di Paolo Genta
Il ritorno a scuola nella società postpandemica (in realtà, né post né pandemica, alla luce delle emergenti, e sempre più smaccate, evidenze) può essere un problema per i docenti che sono rimasti “non allineati” ad una narrazione ufficiale, cocciutamente resistente ad ogni contraddizione logica e paradosso scientifico? Spieghiamoci. Per i professori che, fin dall’inizio, non hanno avuto problemi ad adattarsi, supinamente o convintamente, a condizioni estreme di convivenza scolastica, imposte da governi sordi a qualunque opposizione al ricatto sociale, il problema probabilmente non si porrà. Tutto, per loro, scorrerà forse in una “riconquistata” (in realtà, forse ancora provvisoriamente, concessa) ordinaria normalità: una normalità, di fatto, anomala e ipocrita, nella quale gli stessi rapporti di fiducia e stima tra le persone sono stati in gran parte annichiliti dalle divisioni indotte dalla manipolazione mediatica; una normalità a lungo agognata ma, in fondo, subita e introiettata in modo irriflesso, nella quale regneranno costantemente finzione ed acefala accettazione, come tragiche conseguenze di quanto imposto dalla propaganda di regime. Potrà la vita di questa classe di insegnanti, forse “per caso”, scorrere ancora leggera e ordinaria, come prima, senza particolari domande né risposte, in una eterna coazione a ripetere la standardizzazione di sé stessi? Una standardizzazione che ha, però, indubbiamente alcuni vantaggi: mettere al riparo da qualche collega poco ordinario o pericolosamente imprevedibile; non cimentarsi nel faticoso impegno quotidiano di interessarsi all’anima dei propri studenti e non solo alla loro prestazione; evitare la spiacevole eventualità di trovarsi improvvisamente a parlare di qualcosa di più profondo dei tranquillizzanti chiacchiericci ordinari in sala professori e, soprattutto, astenersi dalla doverosa necessità morale di un esame di sé, per guardarsi allo specchio e chiedersi, ogni giorno: “sto facendo la cosa giusta?”. Per questo popolo docente della scuola italiana, spesso in parte ormai attempato e stanco da decenni di insegnamento senza troppe domande, oppure ancora, manifestamente troppo giovane e non sempre del tutto attrezzato per una comprensione più profonda degli eventi, l’esistenza di colleghi che hanno sempre genuinamente ed in buona fede posto la questione della trasparenza e dell’accesso ad una informazione alternativa (ma, necessariamente, ben documentata) può essere stata vissuta, in effetti, come disturbante, irritante e nemica. Ed è proprio questo che ha poi, tragicamente, contribuito a quelle silenziose e irrecuperabili divisioni tra colleghi che prima, almeno, sopportavano cristianamente le reciproche differenze di opinione su cose molto meno vitali, per spirito di serena convivenza e di “collaborazione del gruppo docente”. Differenze e dissensi che ora, però, sono state giudicate, dagli “andrà tutto bene”, recisamente insopportabili e offensive del comune senso del pudore ideologico, in quanto non allineate al pensiero di maggioranza: mascherine a oltranza, distanziamenti coatti, controllo serrato sugli studenti in nome della “salvezza”, rifiuto delle prove scientifiche divergenti, piena accettazione degli enunciati “scientifici” della virologia di massa…tanta roba. Un tale docente “integrato”, dunque, non avrà percepito, probabilmente, che il ritorno dopo il cambiamento non può più essere assolutamente identico alla situazione precedente: troppe cose sono mutate in modo tragico e accelerato. La scuola militarizzata, tecnosanitaria, deumanizzata di sé stessa (e pure privata, oltre che di autentico significato educativo, anche di solidi “contenuti disciplinari”), può venire accettata, in quanto tale, come normale, solamente da chi ha smesso da tempo, forse da sempre, di cercare nella sua vita, e in quella degli altri, un senso più profondo di sè, del suo modo di fare esperienza nella vita, di comprendere ed immedesimarsi, ma soprattutto di accettare che possano esistere versioni alternative, logiche, coerenti e sperimentalmente falsificabili degli eventi del mondo. Per questo tipo di insegnanti non occorrerà esprimere un giudizio, più che non occorra tributare loro una umana ed empatica comprensione dello stato del loro percorso di affrancamento dall’inconsapevolezza, dall’egoico, dalla certezza incrollabile di essere, insieme al gruppo, dalla parte della ragione e della Storia, senza particolare necessità di verifica. E tant’è. Non ci si può fare più nulla. Ma veniamo, invece, agli “apocalittici”, per mantenere la metafora di quella buon’anima di Umberto Eco, quando parlava del dibattito sulle nuove tecnologie, tanti anni fa. Veniamo, cioè, a quei docenti che, nemmeno tanto nascostamente, hanno comunque esercitato, con prudenza o con orgoglio, il loro diritto di dissentire: un pacato ma fermo dissenso, consapevole dei rischi, che, lasciando la “doxa”, cioè le opinioni da bar e le ombre del verosimile, ha sempre cercato di argomentare con libri, articoli scientifici, studi internazionali, documenti recenti o datati e, necessariamente, seguendo le ordinarie, nonché millenarie, leggi della logica formale: identità, non contraddizione, terzo escluso, e tutto ciò che regola le fallacie argomentative (un esempio per tutti: l’assenza di una prova non è la prova di una assenza…). Astensioni volontarie, sospensioni d’ufficio, demansionamenti, hanno allontanato questi docenti, il più delle volte, dalla possibilità di scontri diretti o di disdicevoli quanto “inopportuni” battibecchi con i colleghi ottemperanti. Ma ora, autunno 2022, entrambe le parti, almeno fino a contrordine sanitario (ormai disperatamente poco probabile), sono paritariamente state rimesse in pista, nella comune arena di quella docenza che dovrebbe avere per obiettivo unanime, tra i tanti, “l’educazione morale” dello studente (io direi: l’evoluzione della sua Coscienza). Nessun problema nei corridoi, nelle sale professori, negli appuntamenti della burocrazia scolastica: i prof dalle opposte tendenze, come le specie animali, sapranno evitare di invadere il territorio altrui, in un libero gioco di evitamenti e di sorrisi di circostanza. Ma in classe? Le materie più suscettibili di dibattito e di problematizzazione, si sa, sono la Storia, le Scienze Umane, la Filosofia, il Diritto, e pure la tanto bistrattata e manipolata Educazione Civica (le altre materie offrono il vantaggio notevole di poter “glissare”). Qui risulterà molto difficile, per i “diversamente allineati” abdicare, durante la lezione, a quei capisaldi, per alcuni meramente ideologici e per altri di irrinunciabile valore etico: bisognerà in qualche modo dire “la verità”, almeno quella percepita con fatica e duro lavoro ermeneutico. Come si farà? Sarà ancora possibile enunciare i principi del Diritto Naturale, i valori della società greco-romana (e non transumana), le conquiste della Logica e dell’Empirismo galileiano, senza che gli studenti avvertano le palesi contraddizioni e gli stridenti paradossi che dirompono tra realtà quotidiana e teoria disciplinare? Prima o poi anche il più sonnacchioso degli alunni alzerà un sopracciglio e, svegliandosi dal suo sonno dogmatico, farà qualche domanda, anche se a mostrare queste contraddizioni (non è da escludersi) dovesse essere quel docente stesso, in mancanza di una qualche capacità minorile di avvertirle. Ideale sarebbe, davanti alla classe, un approccio formalmente e scientificamente ineccepibile, in grado di proporre le tesi contrarie al Mainstrem governativo sulla base di documentazione inoppugnabile; una presentazione delle tesi alternative, non necessariamente rivestite di una forma aprioristica di dissenso, ma come onesta risultante di un equilibrato ragionamento, di una puntuale indagine, di un organizzato approccio causale e induttivo-deduttivo. Un approccio che sia, comunicativamente, privo di fervori ideologici, di accaloramenti appassionati, che si svolga nel pieno di una serena tranquillità e consapevolezza di rimanere entro gli argini del discorso scientifico, pur opposto alla vulgata di massa. Ce lo insegnava già Max Weber nei suoi due saggi del 1919: “Politik als Beruf” e “Wissenschaft als Beruf” (La Politica come professione; La Scienza come professione, edizione Einaudi): la cattedra non è il luogo dell’indottrinamento politico e dell’uso della propria forza intellettuale su un pubblico asimmetrico. Insegnare richiede sempre e comunque un autentico approccio argomentato e documentato, che sia in grado di mantenersi nel perimetro di una “avalutatività” scientifica, weberiana appunto; una obiettività analitica, per quanto umanamente possibile, che garantisca pur sempre al pubblico la piena libertà di aderire o meno alle tesi presentate, con tutte le sue conseguenze sui fatti “testardi”. Un approccio troppo diretto del docente, esplicitamente assertivo, che non lasciasse alternative, risulterebbe invece controproducente e a rischio, appunto, di “far politica a scuola”. D’altra parte, ignorare completamente una versione alternativa dei fatti significherebbe ricadere nell’idealtipo di docente “integrato”: cosa impossibile, per chi ha lotttato e subito per due anni (e anche prima), per difendere una propria, presunta o meno che sia, dignità intellettuale e di Coscienza. Un esempio? Le patinate brochures ministeriali con i colori dell’Ucraina, elegantemente lasciate sui tavoli delle scuole, che dovrebbero presuntamente spiegare al popolo scolastico quanto inaccettabile e vergognosa sia l’aggressione russa, sono una lama nel cuore per chi ha passato settimane a leggersi le monografie, le testimonianze dirette, e a seguire gli studi geopolitici “alternativi” che spiegano, passo dopo passo, cosa sono stati gli otto anni di guerra e di provocazioni alla Russia, da parte di una regione ex sovietica, ora Stato indipendente, da tempo strumentalizzata e nazificata per mano della nomenclatura del Deep State americano, della NATO e delle oligarchie di Bruxelles, almeno per come tentano di rappresentarcelo, da anni e con documentata competenza, giornalisti e analisti indipendenti come il fu Giulietto Chiesa, e gli ottimi e (fortunatamente) ancora viventi Giorgio Bianchi e Franco Fracassi (tutta gente che, tra l’altro, è stata più volte sul posto e che parla la lingua). E allora che si fa? Esisterà ancora per molto la costituzionale “libertà di insegnamento” (Art. 33: ”l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento), al riparo della quale tentare ancora di rivendicare una minima indipendenza ed onestà di pensiero davanti alla propria classe, nei limiti ora enunciati? A giudicare dalle recenti terribili violazioni degli altri diritti costituzionali, che gli italiani hanno dovuto sopportare in questi due anni, non c’è da scherzare: infatti le manovre governative per una riduzione delle autonomie di docenza nella scuola sembrano ancora “andare avanti come treni”, nonostante il miserabile crollo della narrazione pandemica, già maldestramente sostituita da quella bellico-energetica. Qual è, allora, il vero ed autentico dovere morale, umanistico e universale, del Maestro? Per chi, come gli antichi Mistagoghi di rito misterico Eleusino, nella Grecia dei secoli arcaici e classici, si sente educatore in ogni momento della sua vita, in quanto testimone del suo tempo ed epigono di un mondo dimenticato e umiliato, che viveva nella antica visione di una Scienza universale, nel dialogo riflessivo e nel rispetto del confronto, parlare agli studenti con franchezza è un obbligo morale, il cui tradimento danneggerebbe irreparabilmente la Coscienza stessa del proprio essere. Tornano in mente quei dodici docenti universitari italiani che rinunciarono alla firma delle leggi razziali del 1938. Oppure quei coraggiosi ragazzi tedeschi della Weisse Rose degli anni Trenta, ingenuamente felici di inondare i corridoi della propria facoltà di volantini antinazisti. Vi sono cose, nel mondo etico, che non si possono non fare. Vi sono cose, nel mondo del compromesso e della omologazione, che conviene fare, altrimenti le fanno altri.
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