La chimera di una tavola rotonda

Perché in Italia non c'è la volontà di adoperarsi per una società migliore?

Manav Sadhna Ahmedabad. ndia

di Danilo D’Angelo

Come i lettori che mi seguono da più tempo sanno mi occupo principalmente di educazione. A parte essere nato in una famiglia di insegnanti e che io stesso ho insegnato musica e applicazioni tecniche nelle scuole medie inferiori, questo mio interesse verso la scuola trae origine da un semplice ragionamento che feci diversi anni fa e che non implicava il mio Paese d’origine.

Frequento l’Asia da diversi decenni e ho visto con i miei occhi l’impressionante cambiamento di stile di vita, di cultura e di tradizioni imposto dall’occidente tramite la famigerata globalizzazione. Non mi soffermerò a elencare questi cambiamenti, ma accenno a ciò solo perché da qui è partito il mio desiderio di fare qualcosa per le nuove generazioni, soprattutto indiane, che rischiano di perdere completamente il contatto con il loro passato, la loro cultura e, quindi, con la loro identità. Mi chiesi come avrei potuto evitare tutto ciò e la risposta che mi venne spontanea fu tramite la scuola. Cercai per diversi anni di racimolare fondi sufficienti per dare vita ad una mia scuola, ma trovare fondi in India è veramente difficile, anche a causa della mentalità indiana che vede la condizione di ognuno come conseguenza di una vita precedente; per questo motivo è raro vedere un indiano che fa l’elemosina o che dona dei fondi per una qualsiasi iniziativa.

Pensai, allora, di contattare le varie Organizzazioni Non Governative che si occupano di educazione e scuola, per vedere se fosse stato possibile organizzare un incontro tra di loro in modo da verificare se ci fosse un’unità d’intenti. In quel periodo avevo diversi contatti nello Stato del Gujarat. Cominciai quindi da lì. Una delle prime persone alla quale mi rivolsi fu Sukhadev Patel, Presidente dell’associazione “Ganatar”, una grande ONG che si occupa di lavoro minorile e di traffico di minorenni, che ha sede ad Ahmedabad. Quando arrivai all’indirizzo del suo ufficio mi guardai intorno incredulo: si trattava di un condominio decrepito alla periferia della megalopoli indiana e il numero dell’interno mi indicava addirittura una porticina del sottoscala. Com’era possibile, pensai, che qui si trovi l’ufficio di una grande ONG? Qualche anno prima avevo passato un intero mese a Bruxelles a girare un documentario – con un’associazione italo-indiana – sugli “eight millenium goals” che la Comunità Europea si era prefissa di raggiungere con l’inizio del nuovo millennio, e avevo frequentato gli uffici di diverse ONG anche più piccole di Ganatar, ma tutte avevano sedi prestigiose, con tanto di sale d’aspetto e segretarie.

Qui, invece, entrai in un ambiente composto da quattro stanzette scrostate e ammuffite, dalle quali, però, si salvavano le vite di centinaia di bambini. Sukhadev non aveva un aspetto migliore del suo ufficio, se lo avessi incontrato per strada avrei pensato fosse un chai wala. E invece era appena tornato dalla Corte Suprema dove aveva tenuto un corso d’aggiornamento sulle ultime normative e sui provvedimenti riguardanti i diritti dei bambini.

Sukhadev aderì immediatamente e totalmente all’idea di stabilire un contatto tra le varie associazioni che operano in ambito educativo. Anzi fu talmente entusiasta che ne parlava come se fosse un’idea sua. «Dobbiamo darci un obiettivo per volta» diceva, «non dobbiamo porci come antagonisti al governo, ma farci percepire come un aiuto che gli offriamo». Gli chiesi quale potesse essere, secondo lui, una sede neutrale dove poter svolgere l’eventuale incontro. Propose il Gujarat Vidyapith, l’università fondata dal Mahatma Gandhi nel 1920.

Prima di lasciarlo gli chiesi del fenomeno dei bambini scomparsi; mi confermò che era in costante aumento e che in India non si ha la reale percezione di questa piaga. I bambini scompaiono in tutta l’India, ma è in Gujarat che la maggior parte di loro viene ritrovata. Questo perché è lo Stato più industrializzato del sub continente indiano, grazie alle politiche neoliberiste del governatore di allora, Narendra Modi, oggi Primo Ministro dell’India. Infatti il 70% dei bambini ritrovati in Gujarat provengono da altri Stati. Bambini che vengono rapiti da gang specializzate o venduti dalle famiglie che non hanno modo di mantenerli, né di mantenersi, e in questo modo racimolano quel po’ di denaro che gli consente di tirare avanti per qualche settimana. C’è un vero e proprio racket dietro tutto questo e Sukhadev non nascose la complicità di alcuni elementi corrotti della polizia stessa. Parte di questa tremenda realtà alcuni di voi l’avranno intravista nel film “Millionaire”.

Per velocizzare e facilitare l’apertura di nuove industrie in Gujarat, Modi offrì i terreni per costruire i nuovi stabilimenti a prezzi stracciati e invogliò ulteriormente le grandi aziende garantendo l’esenzione fiscale per i primi quattro anni. A tal proposito Ratan Tata, alla guida del più grande gruppo industriale indiano, al cui cospetto la FIAT impallidisce, disse una frase che diventò celebre in India “A queste condizioni chi non viene in Gujarat è uno stupido”. Quindi ne approfittarono tutte le più grandi aziende indiane e straniere – tra le prime ci fu la Volkswagen – e il Gujarat richiamò manovalanza a basso costo da tutta l’India; da qui l’afflusso di bambini.

Prima ho scritto che non volevo elencare i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni in India a causa della globalizzazione, ma in questo caso farò un’eccezione.

Uno di questi cambiamenti all’interno della psicologia indiana è stata la competitività, un sentimento estraneo fino a pochi anni fa, ma che oggi si manifesta in modi diversi tra i differenti strati sociali e trasversalmente in diversi ambiti, trai quali la scuola. Con l’avvicinarsi dell’esame di maturità tra gli studenti si diffonde il panico, provocato soprattutto dalle aspettative dei genitori. Le famiglie della media borghesia nascente vedono la possibilità di poter iscrivere i propri figli ad università prestigiose; quelle con scarsità di mezzi economici potrebbero ottenere una borsa di studio, elemento fondamentale per far proseguire i propri figli negli studi universitari. Risultato: centinaia di studenti, nella sola Ahmedabad, si suicidano ogni anno e molti di più ricorrono a cure psichiatriche.

Scusate la parentesi. Dopo Sukhadev Patel andai ad incontrare Jayish Patel. Il cognome Patel sta all’India come Rossi all’Italia. Stesso cognome, ma due mondi opposti. Jayish è fondatore di una delle ONG più strutturate di tutto il Gujarat e, molto probabilmente, di tutta l’India: “Manav Sadhna”.

Questa ONG ha sede nell’ashram del Mahatma Gandhi, situato sulle rive del fiume Sabarmati, una struttura bella nella sua semplicità, nello stile gandhiano, armonica e immersa nel verde. Chi mi accolse mi fece attendere all’interno di una grande sala immersa nel profumo dell’incenso di sandalo e con un sottofondo musicale di sitar e tabla. Un’atmosfera molto rilassante, un po’ in stridore con il frenetico andirivieni che percepivo nel cortile, dove volontari provenienti da tutto il mondo erano occupati nello svolgere le loro mansioni. Dopo poco comparve Jayish, vestito con la kurta, il tipico vestito indiano che ormai è diventato una rarità. Fino a pochi anni fa anche i ministri del governo centrale vestivano così, oggi quasi tutti gli indiani vestono all’occidentale. Una figura slanciata e un bel viso simpatico con un naso da pugile, Jayish mi accolse con un sorriso molto caldo e cordiale. Gli esposi il mio pensiero sul cambiamento che stava avvenendo in India e su come fosse fondamentale intervenire a livello scolastico. Jayish fu d’accordo con me e si mostrò aperto anche alla possibilità di effettuare un incontro con le altre associazioni del Gujarat. Dopo avermi offerto l’immancabile tazza di chai mi invitò a seguirlo per mostrarmi cosa stava facendo con la sua organizzazione. In quei giorni era appena arrivato un prototipo di sedia a rotelle ideata da un ragazzo americano, che aveva dei costi di produzione ridicoli e volle mostrarmela. Ne comprò qualche centinaia da far avere alle persone disabili di Ahmedabad. Uscimmo dall’ashram e mi portò nello slum per mostrarmi come, a poco a poco, Manav Sadhna lo stesse rendendo più vivibile, a cominciare dall’istallazione dei servizi igienici e la costruzione della rete fognaria. Come entrammo nello slum un nugolo di persone si precipitò verso di noi e, a turno, si gettarono letteralmente ai piedi di Jayish, in segno di rispetto. Questa usanza, forse per noi eccessiva, è tutt’ora in uso anche nelle famiglie altolocate, quando ci si trova al cospetto di una persona anziana della famiglia. In quel caso non ci si butta più ai piedi, ma ci si inchina toccandosi la fronte con la mano destra e toccando poi i piedi dell’anziano. “Rispetto”, una parola che da noi ha perso significato.

Tornati all’ashram Jayish mi propose di organizzare lì da lui l’incontro, ma gli dissi che forse sarebbe stato meglio farlo in un territorio neutrale, come il Gujarat Vidyapith. Lui approvò immediatamente.

Con due ONG così popolari dalla mia parte andai a parlare con Sudarshay Iyengar, vice Cancelliere del Gujarat Vidyapith, una sorta di vice Rettore.

Mi aspettavo un incontro per affittare una sala conferenze, ma non andò proprio così. Il Gujarat Vidyapith è un complesso con un corpo originario che si distingue dal resto per essere l’unico edificio architettonicamente dignitoso al confronto degli altri che sono semplici parallelepipedi in cemento. Fondata da Gandhi negli anni ’20 è una gigantesca università immersa nel verde e circondata da un’atmosfera al contempo rilassante e pregna di storia e di senso. Era l’ora del tramonto e questo particolare momento della giornata è sempre molto suggestivo nelle città asiatiche che, nonostante ospitino milioni di abitanti, sono costituite da edifici relativamente bassi e, con l’aiuto di grandi parchi cittadini, lasciano che l’occhio spazi fino ad orizzonti lontani. Oggi tutto sta cambiando, grazie al finto benessere imposto da noi occidentali. Grandi multinazionali e gruppi industriali locali costruiscono grattacieli un po’ ovunque, rappresentanze di una prosperità a disposizione dei soliti pochi.

Sudarshay mi ricevette nel suo ufficio, all’ingresso del quale sono appesi i ritratti dei vari Rettori che si sono succeduti nei decenni, a cominciare da quello di Gandhi per arrivare all’attuale; un ufficio privo di sedie e con grandi cuscini con poggia schiena, in classico stile indiano. Anche la sua scrivania era da terra, la qual cosa mi piacque molto. Mi sembrava di poter dire avessimo più o meno la stessa età e, come tutti i gandhiani, anche se riveste un’alta carica, non indossava vestiti sfarzosi, ma una semplice kurta.

Mi investì subito con tantissime domande: perché volevo organizzare questo incontro, di cosa si sarebbe parlato, quante sarebbero state le persone invitate, quali organizzazioni vi avrebbero partecipato, se fosse previsto un rinfresco o se fosse bastato offrire un semplice chai. Si dimostrò interessato all’idea e mi disse che non aveva obiezioni in merito, ma dato che il Gujarat Vidyapith è un organismo molto burocratico, tra le organizzazioni che avrebbero partecipato ce ne doveva essere una da loro riconosciuta di indubbio valore morale che si prendesse carico di fare la domanda per avere l’accesso alla sala. Gli chiesi se Ganatar potesse andare bene e lui rispose «Certamente, chiamo subito Sukhadev» e un brivido mi corse lungo la schiena. Purtroppo conosco bene gli indiani e temevo che Sukhadev potesse dirgli che non mi conosceva nemmeno. Dopo una breve conversazione telefonica in hindi, della quale l’unica cosa che capii era il mio nome, Sudarshay confermò che Sukhadev aveva dato il suo consenso ad utilizzare la sua organizzazione per l’affitto della sala. Mi accertai che questo non significasse che l’incontro si sarebbe svolto sotto l’egida di Ganatar, ma mi assicurarono di no.

Precedentemente ero andato a trovare un’altra ONG, la “Gramswaraj Sangh”, fondata da Rameshbahi Sanghvi, situata nel Kutch, una vasta area arida del Gujarat, dove Rameshbahi costruì una bella e grande scuola dove si insegnano i principi gandhiani dell’ahinsa (non violenza) e della tolleranza religiosa. Una scuola che si pone l’obiettivo dell’auto sostenibilità sia finanziaria che alimentare. Un posto meraviglioso. Accenno a questo perché quando durante la conversazione con Sudarshay citai Ramesh, una delle persone presenti nel suo studio intervenne e disse «Rameshbahi Sanghvi? E’ mio cognato!» e a quel punto tutto diventò più facile e l’atmosfera diventò cordiale e rilassata. Mi suggerirono diversi nominativi di scuole e organizzazioni che sperimentano nuove metodologie d’insegnamento e Sudarshay si offrì di contattarle personalmente, ma volle anche che il Gujarat Vidyapith, con il suo Dipartimento dell’Educazione, facesse parte dell’incontro, possibilità che mi fece grande piacere, ovviamente.

Questo racconto potrebbe andare avanti ancora per molto, narrandovi degli incontri che ebbi con le altre varie organizzazioni e delle impressioni che ricevetti dalle persone che ne facevano parte. Dirò solo che l’incontro si tenne il 25 febbraio del 2010 e che vi parteciparono 19 tra le più importanti ONG del Gujarat e fu anche ripreso da una televisione locale. Si trattò del primo incontro tra diverse associazioni mai fatto fino a quel momento. Il titolo fu: “Freedom in alternative education system” sottotitolo “The autonomy of non-governmental schools”. Fu molto interessante e si posero le basi per cooperazioni che ancora oggi continuano.

Vi chiederete perché vi abbia raccontato tutto ciò. Perché trovo singolare che un Signor Nessuno come il sottoscritto, in un Paese che non è il suo, abbia contattato organizzazioni molto importanti, che svolgono tutt’ora un lavoro incredibile, aiutando i più bisognosi e correndo rischi per noi inimmaginabili (vedi Sukhadev); organizzazioni che impiegano centinaia di dipendenti e migliaia di volontari provenienti da tutto il mondo, che “fanno”, non teorizzano, non stilano documenti, né convocano assemblee o convegni, ma che attraverso un duro lavoro ottengono risultati tangibili ogni giorno. Queste persone non solo hanno trovato il tempo per ricevermi e ascoltarmi, ma hanno convenuto che fosse giusto darsi una mano, collaborare per poter fare ancora di più. E non pensate che si vedessero tutti di buon occhio, per nulla. Per motivi di spazio a mia disposizione non ho parlato di come alcuni di loro non fossero contenti di dividere il loro tempo con altri partecipanti, delle invidie e delle accuse reciproche. Ma ciononostante si sono riuniti sotto lo stesso tetto e hanno lasciato da parte i vari rancori per il bene dei più bisognosi, bambini in primis.

Mentre qui, in Italia, da alcuni anni e assieme a diverse persone di associazioni con finalità simili (associazioni che, al momento, a parte ritrovarsi, parlare, produrre montagne di scritti, partecipare e organizzare convegni e conferenze, altro non si è fatto) da anni, dicevo, si prova a far sedere tutti intorno allo stesso tavolo senza riuscirci.

A questo punto mi viene da pensare che non ci sia la volontà, né si veda la necessità, di adoperarsi per una società migliore, ma solo si cerchi una maggiore visibilità, un posto al sole che scaldi il proprio ego e basta. Se è così è giusto che queste persone non ottengano nulla, perché sarebbero le persone sbagliate al posto sbagliato.

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