di Vincenzo Russo Traetto
Morlando è stato chiaro e categorico, così come i suoi emissari Antonio Casaccio e Nicola Iannotta. “4.200 battute con i vuoti e con i pieni, entro la mezzanotte del 20 di ogni mese, tramite e-mail, alla redazione della rivista. Nun t’allargà. Non ti prendere troppa confidenza con le parole. Io ti conosco”.
Si, è vero. Ha ragione l’editore. Le parole sono di per sé pulite e garbate, si sporcano con i suoni quando vengono dette, ma se le scrivi stanno al loro posto. Sono linde, sono affidabili ed educate, rispettano la virgola ed il punto. Si pigliano la confidenza giusta. È quello che le scrive che si lascia prendere dall’impeto, dalla foga e allora si parte con “soggetto, predicato e complemento” e si finisce in una “diarrea di vocaboli” (ecco lo sapevo mi sono pigliato troppo confidenza), un profluvio di parole che girano intorno alle cose che si vogliono raccontare.
Ma cosa si può raccontare in 4.200 battute?
Una storia impossibile. E allora qui bisogna chiedere una mano a Santa Rita, “santa per le cause impossibili”. Ma non basta ci vuole qualche altra cosa. Qui ci vuole la musica brasiliana. I brasiliani fanno musica con poco e con tutto: mescolano gli originari ritmi africani dell’Angola con la musica classica europea e ne esce una samba, una bossanova, un choro, ne esce un sentimento impossibile di allegria e tristezza.
Nanan (Renan Zanatta), per esempio, è un musicista brasiliano di origini italiane di quella parte del Brazil chiamata Paraná.
Il Paraná è un piccolo stato del meridione brasiliano che si trova proprio sotto lo Stato di San Paolo, ma sopra quello di Santa Catarina – certo che qui i santi son tanti – e prende il nome dal Paranà, un fiume talmente grande che il suo nome sta proprio a significare “par’o mare”, sembra napoletano ma è lingua dei Guaranì, un popolo che stava in quel continente prima che arrivassero i conquistadores. Alcuni emigranti napoletani del quartiere dell’Arenella arrivarono sul posto qualche secolo prima di Colombo. Sti napoletani stanno ovunque, arrivano prima degli altri e parlano, parlano sempre, se non cantano parlano: “Par’o mare, Giuà, guarda stu sciummo par’o mare….para-mà…Paranà”.
In Sudamerica il Paraná è secondo solo al Rio delle Amazzoni, attraversa il Brasile, il Paraguay e l’Argentina ed ha tanti emissari (queste parole a volte si prendono troppo confidenze perché hanno tanti significati) che bagna quasi tutto il continente.
Nanan ha scritto una piccola canzone per parlare di una casa nel bosco fatta a mano e del rispetto della natura: causa persa ed impossibile!
Ma non a Castelvolturno, un piccolo paese che prende il nome da un grande fiume: il Volturno, il più grande del meridione. A Castelvolturno succedono cose impossibili e ci sono uomini che fanno cose impossibili.
A Castelvolturno le cause non sono mai perse e tutto è possibile. Vi è un uomo che si chiama Ludovico, rosso di buon pelo, labbra aristocratiche, rotondo nello stomaco e nel sorriso, quando si accende la sigaretta (Marlboro rosse dure: la vera sigaretta) si guarda attorno a chiedere il permesso anche se è da solo in una piazza come quella dell’Annunziata alle 11 di sera e non c’è nessuno tra municipio e chiesa. Questione di educazione e rispetto degli altri, si guarda intorno per dire “la cenere cade per terra ma il mozzicone che rimane lo spengo e poi lo butto nella ceneriera pubblica. Allora posso?” Non gli risponde nessuno ma lui ha il rispetto per le cose che fanno gli altri. E lui si accende la sigaretta e zufola, zufola tirando la nicotina.
Impiegato dell’ISTAT, nella sede centrale capitolina, tutti i giorni andava a Roma e dal pomeriggio del venerdì alla domenica sera costruì la sua casa fatta a mano con cemento e mattoni, con attenzione, perseveranza, fatica e miracolo, non distante dalla domitiana e da fossachiena ma neanche dal cimitero e dall’area sacra della civitas, dove i tombaroli pescavano monete dell’antica Roma prima che il settore edile e i desideri piccoli borghesi coprissero l’ara pacis.
Quando maturò l’idea gli sembrò che potesse realizzarla in un minuto, ne impiegò un miliardo, ma la fece a mano come l’aveva sognata. Il fine ed il metodo erano l’essenza del sogno. Tutti pensano di essere Napoleone ma quando vedi che l’altro esercito spara ed uccide i tuoi comincia l’incubo, la frustrazione e devi trovare le parole da dire agli altri che ti eri sbagliato (“Io non sono Napoleone”) e per cambiare il sogno.
Ludovico era Napoleone, sconfisse tutti a cominciare dalla prima idea che venne in testa alla persona che glielo senti dire.
“Mi voglio fare la casa”.
“Bravo, buone intenzioni, ti trovi mogli, chiedi un mutuo e poi ti fai fare un preventivo da mastro ….”
“Non ho detto una casa, ho detto la casa, la casa mia sul terreno mio, con la fatica mia, la faccio io” e gli occhi brillarono.
La mamma è sempre primo approdo di un figlio, il primo banco di prova, la mamma prima ti formula il pregiudizio della comunità, ti anticipa la sentenza di condanna dei luoghi comuni, ti scoraggia per riportarti nella strada tracciata da chi ha fatto quel percorso prima di te, ti mette alla prova e poi quando accerta la tua convinzione, vede il tuo sogno e ti sta vicino, e non ti lascerà mai più.
Ludovico non conobbe Waterloo.
L’idea lo accompagnò tutte le mattine, quando prendeva il treno alle 5:00 del mattino alla stazione di Cancello per andare a Roma e quello delle 15:30 da Roma Termini per tornare.
Poi un giorno prese un foglio e con una matita segno una linea retta, poi ne aggiunse un’altra in perpendicolare, un’altra di traversa, un’altra, poi un’altra, ancora una curva e gli sembrò uno scarabocchio, un guazzabuglio, un pasticcio, uno sbrodeghezzo come dicono a Trieste che pure c’è il mare.
La casa gli era chiara in testa ma quando andava per disegnarla per darsi una traccia gli veniva male o, meglio, non se l’aspettava come gli segnava la matita. La vedeva diversamente. In testa era bella, verde, armoniosa ma sul foglio era asfittica, emaciata, sghemba, dolorante che aspettava un soffio di vento per cadere giù.
E allora una mattina andò sul posto. Guardò il terreno pieno di gramigna e di pozzanghera, terra argillosa, tirò il fiato profondo che i polmoni si gonfiarono da scoppiare. L’aria fresca gli entro in testa e gli fece pulizia, ne usci calda come se avesse pulito tutto il corpo dalle tossine.
E zufolò, e cominciò.
Livellò il terreno, tolse la terra inutile, impastò il cemento, elaborò la malta, poi la calce e la pozzolana, i mattoni e gli altri laterizi e gettò con l’accompagnamento di qualche amico il primo pilastro, poi un altro e ancora qualcun altro tale da sorreggere un solaio, la tettoia e la canna del camino.
Ogni venerdì era una speranza di una parete o di una scala ma la domenica si raccoglieva il rammarico di aver fatto il decimo della promessa. Il viaggio nel treno erano due più due ore di congetture e piani di simmetrie architettoniche e programmazione economico-finanziarie, una sistemazione di orari per non staccarsi dalla comunità: la partita del Napoli al bar verso le 20:00, la processione alle 15:00, la visita al parente in fin di vita, il matrimonio del nipote. Tutto doveva combaciare con la “casa fatta a mano”.
Insomma, Ludovico sconfisse tutti: capomastri, geometri, direttori di lavori, architetti e ingegneri, ed anche i periti catastali… perirono!
“Ludovico, fermati! Sta piovendo” ma lui “Risparmio una doccia!”
“Ludovico, siamo a ferragosto, non si respira dal caldo”, lui indomito “Butto giù un po’ di panza, dimagrisco e sono più bello”
Ed anche la domenica del 5 dicembre 1999 quando, dopo cento anni che era arrivata la neve in paese, il parroco andò in soccorso spinto dalla folla domenicale, in rigorosa processione dopo la messa delle 10:15.
Con il megafono Don Hrnè, prete serbo con ambizioni nel settore edile, enunciò la supplica: “Ludovico, nel nome del Signore è arrivato un suo Segno, fermati! Capisci la neve dopo cento anni, la neve bianca, pura, limpida” e nello spazio tra le parole “pura” e “limpida”, proprio accavallato sulla virgola si fece il segno della croce e con lui tutti – fedeli ma anche gli iscritti agli ordini professionali, le associazioni delle maestranze delle imprese edili ed i sindacati degli operai edili – sussurrarono ieratiche “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Lui, guardo tutti dall’alto in basso, il solaio del primo piano, si tolse un guanto appoggio l’altra mano sull’estremità della pala, si aggiustò il riporto e dal suo altare omelió “…. A me la neve fa compagnia!”
A volte i castellani lottano per le cause brasiliane e realizzano i loro sogni, cause impossibili, perché abbiamo Ludovico ed un fiume, il Volturno, come loro ne hanno un miliardo: il Paraná, il Paranapanema, l’Iguazú, …
Ma la verità è che Castelvolturno è un paese che non esiste, Castelvolturno è un sentimento e Ludovico è un buon sentimento che realizza cause impossibili ed io sono arrivato a 8.914 battute.
Però a me il Volturno, anche da qui, Par’o Mare e sono 8.975.
TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE N°231 – LUGLIO 2022
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