di Michele Giorgio
Nel giorno dell’inizio, 22 anni fa, della seconda Intifada, l’esercito israeliano ha lanciato nel campo profughi di Jenin una delle sue operazioni più profonde e devastanti di questi ultimi mesi. Un attacco, in cui sono morti quattro palestinesi e oltre quaranta sono rimasti feriti, che rischia di far divampare un incendio nel nord della Cisgiordania dove in queste ore dominano rabbia e desiderio di rappresaglia. E anche di far vacillare ulteriormente l’Autorità Nazionale (Anp) di Abu Mazen schiacciata tra la pressione militare di Israele e le proteste della popolazione palestinese che chiede la fine della collaborazione di sicurezza con le forze di occupazione. Ciò mentre il pugno di ferro che Israele ha deciso di usare la scorsa primavera – dopo gli attentati in cui sono state uccise 18 persone a Tel Aviv, Bnei Brak, Hedera e Bersheeva – sta avendo il risultato contrario rispetto a quello che il governo e i comandi militari israeliani affermano di voler ottenere. Dopo circa 100 palestinesi uccisi in raid militari ormai quotidiani, dozzine di feriti e oltre 1500 arresti, non diminuiscono anzi si moltiplicano spari e attacchi contro le postazioni dell’esercito e gli insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata da 55 anni.
Le incursioni militari a Jenin, Nablus – le roccaforti della militanza armata – e altre città cisgiordane avvengono sempre di più spesso durante le ore di luce e non più solo di notte. Ieri le forze israeliane hanno circondato la casa della famiglia di Raad Hazem, responsabile dell’attentato di aprile a Tel Aviv in cui rimasero uccisi tre israeliani, e sparando un missile anticarro contro di essa hanno ucciso suo fratello e altri due palestinesi: Abed Hazem, Mohammed Abu Naaseh e Mohammed Alona. Il quarto ucciso, Ahmed Alawneh, è stato colpito alla testa da un cecchino mentre combatteva in strada. Una foto diffusa da palestinesi sui social mostra uno dei cadaveri all’interno della casa annerita dall’esplosione su cui soldati israeliani avrebbero scritto la parola «Fine». Almeno 44 persone sono rimaste ferite durante gli scambi di raffiche di mitra andati avanti per oltre un’ora. Due dei feriti sono stati colpiti al petto e ieri sera erano in condizioni disperate. Testimoni hanno raccontato di scene che non si vedevano dalla seconda Intifada.
«Non esiteremo né saremo dissuasi ad agire contro chiunque tenti di colpire i cittadini israeliani o le nostre forze di sicurezza», ha commentato il primo ministro Yair Lapid. Ma il raid ha creato una situazione esplosiva. Tutti i partiti e movimenti palestinesi, incluso Fatah di Abu Mazen, hanno proclamato un «giorno d’ira» e uno sciopero generale in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est.. Sono scoppiati scontri un po’ ovunque tra soldati e dimostranti. I palestinesi inoltre denunciano un attacco di coloni. Più l’esercito israeliano lancia i suoi raid, più le immagini degli uccisi girano su Tik Tok e altri social e più si ingrossano i ranghi della Fossa dei Leoni, il gruppo armato guidato fino a due mesi fa da Ibrahim Nabulsi ucciso a Nablus, considerato un eroe della resistenza palestinese.
Trema l’Anp che Israele ormai non considera più un «partner per la sicurezza» ma soltanto una autorità amministrativa incaricata di fornire servizi alla popolazione palestinese. Nabil Abu Rudeina, il portavoce di Abu Mazen, ha accusato Israele di non rispettare la vita dei palestinesi «e di compromettere la sicurezza e la stabilità con la sua politica». Ha aggiunto che «Israele chiede calma e stabilità mentre pratica tutte le forme di escalation, uccisione e distruzione». Le parole non bastano più alla popolazione palestinese che vede nei rapporti dell’Anp con Israele il punto di debolezza della leadership di Abu Mazen, priva ormai di consenso e credibilità.
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