di Davide Gionco
Secondo un sondaggio di Euromedia Research di settembre 2023 più della metà degli italiani è insoddisfatta del proprio lavoro, sia a causa del basso salario, sia per la scarsa valorizzazione delle proprie competenze. E non è soddisfatta della propria condizione economica, a causa della continua erosione del proprio potere di acquisto. I dati ISTAT confermano un progressivo aumento, in Italia, delle persone che vivono in condizioni di povertà. Anche fra le persone che hanno un lavoro.
Se confrontiamo la situazione economica di oggi in Italia, anno 2024, con quella del 1980, il confronto è impietoso: nel 1980 in una famiglia media, marito e moglie con 3 figli, lavorava una sola persona, il padre di famiglia. Il quale, dopo avere mantenuto la famiglia, riusciva mediamente a risparmiare ogni mese il 25% del proprio reddito, a garantire ai familiari 3 mesi di vacanza al mare avendo acquistato una seconda casa, spesso senza neppure prendere un prestito, solo con i propri risparmi. Non stiamo parlando di poche persone particolarmente capaci o fortunate, che anche oggi esistono in Italia, ma della situazione di un lavoratore medio.
Il 1980 non è un anno “a caso”, è l’anno successivo all’entrata dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (SME, l’antenato dell’euro, entrato in vigore nel 1979) e l’anno precedente alla seconda delle “grandi riforme” che hanno cambiato le regole della finanza, che è stato il “divorzio” fra la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro (1981). In seguito le “riforme” sono proseguite con successive modifiche delle regole della finanza privata (banche, mercati finanziari, libera circolazione dei capitali, ecc.) e della finanza pubblica (limiti al deficit pubblico, obbligo di ridurre il debito pubblico, privatizzazioni) che hanno portato ad un radicale cambiamento delle regole. E, naturalmente, ad un radicale cambiamento della situazione economica a favore di alcuni (quelli che guadagnano dal mondo della finanza) e a sfavore di molti (quelli che guadagnano lavorando alla produzione di beni e servizi).
Non a caso la redditività da lavoro non è diminuita solo per i lavoratori, ma anche per gli imprenditori. L’aumento degli oneri fiscali e burocratici, il mercato unico europeo, la globalizzazione, le aggregazioni bancarie, etc. sono stati cambiamenti che hanno ridotto la redditività delle imprese, al punto che oggigiorno si guadagna di più a investire dei capitali in finanza che a fare attività di impresa.
Eppure, nel frattempo, abbiamo avuto uno sviluppo tecnologico formidabile: macchinari e tecnologie innovative, computer, robot, satelliti, informatizzazione, internet. Oggigiorno un lavoratore, e a maggior ragione un imprenditore che sa organizzare il lavoro dei propri collaboratori, ha una capacità di produrre beni e servizi molto superiore a quella del 1980. E da questo dovrebbe derivare un reddito molto maggiore ed un tenore di vita decisamente più elevato.
Invece la redditività finanziaria del lavoro è fortemente diminuita, al punto che in Italia quasi nessuna famiglia riesce a tirare avanti senza due stipendi e non poche famiglie sono sotto la soglia della povertà pur avendo delle persone che lavorano.
Questo è avvenuto in tutti i paesi “occidentali” a partire dai primi anni 1970.
Il seguente diagramma mostra la divergenza fra il reddito orario da lavoro (curva in azzurro) e la produttività (curva blu scuro).
Questa perdita di redditività del lavoro ha nevitabilmente portato ad un aumento della povertà, non solo fra i salariati, ma anche per la maggior parte dei lavoratori autonomi e degli imprenditori.
Che cosa è successo? Che cosa è cambiato? Per quale motivo l’aumento di produttività non è corrisposto ad un pari aumento dei salari?
Dove va a finire il valore della ricchezza reale prodotta? Perché non resta nelle mani dei lavoratori e degli imprenditori che, con la loro professionalità, il loro impegno e la loro fatica, hanno prodotto tale valore?
Su TV e giornali ci raccontano da alcuni decenni che tutto questo è causato dagli sprechi dello stato, dall’aumento del debito pubblico, dalla corruzione della classe politica.
Ma si tratta di argomenti che sono privi di fondamento logico e di dati a supporto.
1) Gli sprechi dello Stato non fanno sparire il denaro che è in circolazione.
La realizzazione di opere pubbliche inutili è uno spreco di lavoro, ma le opere vengono regolarmente pagate, imprese e lavoratori percepiscono dei redditi, che vengono ri-spesi e fanno girare l’economia. Quando parliamo di spreco di denaro pubblico intendiamo dire che con quel denaro avremmo potuto pagare del lavoro per fare cose più utili. Certamente sì. Ma, sia nel caso di opere utili che di opere inutili, il denaro è stato ugualmente speso ed ha ugualmente costituito un reddito che i percettori hanno speso e rimesso in circolazione nell’economia. Dal punto di vista strettamente contabile, quindi, gli sprechi non fanno scomparire il denaro e il denaro circolante resta disponibile per pagare i redditi di imprese e lavoratori.
2) Il debito pubblico è certamente aumentato. Ma a chiunque conosca un minimo di economia pubblica e di finanza si rende conto che il debito pubblico è generato principalmente dal cumulo di interessi. Dal 1992 (anno di nascita dell’Unione Europea con il trattato di Maastricht, in cui l’Italia si era impegnata a ridurre il debito pubblico) ad oggi l’Italia ha pagato ben 3’638 miliardi di interessi (importo a prezzi del 2023) sul solo debito pubblico ovvero molto più dell’attuale valore del debito pubblico, che è oggi, nel 2024, di 2’863 miliardi di euro. Ovvero abbiamo pagato il 117% rispetto al capitale iniziale di debito del 1992.
Sapendo che uno Stato, come avviene per tutti gli stati del mondo al di fuori dell’Eurozona, ha il potere di creare il denaro che usa (come lo stampa la BCE, lo può stampare uno stato), per quale motivo si dovrebbero pagare degli interessi sul denaro stampato e messo in circolazione? E’ come se una società calcistica dovesse pagare alla tipografia gli interessi sul valore nominale dei biglietti che ha stampato e messi in vendita per chi vuole assistere alle partite allo stadio.
La realtà è che il debito pubblico è semplicemente l’ammontare dei titoli di stato in circolazione, che sono un servizio pubblico di risparmio. Solo chi ignora i principi fondamentali dell’economia pubblica può pensare che abbia un senso ed una utilità ridurre il debito pubblico interno di uno Stato (altra cosa è il debito estero, che per l’Italia è minimo e sostanzialmente irrilevante).
3) La corruzione della classe politica ce l’avevamo anche prima del 1992, prima del 1980: ce l’abbiamo da sempre. Non è peggiorata al punto tale da affossare la nostra economia. E ricordiamoci che anche il politico corrotto usa i soldi, indebitamente percepiti, per pagarsi le vacanze o acquistarsi una villa in più: il denaro non scompare, ma va a generare reddito di altre persone. E non possiamo neppure dire che quel denaro è finito all’estero, perché la bilancia commerciale dell’Italia è mediamente in attivo da decenni, per cui è molto di più il denaro che è entrato di quello che è uscito.
Come dicevamo all’inizio dell’articolo, quello che in realtà è cambiato negli ultimi 40 anni in Italia e in tutti i paesi del mondo “occidentale” sono cambiate le regole della finanza, sia della finanza pubblica, sia della finanza privata.
Fino agli anni 1970 l’obiettivo dello Stato era principalmente di garantire i servizi pubblici di base e di consentire all’economia privata di crescere. E questo l’Italia lo sapeva fare benissimo, nonostante i politici corrotti, in quanto con il boom economico degli anni 1960 aveva avuto tassi di crescita impressionanti. L’erogazione di servizi pubblici e condizioni fiscali che consentivano alle imprese di fare utili e di auto-finanziarsi per lo sviluppo erano garantiti da un opportuno sistema di regole relative alla finanza pubblica ed alla finanza privata.
Oggi, invece, l’obiettivo dello Stato è di sottostare a regole di bilancio “rigorose” che in realtà sono finalizzate a tenere bassa l’inflazione (a meno che non derivi da manovre speculative internazionali sui prezzi delle materie prime) e a garantire il pagamento degli interessi sul debito pubblico. Il tutto senza più disporre di una banca centrale che crea il denaro (dopo l’adesione all’euro) e senza potere più determinare i tassi di interesse. Queste diverse regole hanno inevitabilmente portato ad un aumento vertiginoso delle tasse su imprese e cittadini, come risulta evidente da questo grafico, tratto dai dati OCSE.
Dobbiamo inoltre considerare che dagli anni 1970 ad oggi molti servizi che al tempo erano pubblici, e quindi finanziati tramite la spesa pubblica, oggi sono stati privatizzati, per cui, dopo avere pagato le tasse, gli italiani devono sostenere un ulteriore onere economico (fatto salvo per i costi di telefonia, che sono scesi grazie all’evoluzione tecnologica) che si aggiunge agli oneri fiscali, per poter disporre di servizi che un tempo erano già stati pagati tramite la raccolta fiscale.
Oltre alle regole della finanza, dagli anni 1970 ad oggi è anche cambiata l’ideologia economica. Un tempo esisteva una sana competizione fra le imprese che fungeva da stimolo per l’aumento dell’efficienza della produzione ed alla qualità dei prodotti.
Oggi, invece, siamo arrivati ad una esasperazione della competizione economica, che si realizza tramite la realizzazione di monopoli od oligopoli in grado di distruggere i piccoli concorrenti, per poi imporre a tutti prezzi molto più alti e prodotti di scadente qualità. Oppure la competizione avviene tramite la compressione dei salari, dei diritti sociali dei lavoratori e scaricando le “esternalità” (ad esempio l’inquinamento ambientale) sui cittadini.
Se poi vogliamo ritornare al tema della corruzione, mai come oggi le multinazionali hanno avuto il potere di manipolare i decisori politici al fine di inserire nella legislazione e persino nei trattati internazionali delle regole volte a favorire i loro interessi.
Se fino agli anni 1970 l’obiettivo delle imprese era certamente quello di aumentare i propri profitti, oggi le grandi società che guidano l’economia mondiale (grandi società per azioni, multinazionali, fondi di investimento) hanno come unico obiettivo il garantire la massima rendita possibile agli azionisti. Non si parla più di rendita del lavoro, ma di rendita finanziaria. Queste rendite vengono garantite da un lato minimizzando i costi di produzioni (basse salari ai lavoratori, ma anche basse rendite agli imprenditori) e dall’altro lato massimizzando le rendite (creazione di monopoli, corruzione degli enti pubblici di controllo, induzione di guerre e pandemie, ecc.).
L’esasperazione della competizione economica non serve più a favorire i cittadini-consumatori, ma unicamente a garantire le rendite degli azionisti. I primi 10 fondi di investimento del mondo controllano, da soli solo, il 41% del prodotto interno lordo mondiale.
Questo potere economico, che vale più di quello degli stati, ha portato all’adozione di regole finalizzate ad estrarre la ricchezza prodotta dal mondo del lavoro, concentrandola nelle mani di coloro che vivono di rendite finanziarie, che sono quindi dei parassiti del mondo produttivo, portandosi via la maggior parte del valore prodotto tramite il nostro lavoro.
Tutto questo spiega la drastica diminuzione della redditività da lavoro degli ultimi 40-50 anni.
Tutto questo dimostra l’assoluta necessità di un cambio di paradigma, che consenta ad imprenditori e lavoratori di riappropriarsi del valore creato tramite il proprio lavoro. Tale valore deve essere redistribuito e destinato al bene comune, non all’arricchimento esagerato, inutile e controproducente di pochissime persone (oggi l’1% della popolazione detiene il 46% del patrimonio mondiale).
Questo diagramma (fonte Crédit Suisse 2021) mostra come il 55% degli adulti del mondo possieda meno di 10’000 dollari di proprietà e possieda l’1% della ricchezza globale. Viceversa l’1% degli adulti ha proprietà per oltre un milione di dollari e possiede il 46% della ricchezza mondiale.
Da sempre il potere politico è stato espressione del potere economico. Questo succede anche oggi. Anzi, oggi come non mai: le decisioni dei vari organismi politici e statali rispondono principalmente agli interessi dei poteri economici, non alle esigenze della popolazione.
Le manifestazioni democratiche (votazioni, petizioni, manifestazioni, scioperi) sono assolutamente irrilevanti nel determinare le decisioni politiche che contano. Cambiare lo schieramento politico al governo serve solo ad incidere su questioni marginali e non determinanti per l’economia e per la redditività del lavoro.
Il fatto che ci venga consentito di andare a votare non è più un indicatore del livello di democrazia, ma è solo un modo per farci credere che i decisori siano le persone che votiamo e non dei potentissimi gruppi finanziari. In questo modo siamo portati ad accettare tali decisioni, sentendoci in qualche modo responsabili, in quanto li abbiamo votati noi.
Dobbiamo prendere coscienza del fatto che le decisioni vengono prese altrove e che il teatrino della democrazia è solo una copertura mediatica e psicologica per nasconderci chi siano i veri decisori. La conseguenza logica dovrebbe essere un totale disconoscimento dell’autorità di chi ci governa, con la necessità di riorganizzare la società civile ed economica senza tenere conto di loro e dei decisori nascosti che stanno sopra di loro.
Oggigiorno le tecnologie disponibili rendono possibile produrre tutto quanto il necessario (beni e servizi) per una vita dignitosa a tutti gli abitanti del pianeta. La logica di scarsità del denaro, di beni e di servizi è indotta dalle attuali assurde logiche di mercato, finalizzate a garantire le rendite di pochi. Infatti di denaro in circolazione ce n’è moltissimo, ma si trova quasi tutto nell’economia finanziaria, mentre scarseggia nell’economia reale.
Alle grandi multinazionali ed al sistema finanziario non manca mai il denaro
Mentre invece il denaro manca sempre di più alle famiglie
Come possiamo venire fuori da questa situazione e ristabilire una economia dal volto umano, finalizzata al bene comune e non finalizzata all’arricchimento dell’1% della popolazione, al punto da ridurre in povertà le persone che vivono del proprio lavoro?
Il punto di partenza è comprendere l’inganno: il denaro è uno strumento di misura e di supporto alla scambio della vera ricchezza che è prodotta unicamente dal lavoro dell’uomo.
L’attuale sistema monetario e finanziario è un gioco truccato, in cui il 99% della popolazione, fra cui tutti i lavoratori, è destinato inevitabilmente a perdere.
Se prendiamo atto del fatto che noi abbiamo il potere di decidere a chi offrire la ricchezza che produciamo (i frutti del nostro lavoro) e che noi abbiamo il potere di decidere da chi acquistare tale (i beni e servizi di cui abbiamo bisogno per vivere), allora comprendiamo che queste nostre scelte consapevoli sono le uniche che dipendono da noi, che incidono concretamente sul sistema economico e che possono portarci alla liberazione dall’attuale sistema di potere finanziario che ci opprime. Si tratta solo di organizzarci, imprese e cittadini, tutti coloro che hanno compreso la necessità di questo cambiamento. Si tratta di guardare al vero valore dei beni e servizi che produciamo e ci scambiamo, senza lasciarci ingannare dal falso valore rappresentato dal denaro che ci impongono di utilizzare, legato all’attuale sistema finanziario, costituito da pezzi di carta e cifre su computers a cui siamo noi stessi a dare un valore. Se avessimo il potere di disconoscere il valore del “loro” denaro, ogni loro potere avrebbe fine e potremmo costruire una economia alternativa, a misura d’uomo, finalizzata al bene comune. A quel punto il sistema di potere finanziario, che sta sopra alla politica e che sta in piedi solo come un parassita del sistema produttivo, cesserebbe di esistere.
Ma non è sufficiente cambiare la moneta per cambiare l’economia.
L’altra parte dell’inganno sta nel principio di competizione. Rendendo artificialmente scarsa la moneta ci hanno detto che dobbiamo essere in competizione fra noi, in modo che i forti sopravvivano e tanto peggio per i deboli che non ce la fanno e precipitano nella povertà.
L’ideologia della competizione estrema è in realtà la gabbia e la ruota di cui noi siamo il criceto che corre inutilmente, senza alcuna speranza di liberarsi.
In realtà è proprio la collaborazione e solidarietà fra imprese e cittadini (economia solidale) che ci consente di migliorare la produzione e di distribuire equamente i beni e servizi prodotti.
Una volta messi al centro la cooperazione ed il bene comune, valori peraltro centrali nella nostra bistrattata Costituzione, allora seguirà logicamente un rinnovamento della politica, che cesserà di essere al servizio degli attuali poteri finanziari e tornerà ad essere il luogo di confronto per prendere le decisioni riguardanti il bene comune.
Questo lo hanno già capito in molti. In Italia esistono moltissime realtà organizzate di economia collaborativa e solidale. Il cambiamento della società lo possiamo realizzare mettendo in rete ed a (nuovo) sistema queste realtà.
Questo progetto lo abbiamo chiamato Comunità Solidali www.comunitasolidali.it.
Chi vuole collaborare per la realizzazione di questo progetto, ci contatti.
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