di Gianmarco Pisa, operatore di pace
In un panorama internazionale di crisi e conflitti sempre più pericolosi e diffusi, il mondo della nonviolenza ha gli strumenti per affrontare questa transizione conflittuale, dal mondo unipolare al mondo multipolare?
È la domanda del nostro tempo, cha interroga quanti e quante intendono attivarsi nella lotta per la pace e contro la guerra: cosa posso fare? Cosa possiamo fare di fronte alle guerre, ai conflitti e alle crisi che si moltiplicano in modo impressionante, finendo per erodere certezze e alimentare disillusione? Entrambi questi effetti vanno contrastati, per quanto possibile trascesi; e tuttavia è chiaro che ciò non possa essere fatto con un arido esercizio intellettuale o con un mero approccio volontaristico: non serve un atteggiamento individualistico, così come non basta una conoscenza solo accademica dei processi reali, delle profonde trasformazioni che sfidano il nostro tempo e delle grandi emergenze che alterano il profilo delle relazioni internazionali.
In quella domanda emergono entrambi i presupposti, gli antecedenti. Il primo, più generale, segnala la composizione di un panorama internazionale in cui la guerra si afferma come vera e propria «cifra del presente» e in cui l’insicurezza, l’instabilità delle relazioni internazionali, la crisi della cooperazione internazionale si manifestano come traccia ricorrente di un mondo sempre più «spinto sull’orlo del baratro». In questo scenario, la guerra si manifesta non più solo come strumento di potere, esercizio di egemonia e di potenza, ma anche come vera e propria «guerra costituente», con la quale istituire una diversa configurazione o, addirittura, un diverso «paradigma» delle relazioni internazionali.
Punto d’innesco, la guerra alla Jugoslavia, l’aggressione imperialistica alla Repubblica Federale di Jugoslavia del 1999: un’aggressione in grande stile a un Paese indipendente e sovrano, che riportò pesantemente «la guerra nel cuore dell’Europa» e in cui fu inquadrato in maniera esemplare il cosiddetto «paradigma umanitario», che portava con sé l’ossimoro impressionante della «guerra umanitaria» e che sfidava l’ordine razionale con la presunzione del «fare la guerra per portare la pace», violando diritti per imporre il rispetto di diritti, fuori e contro la giustizia internazionale, violandone i capisaldi (eguaglianza sovrana, integrità territoriale, non ingerenza, libertà e autodeterminazione dei popoli) e mettendo ai margini le Nazioni Unite e sotto scacco l’Europa.
Inaugurata dal ciclo di guerre di dissoluzione della Jugoslavia socialista degli anni Novanta, la parabola della guerra in Europa ha trovato un nuovo punto di svolta con la guerra in Ucraina, iniziata nel 2014, nelle sue due fasi caratterizzate dalla guerra scatenata da Kiev contro il Donbass a partire dalla primavera 2014 e poi dall’intervento militare della Russia nella guerra in corso a partire dal febbraio 2022. Gli Accordi di Minsk, del settembre 2014 e del febbraio 2015, con i quali sarebbe stato possibile avviare l’ipotesi di una soluzione diplomatica, sono stati ampiamente disattesi, se non addirittura derubricati, da parte occidentale, a mero espediente “per guadagnare tempo”. Le proposte diplomatiche, avviate, sin dal dicembre 2021, per approntare specifiche garanzie di sicurezza, la non adesione dell’Ucraina alla Nato, una rinnovata architettura di sicurezza in Europa, non sono state neanche prese in considerazione dalle cancellerie occidentali.
Così, in uno scenario nel quale continuano il dramma delle migrazioni e la militarizzazione del Mediterraneo e sul quale si affaccia, dall’ottobre 2023, la guerra di Israele, il genocidio della popolazione palestinese a Gaza, la minaccia di un ulteriore allargamento del conflitto (Libano, Siria e, soprattutto, Iran) che rischia di provocare una colossale deflagrazione del Vicino Oriente, si giunge ad un nodo politico: l’Europa non è il «continente di pace» che si era immaginato; la presenza della Nato, con il corollario di militarizzazione ed espansione della sua infrastruttura militare verso Sud e verso Est, non è un fattore di sicurezza e di distensione; la tendenza unipolare, la tentazione, da parte delle cancellerie occidentali, di impostare un arbitrario «ordine mondiale basato sulle regole» contrae, non incrementa, gli spazi della diplomazia e della pace.
Il secondo dei presupposti, cui si faceva riferimento, è, inevitabilmente, collegato al primo: vi è un ruolo che le forze democratiche della società civile, sinceramente impegnate per la prevenzione della guerra, contro la militarizzazione, per la costruzione della pace, possono svolgere e che, con tutta evidenza, non può essere svolto dalle grandi potenze né tantomeno sussunto dalla logica dell’ordine unipolare. Nell’orizzonte strategico degli eventi, è questa una sfida epocale per le forze democratiche di società civile: la complessa e turbolenta transizione dal mondo unipolare al mondo multipolare. E non c’è dubbio che la moltiplicazione e la gravità dei conflitti in corso (conflitti di portata strategica che, per la prima volta, impegnano contemporaneamente diversi scacchieri cruciali, dall’Europa centrale e mediterranea, al Vicino e Medio Oriente, alla Russia, sino, in prospettiva, alla Cina) indichino proprio l’intensità e la profondità della grande transizione in corso.
Già oggi, del resto, la più vasta parte di mondo che Occidente non è esprime un peso, su scala mondiale, di cui sarebbe illogico non tenere conto: i Paesi BRICS+ (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti) già oggi rappresentano oltre un terzo del PIL mondiale e quasi la metà della popolazione del pianeta. Il mutato panorama internazionale impone la risposta (costruttiva) della politica, non la reazione (rabbiosa) della guerra. Se la difesa militare presuppone una società civile che delega, affidando un mandato alla tecnica e all’esercito professionale quale tutore dell’ordine, artefice della repressione più che della prevenzione della violenza, la difesa popolare nonviolenta al contrario si basa sulla responsabilità e la partecipazione, rifiuta la delega e la separazione della difesa, ponendo il corpo sociale in quanto tale, addestrato e preparato con modalità non militari, al centro della difesa del territorio e della popolazione.
È in questo schema che i Corpi civili di pace diventano un potente fattore di partecipazione popolare e di tutela della pace: non una truppa di complemento dei contingenti militari, bensì un’espressione della società civile organizzata, formata da civili preparati, capaci di intervenire (per la prevenzione del conflitto armato, la gestione costruttiva, la costruzione della pace) in tre ambiti decisivi: la sicurezza umana (accompagnamento protettivo, tutela dei soggetti esposti); il lavoro di pace (sostegno alle forze di pace, ricomposizione); i diritti umani (tutela dei diritti, stato di diritto). Sono cioè, al tempo stesso, operatori di pace e difensori dei diritti.
Non a caso, la fondamentale «Dichiarazione sui difensori dei diritti umani» (1999) mette in evidenza (art. 1) che «tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale». Sono queste forme e pratiche di democrazia e di partecipazione che danno vigore e senso alle antiche, e sempre attuali, parole d’ordine: per la «pace con giustizia sociale», «fuori la guerra dalla storia».
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