOLO?

Un’analisi della responsabilità istituzionale.

SERVITORE STATO Poliziotto Gallo

di Ernesto Melappioni

“Io sono un servitore dello Stato”. È con questa affermazione che Carmine Gallo ex poliziotto si è presentato all’opinione pubblica dopo il recente scandalo “dossieraggi”. Un immenso furto di dati sensibili che lo vede coinvolto in un’organizzazione criminale internazionale. Un labirinto di oscure relazioni tra servizi segreti deviati di vari stati, società d’intelligence private e gli interessi del grande capitale. Con questo scandolo è stata minata per l’ennesima volta la fiducia pubblica nelle istituzioni, riportando alla luce una questione cruciale: cosa significa realmente essere un “servitore dello stato”?

Questa espressione, spesso utilizzata da funzionari pubblici coinvolti in controversie, solleva interrogativi sul nostro modello di governance e sulla responsabilità di chi detiene il potere. In un contesto di Stato di Diritto Democratico, sarebbe forse più appropriato affermare: “sono un servitore del popolo”. La distinzione tra queste due affermazioni è fondamentale. “Servitore dello stato” richiama un’idea di lealtà a un apparato, spesso percepito come distante e autoritario. In questo scenario, la responsabilità è assente, e il potere si esercita senza alcuna rendicontazione. Questa concezione ha radici profonde, risalenti a epoche in cui gli Stati si caratterizzavano per un’autorità opprimente, in cui i diritti individuali venivano sistematicamente ignorati.

D’altra parte, il concetto di “servitore del popolo” rappresenta un ideale di democrazia, in cui gli individui e le loro libertà sono al centro della governance. È un richiamo a una responsabilità diretta verso i cittadini, a una gestione del potere che considera il bene comune e i diritti fondamentali. Sapere che davanti a sé si ha un “servitore del popolo”, sia esso un carabiniere, un poliziotto, un sindaco, un deputato, un messo comunale o un funzionario pubblico, cambia radicalmente la percezione e la relazione tra il cittadino e l’istituzione. Un servitore del popolo è percepito come un alleato, qualcuno che lavora per il bene della comunità e che è responsabile nei confronti dei cittadini. Al contrario, un “servitore dello stato” può evocare un senso di distanza e disconnessione, alimentando la sfiducia e la frustrazione. Questa differenza di percezione è cruciale, poiché influisce sul modo in cui le persone interagiscono con le istituzioni e si sentono rappresentate.

In questo contesto, è fondamentale riconoscere che un servitore del popolo ha un ruolo cruciale nella difesa dei diritti umani. Quando un funzionario pubblico si considera un servitore del popolo, è chiamato in prima istanza a proteggere i diritti fondamentali di tutti, compresi i propri. La difesa dei diritti umani non è solo una responsabilità etica, ma anche un modo per garantire la propria libertà e dignità. Se i diritti degli individui vengono rispettati e tutelati, ne consegue che anche i diritti del servitore stesso sono al sicuro.

SERVITORE STATO

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il mondo ha assistito a una profonda riflessione sulla necessità di tutelare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata nel 1948, ha segnato un punto di svolta cruciale, ponendo le basi per quello che oggi conosciamo come Stato di Diritto. In questo contesto, il servire il popolo si integra perfettamente con i principi di legalità e giustizia. Affermare di essere un servitore dello Stato implica un’affiliazione a un’autorità astratta, distante dalla vita quotidiana dei cittadini. Numerosi scandali del passato hanno visto protagonisti funzionari pubblici che, di fronte alle critiche, hanno utilizzato questa retorica per giustificare le loro azioni. Gli eventi di Tangentopoli negli anni ’90 in Italia sono un esempio lampante, dove i politici coinvolti hanno rivendicato il loro ruolo di “servitori dello stato” mentre i cittadini assistevano impotenti alla corruzione e alla mala gestione delle risorse pubbliche. Le parole di questi rappresentanti hanno amplificato la sfiducia verso le istituzioni, riducendo il legame diretto tra i funzionari e coloro che dovrebbero rappresentare. La governance deve essere un servizio al popolo; non possiamo permettere che le istituzioni si sottraggano alle loro responsabilità.

In questo contesto, le testimonianze di amici e conoscenti che hanno subito danni diretti o indiretti a causa di una mala gestione istituzionale sono particolarmente eloquenti. Testimonianze silenziose di tutti i giorni. Come quella di Claudia, volontaria in un comitato addetto alla pulizia dei parchi nell’area dei castelli romani. Mesi fa, chiacchierando con lei, nel descrivere il degrado del proprio paese, ha affermato: “Ho visto il mio paese degradarsi mentre i nostri rappresentanti continuavano a dire di servire lo stato. Ma dove sono i risultati? La mia comunità merita di più.” Parole simili che spesso di sentono in giro rendono palpabile il distacco tra le promesse e le azioni dei funzionari.

Il XX secolo ha visto movimenti di massa lottare per l’emancipazione e il riconoscimento dei diritti civili, affermando che il potere risiede nel popolo. Le conquiste sociali, come la lotta per il suffragio femminile e quella contro le discriminazioni razziali, hanno dato vita a un’idea di governance incentrata sui diritti umani. Tuttavia, oggi assistiamo a un assopimento di queste lotte. L’accettazione della frase “servitore dello stato” sembra riflettere una rassegnazione, come se l’eco di una storia di lotte e conquiste si fosse affievolita. Rivisitando la storia, possiamo trovare ispirazione in figure come Martin Luther King Jr. e Rosa Parks, che hanno lottato contro l’oppressione, richiamando l’attenzione sulla necessità di servire il popolo e non solo le istituzioni. Queste battaglie ci ricordano che la vera responsabilità deve sempre ricadere sui rappresentanti del popolo.

È essenziale ripensare il linguaggio politico e risvegliare la coscienza collettiva riguardo al ruolo degli istituzionali nel nostro sistema democratico. La responsabilità dei funzionari pubblici non è solo verso lo Stato, ma verso il popolo, i cui diritti e libertà devono essere sempre al primo posto. I giovani dovrebbero poter agire partecipando attivamente alla vita politica, firmando petizioni comunali, sostenendo movimenti civici e partecipando a manifestazioni per la pace. La loro voce è cruciale per riportare le istituzioni al servizio del popolo. Ma le istituzioni stesse si dimostrano inadeguate e inefficienti ad alimentare una cultura partecipativa sul bene comune all’interno delle scuole.

Immaginiamo un futuro in cui la governance non solo riconosca i diritti umani, ma li promuova anche attivamente. Un futuro in cui i rappresentanti non si limitano a rivendicare il loro ruolo di “servitori dello stato”, ma abbracciano il loro dovere di “servitori del popolo”, lavorando per il bene comune e per il progresso sociale di una democrazia più partecipata e diretta. Questo è il cambiamento di cui noi “Quarto Stato” abbiamo necessariamente bisogno. La transizione da un modello di “servitore dello stato” a uno di “servitore del popolo” non è solo una questione di linguaggio, ma un imperativo morale in un’epoca in cui lo Stato di Diritto deve essere costantemente difeso da qualsiasi genere di azioni eversive. È fondamentale che le istituzioni rispondano alle esigenze e ai diritti del popolo, creando un legame di fiducia e responsabilità reciproca. Solo così possiamo costruire un futuro in cui la governance sia realmente al servizio di chi la compone: il popolo. L’affermazione “servitore dello stato” è un abominio culturale. Una contraddizione in termini sullo Stato di Diritto, giuridicamente originato per servire i valori fondamentali umani, lo sviluppo della democrazia e della pace nel mondo attraverso il faro morale della Dichiarazione dei Diritti Umani.

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