di Giusy Calabrò
Floriano Guizzardi è un pittore autodidatta che nasce a Verona il 26/05/1971. Ha studiato letteratura, storia dell’arte e filosofia prima di conoscere nel 2000 a Milano il pittore Marco Fantini il quale, ospitandolo per lungo tempo presso il suo studio, gli ha consentito di perfezionare un suo individuale apprendistato alla pittura. Fino al 2010 ha collaborato con la Galleria “Spazio 6” di Verona mentre da oltre dieci anni lavora all’estero, partecipando a competizioni internazionali: Città del Messico, Germania, Austria e Filippine.
Dal 2019 vive a Santiago del Cile dove svolge l’attività di coach della nazionale cilena di scherma, continuando a dedicarsi alla sua passione per l’attività pittorica in un originale work in progress monotematico.
Le opere pittoriche del pittore veronese Floriano Guizzardi sono contraddistinte da sagome di personaggi che si stagliano compatte su uno sfondo bruno costituito da piani di luce dal taglio cinematografico in una dimensione realistica percepita dalla lente interiore dell’artista nella serrata combinazione delle modalità cromatiche del linguaggio pubblicitario nel prevalere di suggestioni monocrome con tocchi cromatici di rosso, giallo o azzurro. Per lui, ex atleta e istruttore di scherma, è quasi spontaneo e metodico conferire tagli cromatici e prospettici come se fossero colpi incisivi di fioretto, anch’essi frutto di una profonda e meticolosa riflessione capace di imprimere sulla tela inquadrature prospettiche e luminose dal grande effetto scenografico come se l’occhio della videocamera diventasse quello dello spettatore. In tali peculiarità risiede lo stretto rapporto esistente fra la pittura scarna ed essenziale di Guizzardi con la fotografia e il cinema europeo, inglese e americano. Tale legame rivive innanzitutto nella rappresentazione dei “mastini”, poliziotti rudi delineati con tratti pittorici accurati e calcolati che riversano nello spazio circostante una sensazione di sospensione spazio-temporale che li rende personaggi permeati da un sensazione di allusione, vulnerabilità e ambiguità semantica.
La serie di tele di ridotte dimensioni deve essere osservata al di fuori dei comuni criteri figurativi, proprio per le la peculiarità intrinseca che rendono tali pezzi di straordinaria freschezza nell’evidente senso di bilanciamento e nella forte combinazione dei contrasti cromatici, nonostante siano opere frutto di un lungo e profondo processo di elaborazione e meditazione.
Si tratta di opere d’ispirazione tradizionale, sia rispetto alla tradizione pittorica europea diffusasi fra le due guerre, sia a quella statunitense in particolare ai dipinti di Edward Hopper. D’altronde anche la scelta cromatica di Guizzardi risente dell’influsso della grafica pubblicitaria nella combinazione dei toni bruni dello sfondo dai quali emergono le figure isolate dei personaggi delineati con colori caldi come il rosso, il giallo, l’arancione oppure tonalità accese di azzurro.
Nell’iconografia paesaggistica, più che alla tradizione pittorica italiana, si ispira maggiormente a quella inglese di William Turner e alla pittura americana dell’Ottocento che avevano celebrato un paesaggio “non europeo”, dotato di un proprio genus loci che si esprimeva attraverso una spazialità infinita, dilatata ed estesa.
I protagonisti delle sue tele monocrome si ispirano alle immagini di celluloide del cinema noir classico degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, in particolare alla filmografia poliziesca ispirata ai romanzi di Hammett e Chandler, attraverso una chiave illustrativa e psicoanalitica memore dei tagli scenografici e delle inquadrature che rievocano anche le memorabili immagini del cinema d’autore: dai ritratti calati in interni bui e spesso misteriosi traspare tutta l’ambiguità dei meccanismi iconografico-narrativi degli iconici gialli della storia del cinema.
Osservando i volti dei protagonisti, ma anche lo spazio che li circonda, si avverte la sensazione che stia accadendo qualcosa di misterioso nella loro psiche: una storia intima sospesa in una dimensione spazio-temporale di cui ignoriamo l’inizio e l’esito come avviene nei fotogrammi cinematografici di Cindy Sherman, nei gialli di Alfred Hitchcock e nei film noir di Richard Quine. D’altronde, proprio come avveniva nelle opere di Hopper, la presenza dei personaggi risponde a una profonda ambiguità che è propria della nozione di realismo, sia pittorico, sia cinematografico. Si potrebbe allora parlare del “realismo cinematografico” di Floriano Guizzardi per il suo linguaggio naturalistico, illustrativo e al contempo introspettivo dove si combinano reminescenze figurative e plastico-pittoriche sia del Ritorno all’Ordine italiano, sia del Realismo americano con incursioni anche nello spazialismo del “pittore del silenzio” Giorgio Morandi. Un silenzio carico di tensione cinematografica come quello che pervade gli scorci di interni delle tele di Guizzardi dove prevale un linguaggio figurativo metafisico prettamente di ispirazione italiana. Non sarà un caso che anche Morandi come il pittore veronese si approcci alla pittura tramite una profonda ricerca formale, metodica e rigorosa, attraverso il realismo e la semplificazione formale dei volumi che si distaccano dallo sfondo mediante un contorno marcato e ben definito che carica le forme di energia. Entrambi i pittori intraprendono un approccio intellettualistico alla pittura con la differenza che, mentre i ritratti e i paesaggi di Guizzardi lasciano trapelare l’energia vitale attraverso le vibrazioni delle tonalità cromatiche, la spazialità delle nature morte e dei ritratti di Morandi sono una condensazione di toni monocromatici e di forme chiuse in se stesse.
Affascinato dall’immagine di celluloide nella sua consistenza e piattezza egli colloca le sue figure in uno spazio tagliato obliquamente dove esse creano una sorta di effetto di spaesamento nel fruitore, suggerendogli tutta una serie di accidenti che potrebbero capitargli e contro i quali lottano. Guizzardi “ritaglia” il personaggio cinematografico dal suo contesto evidenziandone la sua “inconsistenza” e piattezza su una superficie monodimensionale mentre con le pennellate o spatolate copre la superficie vuota del quadro, successivamente racchiusa in un disegno. Il suo procedimento pittorico è lento e meticoloso e consiste in vari rifacimenti mediante un’operazione “a togliere” che infine lascia emergere una “cosa”, che viene lasciata accanto alla figura cinematografica entrando in dialettica con essa. Questa forma, spesso costituita da una semplice macchia cromatica apparentemente sospesa nel mondo dell’opera pittorica rappresenterebbe il suo pensiero, o meglio l’atto di “pensare” debordante. Da qui gli effetti aneddotici, perturbanti e forse enigmatici dei suoi quadri ottenuti senza alcuna narrazione entro uno spazio privo di dimensioni e colori dove i neri, lucidi o opachi, divengono protagonisti.
Nelle opere di Guizzardi è presente un senso di solitudine, malinconia e isolamento come nelle opere del connazionale Morandi e dello statunitense Hopper dove gli sfondi e i personaggi dei suoi dipinti sono luoghi reali, ripresi dalla vita quotidiana ma che vanno oltre la loro forma concreta trasmettendo un senso di incomunicabilità, pertanto li accomuna anche la ricerca pittorica nell’esplorazione della vulnerabile condizione umana.
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