di Gianmarco Massaro
Viaggiare è una delle cose più belle che si possa fare. Assaporare culture diverse dalla nostra, immergersi in esse, avvicinarsi a codici esistenziali differenti da quelli in cui siamo cresciuti, contemplare posti meravigliosi che non potremmo ammirare dalle nostre parti. Fantastico. Un piacere per i nostri sensi, il nostro cuore, e soprattutto un valore spirituale inestimabile.
Come spesso accade, però, di qualcosa di buono che ha un grande valore, ma sempre all’interno di una cornice di senso più ampia che lo contiene, viene fatto un idolo in sé, e se ne perde così quasi tutta la potenzialità umanizzante. Anzi, scambiando il Tutto con una parte del Tutto, si rischia addirittura di andare nella direzione contraria al progresso umano. Questo, appunto, mi sembra il caso della narrazione sul viaggio: sembra che il Cammino dell’Uomo si esaurisca nell’essere una pallina da ping-pong lanciata senza sosta da una parte all’altra del globo. Sembra che per avvicinarsi al grado massimo di umanità possibile basti intozzare le tasche della Ryanair. La risposta per tutti i mali dell’uomo? Semplice, viaggiare!
Troppo semplice, forse.
Non esistono scorciatoie.
Lasciando da parte la logica esclusivista e intrinsecamente classista di questa modalità di pensare, credo che, come ogni conclusione umana, essa risponda a dei bisogni fondamentali che le sottendono, sempre celati a chi li agisce.
Oggi abbiamo l’obbligo di essere tutto ciò che possiamo essere, pena il rischio di essere confinati nella categoria dei “falliti”. Ma visto che il discernimento per distinguere ciò che possiamo essere da ciò che invece non possiamo è merce sempre più rara, inseguiamo, non sapendolo, anche ciò che non siamo chiamati a essere. Dobbiamo essere tutto, non possiamo permetterci di non essere qualcosa. E dobbiamo esserlo sempre, e ovunque. Ovunque, appunto. Il senso del limite (in verità dal ’68) è sempre più vissuto come un impedimento inutile e inaccettabile e con esso, per converso, si assiste a uno strabordare dell’Io verso lidi che francamente non gli competono, non raggiungendo altro risultato che la dispersione. Più spazio copriamo, più siamo visti, più ci siamo, più lo sguardo dell’altro ci conferma che siamo vivi, più l’angoscia di morte si placa. Almeno in superficie.
Ma un altro bisogno inconfessabile pulsa forte nelle profondità di chi non sa stare nello stesso Paese per più di un mese di fila; che a dire il vero è il bisogno di ogni Essere Umano, ma che alcuni penserebbero di soddisfare interamente col viaggiare: il bisogno di trovare se stessi, la nostalgia di un luogo sicuro in cui riposarsi. La mancanza ad essere, in un certo senso, direbbe Lacan. Ma per trovarsi, dobbiamo prima perderci. E forse è questa l’intuizione di chi fa dell’esplorazione di luoghi lontani e sconosciuti la propria missione di vita: il desiderio di vedere le cose con la meraviglia del primissimo sguardo, spogliarsi delle ingombranti sovrastrutture che ci ingolfano la mente, il cuore e gli occhi, per farsi sorprendere da qualcosa di sempre nuovo. Sentirsi vuoti, accettare umilmente che dobbiamo prima conoscere per riuscire a muoverci bene. Forse è questo, è perdersi, il primo passo per iniziare a ritrovarsi, per iniziare la Ricerca della Luce, per ripercorrere il sentiero che porta verso noi stessi, il viaggio più bello di tutti. E forse è proprio questo, perdersi, uno dei desideri più ardenti e atavici del viaggiatore.
Un altro, infine, è il bisogno recondito del viaggiatore, il più pressante. Questo bisogno-desiderio, può essere visto nelle sue due facce, apparentemente opposte, ma non cambia il significato del suo nucleo, non cambia ciò di cui è il sintomo, ovvero la fuga. E non credo di essere troppo ardito se dico che, nella maggior parte dei casi, è una fuga da se stessi. In mancanza di uno sguardo interiore purificato, di un rivolgimento verso di sé sano, onesto e fecondo, la proiezione verso l’esterno risulta la strategia difensiva che va per la maggiore in un mondo che non ha tempo, che va sempre più veloce, non si sa dove, purché si vada. E quindi la Felicità non è qualcosa che sta da qualche parte dentro di noi, da cercare con pazienza, nella quiete, non è qualcosa di sempre disponibile, è bensì qualcosa di indisponibile e limitato da rincorrere affannosamente, da cercare fisicamente, da afferrare e tenere stretto tra le proprie mani, fino a soffocarla. Ma, per fortuna, la Vita non si compra. E qui ci corre in aiuto un grandissimo autore della tradizione ebraica, Martin Buber, che nel suo libretto Il Cammino dell’Uomo scrive:
“[…] così insegnava Rabbi Bunam: ‘i nostri saggi dicono: ‘Cerca la pace nel tuo luogo’. Non si può cercare la Pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata. È detto nel salmo: ‘Non c’è pace nelle mie ossa a causa del mio peccato’. Quando l’uomo ha trovato la Pace in se stesso può mettersi a cercarla nel mondo intero’. […]”.
E ancora:
“[…] non cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi de mondo o dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun’altra parte, che si trova il tesoro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno, in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale, lì si trova il compimento dell’esistenza messo alla mia portata. […]”.
Vista dall’altra prospettiva, questa corsa in avanti, può apparirci letteralmente come una ritirata a gambe levate. Scappare da sé, dalla nostra voce interiore, dalla tristezza, e in ultima analisi, come dei novelli cavalieri di Samarcanda, dalla Morte: questo forse è il motivo principale che costringe il viaggiatore a viaggiare. Si badi bene: costringe.
Puoi scappare quanto vuoi, tu sarai sempre con te.
“La mente
è luogo a se stessa
ed in se stessa
può fare del paradiso un inferno
e dell’inferno un paradiso”.
Queste parole di John Milton racchiudono perfettamente il concetto, che non si potrebbe meglio esprimere con altre parole.
Fermiamoci. Non abbiamo paura! Lasciamoci scendere dentro di noi, lasciamo piano piano gli ormeggi che ci tengono ancorati a noi, uno alla volta. Ritorniamo a noi stessi. Al nostro interno ci imbatteremo senza dubbio, prima o dopo, nella Selva Oscura popolata da fiere feroci e demoni terrificanti, lo stesso Carl Gustav Jung ci mette in guardia: “Il viaggio più difficile di un essere umano è quello che lo conduce dentro se stesso alla scoperta di chi veramente egli è”. Ma non è tutto lì. Quella Luce, che vediamo, che a volte non vediamo ma che, se ci ascoltiamo fino in fondo con cuore calmo, sentiamo esserci sempre, quella Luce che ci guida verso di sé (verso di noi) non si spegne mai. Sta lì, sempre, immobile, eterna.
E seguirla con Fede diventa il vero Cammino di Rinascita, il vero Viaggio di Scoperta, sempre sorprendente, in cui la Bellezza accecante di questa Luce non è paragonabile con nessuna delle meraviglie terrene, fino a farci dimenticare anche la paura della Morte, quando scopriamo, finalmente, che Vivere è morire nella Luce. In questa Luce.
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” – cit. Marcel Proust
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