di Claudio Vitagliano
Alla fine degli anni 70 del secolo scorso, un’orda barbarica portò lo scompiglio nel mondo
dell’arte contemporanea, distruggendo l’ordine che venne a costituirsi dagli anni 60 in poi
grazie all’adesione di gran parte degli artisti alle ultime tendenze precedenti; soprattutto alla
minimal art, all’arte povera e a quella concettuale.
Questo nuovo movimento, la transavanguardia, (dal neologismo coniato dal suo inventore,
Achille Bonito Oliva e apparso in un saggio del 1979 su Flash Art), la prima del post
modernismo, vide capovolgersi radicalmente l’approccio dell’artista nel pensare e realizzare
le opere e di riflesso quello dello spettatore nell’atto della fruizione.
In generale, nel mondo, venne a presentarsi un elemento nuovo, che minò alla base il
modernismo, e cioè il dubbio che la ricerca continua in tutti i settori, portasse sempre a
migliori risultati, riverberandosi positivamente sulla vita delle persone, e che questo
specularmente avvenisse anche per l’arte e la cultura.
Le categorie di pensiero che avevano sostenuto l’arte concettuale nel suo complesso,
svanirono come neve al sole per lasciare il campo ad un nuovo modo di porsi di fronte
all’esistenza, più problematico perché privo di positività e cieca fiducia nel progresso, ma
anche più aperto alle sollecitazioni della realtà. La caratteristica fondamentale del
movimento era una totale mancanza di coesione del linguaggio, a cui faceva da contraltare
però una filosofia comune che era quella di cogliere il particolare antropologico dell’ambiente circostante.
Pertanto, la possibilità di poter operare senza dover fare riferimento a codici prestabiliti e da
tutti condivisi, regalò a questo manipolo di anarchici delle arti visive una libertà negata ai loro
predecessori per molti lustri.
Francesco Clemente
Di conseguenza, la ricerca rigorosa e per lo più ossessivamente rivolta alla scoperta del
nuovo, che per anni aveva avuto una parte fondamentale nell’espletamento dell’azione
artistica, fino ad assumere una connotazione di vero e proprio dogma, perse la sua valenza
positiva, anzi, perse semplicemente senso.
Fondamentalmente la pittura della transavanguardia puntava, non al sovvertimento e
conseguente azzeramento delle esperienze passate, ma ad una loro riproposizione
scompigliata, ricorrendo ad una sorta di citazionismo perpetuo.
Insomma, ciò che Bonito Oliva aveva definito il Darwinismo linguistico, perdeva la sua forza
propulsiva.
Il lavoro degli artisti tornava ad essere un’esperienza che contemplava il ricorso alla
manualità, ricollegandosi al grande passato dell’arte Italiana del rinascimento che coniugava
destrezza e genio creativo.
I transavanguardisti tornarono all’armamentario tradizionale, tirando fuori dal solaio in cui
erano confinati, i pennelli, i colori e tutti i mezzi consoni alla pittura, accantonati da decenni
di arte in cui primeggiavano invece più la progettazione e la profusione di pensiero che il
prodotto finale.
L’estetica e il bello riacquistarono nel metro di giudizio finale dell’osservatore, un ruolo che
negli anni precedenti era completamente scomparso.
Gli artisti persero quell’alone di ascetismo in cui l’immaginario collettivo li aveva relegati,
soprattutto a causa del fare intellettualistico a cui erano per forza di cose assoggettati e
riacquistarono i tratti distintivi dell’artista che privilegia la soggettività e quindi
l’individualismo.
Gli artisti di cui parliamo sono: Sandro Chia, Francesco Clemente, Nicola De Maria, Enzo
Cucchi e Mimmo Paladino. Essi ebbero subito un successo planetario strepitoso.
Per cui accadde, che negli Stati Uniti, che in quegli anni rappresentavano il mercato
dominante e quello che più degli altri decideva la sorte degli artisti di tutto il mondo, un
movimento nato in Europa venne a trovarsi al centro dell’attenzione di tutto il sistema
dell’arte contemporanea degli States e di conseguenza anche degli altri continenti.
Per la prima volta dalle avanguardie di inizio 900, artisti Europei fecero da innesco per
l’arte del continente americano che da lì a pochissimo esplose in una nuova forma, una
figurazione selvaggia e senza etichette, ad opera soprattutto di Basquiat, Haring e
Schnabel.
Ma volendo indagare ora, e quindi a posteriori, più a fondo sulle motivazioni che decretarono
il successo travolgente della transavanguardia, non possiamo esimerci dal fare qualche
considerazione.
Tra i fattori da tenere presente ce ne sono alcuni che esulano dalla sola sfera artistica di
quegli anni e che sono riconducibili a fenomeni coevi di ordine sociologico e politico.
Se pensiamo ad esempio all’enorme influenza che l’ideologia politica ebbe sulle masse
dagli anni 60 fino all’era post moderna, con tutto il corollario di pratiche comportamentali
assunte in modo acritico con il solo fine di rispondere a logiche di appartenenza , e che
possiamo con il senno di poi tranquillamente definire opprimenti, si capisce che il
sopraggiungere del “rompete i ranghi” fu una vera e propria liberazione.
Ma anche la ripetizione ossessiva, sotto l’aspetto puramente formale, delle proposte degli
anni precedenti, poteva aver indotto in una grossa parte del popolo dei fruitori una
stanchezza tale da rigettare in blocco tutta l’arte delle neo avanguardie.
Ecco quindi che il ritorno alla pittura, all’esercizio della fantasia, ai colori accesi, alla
bellezza cercata deliberatamente senza sensi di colpa, dopo anni di arte cerebrale che
trovava il suo senso nel ragionamento, potevano essere apparsi nel 1980 come un ritorno
alla vita.
E se anche da più parti si è tentato un’opera di banalizzazione della transavanguardia,
stabilendo in modo arbitrario e affrettato un parallelo tra essa e il sorgente iper consumismo
improntato all’edonismo esasperato privo di valori “alti” che andava allora affermandosi in
tutto l’occidente, possiamo ribattere a questo con un argomento più che convincente.
Infatti i continui riferimenti ai localismi culturali disseminati qua e là nell’opera dei
transavanguardisti non possono sicuramente essere letti oggi come allora, un
incoraggiamento alla propaganda martellante dei media nell’opera di diffusione dei modelli
di consumo.
Anzi, come non vedere nella loro opera, e soprattutto in quella di Mimmo Paladino una sorta
di forza ancestrale che si para a difesa della nostra costituzione umana contro la deriva di
un consumismo ossessivo che travolge e annichilisce ogni cosa?
Non ci troviamo più di fronte alla ricerca della soluzione definitiva del nostro mistero umano
come era stato tentato di fare negli anni precedenti ad opera delle neo avanguardie, ma
piuttosto al racconto dell’uomo che nella sua individualità è in perenne lotta con il destino.
Per tale motivo, nelle opere della transavanguardia si ha continuamente l’impressione di
trovarsi di fronte alla caducità delle cose e di un effimero cristallizzato all’infinito.
Ma non è forse questa la condizione della nostra storia contemporanea?
Ed è lecito ritenere come ha fatto qualcuno che un movimento che ci restituisce così
lucidamente il riflesso di un’epoca, anche in maniera critica, possa essere reazionario
politicamente parlando?
In definitiva, la transavanguardia si è proposta da subito come un movimento che dissemina
domande piuttosto che sforzarsi di fornire risposte, e questo nell’epoca del globalismo
nascente poteva suscitare sì un enorme interesse ma sicuramente non altrettanta simpatia.
Forse, proprio perché il movimento atterrò come un meteorite nel mezzo dell’arte
contemporanea, portando il caos in un mondo che era organizzato e ordinato in base a
schemi vecchi di 20 anni, causando quindi disagio a qualcuno, oppure perché il successo
commerciale che accompagnò la sua ascesa, decretò contemporaneamente il
deprezzamento di buona parte delle opere generate dai filoni precedenti, che una coltre di
silenzio è piano piano calato su di esso. Infatti, nell’accingerci a scrivere queste righe,
anzi, prima di farlo, quindi nella fase di documentazione, ci siamo resi conto che a
differenza di quello che accade per altri movimenti, sulla transavanguardia negli ultimi anni (
tolta la mostra a Palazzo Reale di Milano nel 2011 e altri eventi collegati ), non ci sono
state altre riproposizioni, non è stato scritto quasi nulla, ne girati video o
documentari…insomma, zero o giù di lì.
Probabilmente non conosceremo mai il motivo di questo oblio, ma per molti di noi, la
transavanguardia resta una stagione dell’arte da tenere sempre presente.
Commenta per primo