di Paolo Genta
E’ finita la Scuola. In ogni senso. E’ finita una storia di un anno. Ma è anche finita La Storia. Avete mai provato a parlare di Storia in una classe di adolescenti sonnacchiosi, sofferenti, distratti o rispettosamente apatici e demotivati? Ebbene, potreste scoprire, insegnando, che il problema di raggiungere il vostro “target” non è solo e tanto negli studenti: il problema potrebbe essere, invece, proprio la Storia. Mi spiego: assistiamo ormai da anni ad un cambiamento nella qualità della manualistica, cioè dei libri di Storia stessi, quelli degli studenti del Triennio dei Licei. Sono cambiati totalmente le impostazioni, il modo di offrire la riflessione sulla materia, la presentazione, gli strumenti, il modo di descrivere gli eventi. E’ sparita, cioè, insieme ad altre cose, la Sociologia, come tecnica di ragionamento formale sulla Storia, ovvero sulla possibilità di trovare, grazie alle teorie socio-economiche, quelle invarianti nei processi storici, che ci permettono di identificare e comprendere “cose tipiche in situazioni tipiche” e, quindi, di dare alla Storia un senso preciso, di imparare (ed insegnare) una tecnica di indagine dotata di capacità, in qualche modo, predittive (per quanto la Storia lo possa permettere, naturalmente). Sono cambiate tante cose dagli anni Novanta. I libri di Storia di oggi pesano troppo: la carta di cui sono fatti è costosa e spessa, inutilmente raffinata e lucida, come un patinato catalogo di nautica. Sono spesso farciti di coloratissime schede e mappe, di fatto poco utili per povertà di informazione, spesso inserite un po’ a caso. Contengono una quantità di sezioni “didattiche” di vario tipo: proposte di “lavoro in classe”, schede di film, simulazioni di domande per ripasso, tanto banali quanto nozionistiche, test a risposta multipla che, oltre alla loro completa inutilità per fini didattici più analitici e approfonditi, sono palesemente raffazzonati e di affidabilità statistica scadente (e questo, purtroppo, vale anche per i “materiali del docente”, che mostrano una sconfortante insistenza su un nozionismo, tanto inutile quanto ridicolo). Poi ci sono gli interventi “selezionati” di personaggi dal passato politico o di intellettuali a volte di eccessivo peso mediatico (se non addirittura di discutibile moralità), presentati come autorevoli pensatori, a fronte di una parallela assenza di studiosi meno in vista, ma che presentano, invece, un apparato di idee più critico e coraggioso, oltre che ben documentato. Per esempio: J.M. Keynes, il grande economista che ispirò il New Deal, era presente ai trattati di Parigi e aveva dimostrato, nel suo The Economic Consequences of the Peace, del 1920 come il Trattato di Versailles avesse messo in ginocchio la Germania con le sue terribili clausole preparando, il terreno per una seconda guerra. Ma oggi poco importa. Su un libro di Storia di oggi possiamo trovare una bella lettura di uno storico nato nel 1958, secondo cui questo è un luogo comune e fu, invece, la “cultura della guerra” la vera responsabile del successivo Nazismo. Alla faccia di tutta la saggistica critica e controstorica, documentatissima, che rileva gli interessi delle élite finanziarie mondialiste nelle guerre del Novecento. Abbiamo, poi, una buona dose di retorica nazional-popolare sui temi istituzionali e giuridici di base, che stride ogni anno di più con le condizioni di lavoro ed i mezzi sempre più scarsi della Scuola (e sorvoliamo sugli ultimi pazzeschi due anni). Non affrontiamo qui, per decenza, il crescente condizionamento manipolativo di inserti che richiedono di assimilare acriticamente i diktat di regime contro chi ha deciso di non vaccinarsi (“dividetevi in gruppi e chiedetevi quale pensiero o preoccupazione può aver spinto le persone a credere a queste notizie”). E non è finita: l’esposizione è eccessivamente sintetica, quando non laconica o smaccatamente superficiale e adagiata più sulla cronologia degli eventi che sull’analisi delle cause e delle possibili interpretazioni problematiche, spesso ridotte al minimo. Altro esempio: Stolypin? Un “riformatore degli anni delle prime Dume zariste che fallì nel suo intento di aiutare i contadini poveri”, per i manuali di oggi. Per i manuali di ieri: Petr Arkadevic Stolypin, che, uomo forte del regime zarista e scatenatore del terrore nelle campagne, volle affrontare la questione agraria russa, tra il 1906 e il 1911, dividendo astutamente operai da contadini, nel tentativo di trasformare questi ultimi in una media classe proprietaria, conservatrice, borghese, per isolare la classe operaia e salvare lo zarismo da sé stesso. Qui c’è, comunque, un concetto: là solo una frase da mandare a memoria. Oltre che a badare più agli eventi che ai processi, insomma, si riducono ai minimi termini (incomprensibili per gli studenti) questioni non secondarie, necessarie per interpretare i processi (nell’esempio: salvare lo zarismo con una politica spietata e cinica di “divide et impera”); si elenca troppo e si ragiona poco, insomma. Un altro breve esempio. Guerra dei Trent’anni, 1618-1648? Battaglie, date, quasi nessuna considerazione della complessità dei contesti e, alla fine, quattro frasette sulla pace di Westfalia, nemmeno differenziata nei suoi due importantissimi trattati di Osnabrück e Münster, tra belle immagini colorate di mezza pagina. Finito. Le dimensioni della spiegazione si sono ormai talmente ridotte che, senza la tanto vituperata “lezione frontale”, per gli studenti è impossibile farsi un’idea decente di ciò che è veramente in gioco (e, quasi quasi, non basta più neanche quella). Insomma: un testo povero induce alla semplice memorizzazione, non offre possibilità nè di analisi nè di quel lavoro di riflessione che consiste, invece, nel comprendere, leggendo una descrizione più articolata e ragionata, la complessità delle situazioni. Una trattazione miseramente semplificata, monodimensionale, annoia, allontana e demotiva lo studente, lo standardizza anche linguisticamente (molti studenti di oggi non sanno trovare due o tre sinonimi, se mai conoscono il termine di base proposto). La banalizzazione dei luoghi comuni da “manuale” priva lo studente del senso del suo lavoro, un senso che dovrà allora venire pazientemente ricostruito da un insegnante (ma ne sarà all’altezza il trentenne di oggi?). Inoltre il tempo in classe è tiranno e bisognerebbe integrare con un misto sapiente di analisi, narrazione affabulatoria, aneddotica, rigore scientifico, riferimenti a qualche documento, e anche considerazioni interdisciplinari, riferimenti al presente e, soprattutto, riconduzione dei processi storici ai modelli interpretativi della Sociologia e dei suoi grandi classici (Weber, Marx, Simmel, Durkheim, i grandi concetti dell’instrumentario della Sociologia, come l’Etica Protestante e lo Spirito del Capitalismo, i processi di reificazione sociale e linguistica di Berger e Luckmann, la teoria delle élites di Mosca e Pareto e molto altro). Chi ce la fa con testi così? I manuali della nostra gioventù, quella degli anni Settanta e Ottanta, erano più tascabili, tranne alcune eccezioni, come il monumentale Desideri; pesavano al massimo 800 grammi o un chilo, erano stampati su carta ruvida e leggera, dove la matita ben appuntita scorreva felice. Erano quasi senza immagini (men che meno a colori) e, se c’erano, erano tutte riunite in una sezione centrale del libro, ricordate? Quei testi erano spesso firmati da grandi autori di navigata esperienza nella saggistica scientifica. Non contenevano nessuno, dico nessuno, strumento aggiuntivo o alternativo: il testo era quello ed andava decifrato, scavato, analizzato e compreso nei suoi riferimenti. Era un testo lungo, discorsivo, piacevole alla lettura, ricco di riferimenti temporali, di nomi precisi e completi, di luoghi spesso ritrovabili sulle cartine in bianco e nero a fianco della pagina e si faceva fatica, ma alla fine si otteneva un quadro. Su quei testi si imparava a scrivere e, soprattutto, a leggere la saggistica storica: si imparava a pensare. L’obiettivo era riflettere sulle cause, sulle ragioni, sull’esistenza di diverse angolazioni e situazioni di partenza: prima di arrivare alla battaglia della Montagna Bianca del 1620, che apriva la guerra dei Trent’anni, per esempio, si passava dalla situazione politica della Boemia, dalla insoddisfazione delle minoranze calviniste per la trascuratezza delle soluzioni del trattato della pace di Augusta del 1555, dalla personalità di imperatori tedeschi e cattolici, che a Praga non avevano compreso fino all’ultimo momento che cosa era in gioco, dal momento che la Boemia aveva un passato protestante, hussita, portato con orgoglio, sia dalla borghesia affarista che dall’aristocrazia nobiliare. Insomma, prima degli eventi (e dopo) si parlava di situazioni, di intrecci di cause, di alternative problematiche, da interpretare: la Storia emergeva in tutta la sua complessità, e noi studenti avevamo l’impressione che l’ultima parola non fosse ancora stata detta. Nessuna mappa, nessuna scheda poteva servire per questo tipo di lavoro, un lavoro non da ultimo giorno, ma frutto di un contatto reiterato con la materia: la scheda te la facevi tu, a mente o su un pezzo di carta. Ed era la tua, solo la tua, perché frutto del complesso e costante lavoro di ricostruzione. In questo modo, oggi, si dovrebbe affrontare la storia dell’Ucraina, senza accontentarsi di miserabili slogan. La comprensione della complessità richiede un lungo e paziente lavoro ermeneutico, che l’analfabeta funzionale non può eseguire. Oggi, poi, i libri giacciono sugli scaffali delle aule, perché, di norma, gli studenti li ritirano poco prima della verifica, per appiccicarsi due nozionicine e prendere sette da docenti spesso “stipendisti” o “per caso”. Il lavoro della nostra generazione era duro, perché doveva contenere una discreta conoscenza degli eventi ma soprattutto una sufficiente comprensione delle dinamiche politiche, economiche, sociali: il tutto, e questo è il punto, declinato alla luce dei grandi classici della Sociologia. Imprescindibile era, infatti, fin dall’inizio del Triennio, la conoscenza dei capisaldi marxiani del materialismo storico: ideologia, falsa coscienza, sotto- e sovrastruttura. Senza familiarità con questi “attrezzi del mestiere” nulla poteva essere compreso adeguatamente dallo studente. I testi di oggi recano spesso motivazioni superficiali e standardizzate per gli eventi: quasi sempre i motivi delle crisi economiche, dalla Francia di Luigi XIV, ai debiti per spese di guerra dei governi usciti dalla Prima guerra mondiale, alla epocale crisi economica della Repubblica di Weimar dal 1919 al 1923, vengono banalizzati dal ricorso allo pseudoconcetto di “inflazione da eccessiva stampa di cartamoneta” (…e l’equazione degli scambi di Fisher, che spiega quando si genera inflazione? La conoscono gli storici?). Oppure si definisce il debito pubblico come quello accumulato dallo Stato per soddisfare il proprio fabbisogno di finanze (ma non erano, quelli, Stati a sovranità monetaria, e quindi a capacità di regolazione della circolazione? E poi, il debito dello Stato, non è forse il credito dei cittadini che ne acquistano i titoli? Ah, è vero…c’erano i debiti con i Rotschild di Parigi e Londra, che arrovellavano Cavour…ma quelli non sono nomi che compaiono sui testi). Come dice Pietro Ratto, nei suoi apprezzati video commenti online sul tema, oggi molti manuali di Storia per i Licei non sono tanto il frutto di nuova ricerca: sono piuttosto i cloni di manuali precedenti, che passano in eredità ai successivi gli stessi errori, le stesse formulette, gli stessi svarioni: fino al punto da non sapere più da dove provengano certe “dicerie” che finiscono poi per passare come verità assodate. E allora torniamo alla domanda di inizio. A chi serve una Storia senza Sociologia, senza Economia? Serve alla perdita di memoria, di riferimenti e di orientamenti del nostro vivere insieme, per la creazione in laboratorio di un individuo transumano, senza passato e senza futuro. Serve, soprattutto, ai potentati economici, tanto della “Pandemia” quanto della nuova “guerra di liberazione dell’Ucraina”, che hanno in mano le decisioni sull’istruzione, sulle Università, sull’informazione, sulla circolazione monetaria, sui mezzi per comprendere e, non ultimo, sul tempo: una risorsa dal valore inestimabile, che ci viene quotidianamente rubata, perché permette di affrancarsi dal lavoro come unica “occupazione” e di volgere lo sguardo alla propria esistenza, alla propria storia e a quella del mondo, per capire quanto chi ci ha preceduto ha sofferto per darci ciò che abbiamo dato per scontato e che rischia di andare perduto. E allora, forse, il manuale di Storia, se avessimo “tempo”, dovremmo farcelo da soli.
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