di Danilo D’Angelo
«Gesù non si è fatto uccidere per redimere i nostri peccati, ma si è ucciso per redimere i suoi peccati.» Per fortuna parlavamo in italiano, perché stavamo tenendo la nostra conversazione in un chai shop sulla spiaggia frequentato dai pescatori del luogo. Il Kerala è lo Stato indiano in cui si dice che, nel 52 d.C., l’apostolo Tommaso (continuano le coincidenze) approdò fondando la prima comunità cristiana in India. Ad oggi è lo Stato con il maggior numero di cristiani, più di sei milioni, anche se, in termini percentuali, è superato abbondantemente dal Nagaland con l’87,93% di popolazione cristiana. Pertanto dire frasi come quella pronunciata da Tommaso davanti a pescatori keralesi cristiani non sarebbe stato saggio, se fosse stata espressa in una lingua da loro comprensibile. Devo dire che mi ha sempre stupito trovarmi in India e vedere tutti quei conventi (soprattutto di suore), i palazzi vescovili, i seminari, le processioni, le statue di madonne, cristi e santi vari dalle fattezze e posture improbabili, tutte quelle chiese la maggior parte recenti, con enormi pareti di cristallo – più adatte ai moderni grattacieli che a un luogo di culto – e le loro croci al neon dai colori cangianti. Ce ne sono una quantità stupefacente, quasi ogni cento metri ne spunta una.
Forse più che di stupore dovrei dire che si tratta di un certo stridore tra il luogo e questo tipo di pratica, di credenza. O forse è solo il mio pregiudizio formatosi da anni di percorrenza dell’India più votata all’induismo, al buddhismo e al sikhismo, e al fatto che queste non abbiano una vera connotazione religiosa e soprattutto che, almeno all’origine, non si siano dotate di una struttura gerarchica, ma che siano più che altro delle filosofie di vita. Forse sono questi miei preconcetti a farmi sentire la religione cristiana un po’ fuori posto qui.
Dunque io e Tommaso eravamo al chai shop sulla spiaggia. Il chai shop è l’equivalente del bar in Italia; è il luogo dove ci si ritrova per bere chai e per discutere con amici e conoscenti. Un posto, per dirla alla Charles Schulz, dove “tirare tardi”. Il chai shop va dal fornello a petrolio appoggiato per terra sul quale bolle l’acqua con il latte e le varie spezie, tè incluso, al carretto trainato per la città, alla struttura fissa all’interno di un palazzo, a quella in bambù e teli di plastica posizionata sulla spiaggia. Non scorderò mai il primo chai shop in cui ho fatto la mia prima colazione indiana a base di lassì e chili baji (peperoncino fritto in pastella), a Calcutta.
Era una stanzetta di un metro e mezzo di larghezza per due di profondità, al piano terra di uno stabile fatiscente, con il lato corto che si affacciava sulla strada, diviso, a circa un metro da terra, da un tavolato in legno che era il bancone dove venivano servite le pietanze e le bevande. Sul lato opposto, quello verso l’interno dello stabile, su di un altro ripiano c’era il contenitore dove, durante la notte, il latte si cagliava diventando yogurt. Sotto il “bancone” che si affacciava sulla strada dormiva il chai wala. Quello spazio era casa sua e il suo luogo di lavoro. In quei tre metri quadri stava tutto il suo mondo, la sua intera esistenza. Per lavarsi c’era un rubinetto per strada dove, oltre a lui, si lavavano praticamente tutti quelli che abitavano in quella strada.
Se vi stupite di come gli yogi riescano a praticare quelle posizioni assurde dovreste vedere le posizioni che un indiano qualunque riesce ad assumere per farsi la doccia sotto un rubinetto alto pochi centimetri da terra. E con quanto sapone, tanto da essere interamente ricoperto da schiuma bianchissima e profumata di sandalo! Quello dov’ero con Tommaso era un chai shop del tipo “sulla spiaggia”, dove i pescatori si ritiravano nelle ore più calde del giorno per sorseggiare il chai e mangiare la banana fritta, riparando le reti danneggiate e lamentandosi della scarsa pesca della giornata.
Fammi capire, come “…si è ucciso per redimere i suoi peccati”? «Si è ucciso nel senso che è riuscito a far tacere quelle parti del suo essere che riteneva deleterie per la sua evoluzione. In questo senso si è redento, per questo si dice sia “resuscitato”, nel senso che, in questo modo, ha dato vita a un nuovo essere. Il nostro essere è composto da molte qualità: siamo buoni, ma anche cattivi, siamo egoisti, ma anche altruisti, siamo allegri, come tristi. Tutte facce dello stesso poliedro. Ma, in certe situazioni, alcune di queste qualità tendono a prendere il sopravvento e danno origine a reazioni e comportamenti deleterei, per nulla armonici e utili per la propria e altrui evoluzione. Dobbiamo essere molto vigili e saper riconoscere immediatamente questi comportamenti, queste reazioni per nulla proficue e bloccarle sul nascere, tagliando subito i contatti con esse. In questo senso “ucciderle”, non dar loro attenzione, non alimentarle, ma farle appassire come un ramo secco.
Quando Krishna dice ad Arjuna di non preoccuparsi del fatto che sta andando in guerra contro i suoi stessi parenti e familiari, intende proprio questo. Non ti curare del fatto che devi “uccidere” qualcuno di molto vicino a te (addirittura parte di te), perché solo così potrai raggiungere il tuo vero io.» Accidenti, ora capisco perché ti sei sfratato. Difficile far convivere questi pensieri con i dogmi della Chiesa. «Sì infatti. Posso imputare alla mia origine indiana la fonte di questi pensieri, ma forse è solo un alibi. Forse certe visioni possono venire in mente a chiunque. Penso che tutti abbiamo la possibilità, il diritto, ma forse anche il dovere di reinterpretare la storia, i miti e le credenze.
Per esempio, non solo la Bhagavadgītā utilizza la metafora dell’uccidere parte di se stessi o altri che supponiamo siano al di fuori di noi. In tutta la mitologia greca c’è sempre un padre che uccide i figli e i figli che uccidono i padri: Urano che uccide i figli, tra cui i Ciclopi, Cibele, Rea e i Titani. Crono, scampato al massacro per volere di sua madre Gaia, ucciderà suo padre Urano. A sua volta Crono mangiò i suoi figli Estia, Demetra, Era, Ade e Poseidone. Zeus, che sfuggì a suo padre Crono, a sua volta lo uccise. E poi Zeus, che assecondando una profezia che lo metteva in guardia contro il figlio che avrebbe avuto da Meti, la inghiottì. Ora, o tutti questi dei e i loro figli erano dei cannibali assetati di sangue oppure ci deve essere un senso in queste allegorie e potrebbe essere che ci sono aspetti di noi stessi che, anche senza scendere in considerazioni profonde, ma limitandoci ad un sentire, non ci piacciono. E perché non ci piacciono? Perché, appunto, sentiamo che non vanno bene.
Non parliamo di giusto e sbagliato che sono due concetti molto labili e che variano tra epoche e culture diverse. Parliamo di utile o non utile. Questi nostri aspetti sentiamo che non ci piacciono perché non sono utili al nostro scopo. E se è vero che l’essere umano si distingue dagli altri esseri viventi, se questo è vero, si distingue per la sua capacità di riflettere e questa capacità, come tutte le peculiarità degli altri esseri, ha senso solo se la si implementa, se la si fa evolvere. Nel corso dei millenni tutti gli esseri viventi hanno fatto evolvere quelle caratteristiche che hanno permesso loro sì di sopravvivere, ma anche di inserirsi sempre meglio nell’ambiente: chi ha affinato la vista, chi l’olfatto, chi ha sviluppato sensi a noi sconosciuti, come il radar dei pipistrelli o il senso d’orientamento dei volatili migratori. Di esempi se ne potrebbero fare a milioni.
Noi, dal punto di vista animale, abbiamo perso tutte quelle peculiarità che ci permettevano di vivere nell’ambiente, a favore del pensiero speculativo. Giusto o sbagliato, voluto o meno questo è quello che è successo. Noi oggi non saremo in grado di vivere nella Natura nemmeno per una settimana. Al contrario abbiamo sviluppato un pensiero che, per ora, si è dimostrato molto utile per far sopravvivere la specie umana. Perché è insito in ogni sistema vivente l’evolversi, non c’è niente in Natura di statico, nulla è fisso per sempre.
Ora però stiamo correndo un grosso rischio demandando agli utensili che abbiamo costruito la nostra stessa sopravvivenza. La tecnologia si è presa tutto lo spazio che una volta era occupato dalla nostra conoscenza, dalla nostra volontà, dal nostro sapere, da tutto quello che ci permetteva di riflettere sulla nostra condizione, sul nostro ruolo all’interno del mondo e della vita stessa e che ci ha portato ad elaborare filosofie sofisticate, sistemi di conoscenza che utilizzavano le storie e i miti per tramandare non solo sapere, ma anche per sperimentare i sentimenti, le sensazioni, per attribuire i valori, per capire e modificare le gerarchie.»
Ok, frena un attimo, vai troppo veloce e dai molte cose per scontate. Le riflessioni che stai esponendo appartengono più che altro ad una cultura asiatica, le conosco, ma fanno parte di un modo di interpretare il mondo e gli esseri umani che proviene da filosofie orientali, non dal mondo giudaico-cristiano. Cosa c’entrano con Gesù Cristo? «C’entrano, o meglio, potrebbero c’entrare perché il pensiero orientale è intrecciato con quello occidentale. Forse dovrei dire era, dato che oggi i due si sono talmente allontanati da non riconoscere più la loro affinità. Gautama Siddhārtha visse in India tra il 566 e il 486 a.C. e ciò che derivò dalle sue riflessioni viene chiamato buddhismo, che si diffuse in tutta l’Asia, ma non solo.
Alcuni degli editti di Aśoka, sovrano dell’impero Maurya, il più esteso dell’Asia ai suoi tempi e cioè tra il 304 e il 232 a.C., descrivono i suoi sforzi per diffondere la fede buddhista nel mondo ellenico che al tempo, in seguito alle conquiste di Alessandro Magno, formava un corpo continuo dalla Grecia ai confini dell’India. Negli editti compaiono i nomi dei maggiori re greci: Seleuco Nicatore, chiamato nella storiografia moderna Seleuco I, Antioco II del Regno seleucide, Tolomeo II Filadelfo, Antigono II Gonata del Regno di Macedonia, Magante del Regno di Cirenaica e Alessandro II dell’Epiro.
Per esempio nel XIII editto Aśoka scrive:
“La conquista del Dharma è stata vinta qui, sui confini, e anche a seicento yojana di distanza, dove regna il re greco Antioco, e oltre, dove regnano i quattro re di nome Tolomeo, Antigono, Magante e Alessandro, così come nel Sud, tra i Chola, i Pandya, e fino a Tamraparni (l’attuale Sri Lanka).”
Nel II secolo, il filosofo e scrittore cristiano Clemente Alessandrino riconobbe l’influenza dei buddhisti battriani e sramana, come dei gimnosofisti indiani sul pensiero greco. Così scriveva nei suoi Stromati, Libro I, Capitolo XV:
“Così la filosofia, una cosa della più alta utilità, fiorì nell’antichità tra i barbari, diffondendo la sua luce sulle nazioni. E dopo di questo venne in Grecia. Dapprima nei suoi ranghi erano i profeti egiziani; e i caldei tra gli assiri; e i druidi tra i galli; e gli sramana tra i battriani (“Σαρμαναίοι Βάκτρων”); e i filosofi dei celti; e i magi dei persiani, che predissero la nascita del Salvatore, e vennero nella terra di Giudea guidati da una stella e i gymnosofisti indiani e gli altri filosofi barbari. E di questi ci sono due classi, alcuni di loro sono chiamati “sramana” (“Σαρμάναι”), e altri “brahmini” (“Βραφμαναι”) chiamati abitanti della foresta perchè non vivono in città né hanno case, ma si vestono di corteccia d’albero, mangiano frutti selvatici e bevono acqua con le mani; non si sposano né hanno figli, come quelli ora chiamati Encratiti. Tra tutti gli abitanti dell’India c’è chi obbedisce alle prescrizioni del Buddha”.
Ricordiamoci che “barbari” per i greci erano coloro che non parlavano la loro lingua e che a loro sembrava dicessero cose come “bar,bar,bar…” Il re greco-bactriano Demetrio I invase l’India nel 180 a.C. spingendosi fino a Pataliputra, e fondando il Regno indo-greco, che sarebbe sopravvissuto, tra alti e bassi, fino alla fine del I secolo d.C.; sotto i re indo-greci il Buddhismo rifiorì, e alcuni storici credono che l’invasione sia stata organizzata inizialmente come un supporto militare all’Impero Maurya e alla popolazione buddhista contro i Sunga.
Di relazioni tra oriente e occidente, all’epoca, ce ne sono state moltissime.» È vero, recentemente, mentre ero a Pondicherry, ho scoperto che lì sono state ritrovate monete romane e le mura di una fabbrica romana. «Appunto. Ad ogni modo, sebbene non sia chiaro quanta influenza abbiano avuto queste interazioni, è assodato che una certa convergenza tra il pensiero ellenico e quello buddhista sia cominciata in quel periodo, tanto da segnalare la presenza di comunità buddhiste nel mondo ellenistico dell’epoca; ad esempio quella di Alessandria d’Egitto e di ordini monastici pre-cristiani come quello dei Terapeuti (affine alla parola pāli “Theravāda”), che potrebbero aver quasi completamente tratto ispirazione da insegnamenti e pratiche dell’ascetismo buddhista. Sono state anche ritrovate ad Alessandria delle pietre tombali buddhiste del periodo tolemaico, decorate con raffigurazioni della ruota del Dharma. Commentando sulla presenza di buddhisti ad Alessandria, alcuni studiosi hanno fatto notare che fu in seguito in quello stesso luogo che alcuni dei più attivi centri della Cristianità sono stati fondati». Ho sempre associato istintivamente la figura del Cristo a quella del Buddha, ma che lo fossero anche storicamente non me lo sarei mai aspettato. Che brutta l’ignoranza!
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