di Francesco Veronese
In via del tutto eccezionale siamo riusciti a ottenere dagli altri coautori l’autorizzazione a pubblicare una sintesi del libro che sarà consegnato alla stampa il mese prossimo: “Il MOSE: Un disastro senza fine?”
Il libro è patrocinato da Italia Nostra e sarà proposto in vendita in tutte le sue sedi italiane. Anche la nostra rivista Sovranità Popolare ha fornito un’importante collaborazione. Il nostro giornalista Francesco Veronese ha svolto il difficile compito di tradurre in un linguaggio comprensibile a tutti le valutazioni e le spiegazioni dei due ingegneri, mettendo il libro anche alla portata di coloro che non dispongono delle cognizioni ingegneristiche per comprendere, dal punto di vista tecnico e scientifico, il “Sistema Mose”.
Vincenzo Di Tella e Paolo Vielmo sono ingegneri molto conosciuti anche all’estero, dato che hanno trascorso la loro intera vita lavorativa nell’ingegneria marina e offshore con progetti importanti in molti paesi e sono stati anche membri della commissione di esperti, costituita da Massimo Cacciari, quando era sindaco di Venezia, per progettare un’alternativa al Mose.
Non è possibile chiudere l’ultima pagina di questo libro senza rimanere sbalorditi e un po’ disorientati.
La chiarezza delle argomentazioni portate dagli ingg. Di Tella e Vielmo non sembra lasciarci scampo: possibile che si sia di fronte ad un piano così bene architettato, sul profilo legale e mediatico, da essere passato sostanzialmente indisturbato attraverso la cosiddetta “tangentopoli veneziana” del 2014?
Infatti il “sistema” Mose è proseguito imperterrito anche dopo, divorando miliardi su miliardi e pare che non se ne veda la fine.
Rivediamo, in sintesi, i punti salienti dei temi trattati dai nostri autori, su cui non possiamo fare altro che chiedere spiegazioni ai responsabili del progetto, della sua realizzazione e a chi ha approvate, proponendo un pubblico dibattito aperto a tutti. È giusto che i cittadini sappiano e possano farsene un’idea direttamente.
- Adozione della “Concessione Unica”.
Siamo nel 1980 Presidente del consiglio dei Ministri è Bettino Craxi. Da allora sono trascorsi quarant’anni: il ministro dei lavori pubblici Nicolazzi adottò la procedura della “Concessione Unica”, senza gara d’appalto, per affidare al consorzio di ditte private (Consorzio Venezia Nuova), il progetto e la realizzazione delle opere a salvaguardia di Venezia dalle acque alte. Scelse la procedura della “Concessione Unica” perché, così si disse, avrebbe evitato le lungaggini delle gare d’appalto: bisognava mettere al sicuro “al più presto”, senza inutili perdite di tempo, l’inestimabile patrimonio storico e archeologico di Venezia. Solo ora abbiamo capito che questo “al più presto” aveva il significato di “quarant’anni”, ma ce ne siamo resi conto solo troppo tardi.
Appare invece chiaro, dalle argomentazioni degli autori e nei fatti, che la “Concessione Unica” sia servita alle aziende, partecipanti al consorzio, per prediligere le specifiche competenze “in house”, concentrate prevalentemente nell’ingegneria civile, e prive di adeguate esperienze nel settore marino e offshore.
Vale a dire che ha consapevolmente impedito di mettere a confronto, con le gare d’appalto, le eccellenze nazionali e internazionali nei settori chiave dell’ingegneria marina e offshore, sicuramente le più adeguate per risolvere efficacemente il problema delle maree di Venezia.
- Mancato rispetto delle “Leggi speciali per Venezia”.
Ne abbiamo già parlato nel n° 5 di questa rivista, rivediamone i sommi capi.
Dopo la grave alluvione del 1966, furono emanate le Leggi Speciali per Venezia, con lo scopo di salvaguardare la città e la sua laguna dai danni delle acque alte. La realizzazione di queste opere sarebbe dovuta avvenire in modo “graduale, sperimentale e reversibile”.
Si sarebbe dovuto cioè procedere per gradi, ciascuno verificato con prove ed esperienze adeguate, che ne avessero confermato la validità e la convenienza, prima di passare a quello successivo.
Nel caso fossero insorti problemi, tali da rendere svantaggiosa, rischiosa o dubbia la sua prosecuzione, si sarebbe dovuto poter tornare indietro, riportando le bocche di porto allo stato iniziale.
Gli autori spiegano invece come i tre requisiti fondamentali siano stati disattesi in modo clamoroso e impudente: il sistema Mose è fisso e inamovibile e non è praticamente reversibile. Del resto questa condizione era già implicitamente espressa dalle stesse premesse di progetto adottate sino dall’inizio dal Consorzio ed approvate dal Magistrato alle Acque.
- È stato manipolato il concetto di “Sperimentalità”.
Gli autori spiegano come il concetto di sperimentalità, previsto dalle Leggi Speciali per Venezia, risulti opportunamente aggiustato allo scopo di rendere la costruzione totale del sistema Mose un unico globale esperimento, testabile solo alla fine, dopo completati i lavori.
Così non potranno essere addebitate responsabilità ai progettisti e ai costruttori. Con ciò si è dimenticata del tutto la gradualità che avrebbe imposto invece di verificare l’idoneità al progetto dopo ogni sua singola fase di avanzamento, condizionando il passaggio a quella successiva alla validazione di quella precedente.
- Per verificare il funzionamento del Mose si è deciso di attendere che le condizioni meteomarine estreme si realizzino concretamente.
Da quando le paratoie sono in funzione, le condizioni meteomarine estreme, per le quali è stato costruito il Mose, non si sono ancora verificate e non si sa quando si potranno verificare, dato che il meteo non è prevedibile fino a questo punto.
Nel frattempo sulla grande opera grava il punto interrogativo: “funzionerà in quelle condizioni così difficili?”
Il fatto di non aver predisposto i modelli matematici, sperimentali e statistici più idonei a testare preventivamente la funzionalità dell’opera nelle condizioni estreme, ha indotto il Consorzio ad attribuire il carattere sperimentale alla totalità dell’opera.
Ci chiediamo se tutto questo non fosse stato imposto dalla maturazione di una sostanziale insicurezza sulla capacità del Mose a risolvere il problema di Venezia.
- Si è applicata, per la costruzione del Mose, la tecnologia “dry”, ormai superata da parecchi decenni.
Questa tecnologia, ormai abbandonata nelle opere marine offshore da tempo, porta in profondità gli impianti e l’opera dell’uomo, per l’installazione, la rimozione delle paratoie e della loro manutenzione. Questo provoca costi elevatissimi e problemi di sicurezza per le persone. Nella foto seguente riportiamo un’immagine della galleria che scorre sotto la fila di paratoie, all’interno della quale gli operatori devono manovrare il loro innalzamento e abbassamento.
La tecnologia “wet” sarebbe stata molto meno costosa, molto più efficiente e avrebbe consentito agli operatori di lavorare in superficie, in piena sicurezza.
- Svariati milioni di euro saranno spesi ancora solo per sollevare ed abbassare le paratoie.
Le procedure sono complesse e, per ora, richiedono sempre la presenza, degli operatori specializzati che azionino manualmente i comandi delle paratoie nei tunnel sottomarini. Un sistema automatico computerizzato che possa sostituire la presenza dell’uomo è previsto solo fra due anni, dopo continui rinvii che ne fanno supporre la difficoltà di realizzazione.
In ogni caso la scelta di estendere all’intera apertura delle bocche di porto l’impianto delle paratoie mobili, ha contribuito molto ad innalzare i costi di manovra e di manutenzione del Mose.
- Perché le paratoie hanno dovuto per forza essere 78?
A San Pietroburgo la parte mobile della diga di sbarramento che trattiene le maree è limitata ad una piccola porzione della bocca di porto, il resto è sbarrato da una diga fissa in cemento e frangiflutti che completa la chiusura in modo stabile e persistente.
Adottando la soluzione di San Pietroburgo, si avrebbe avuto il vantaggio di ridurre enormemente i costi di costruzione e di manutenzione della parte mobile, lasciando alla parte fissa l’onere maggiore di contenere il flusso delle maree, soprattutto nelle peggiori condizioni meteomarine.
La larghezza della parte mobile, più costosa e molto più complessa, poteva essere limitata solamente a quanto sarebbe bastato per garantire il transito navale ed il ricambio idrico nella laguna.
La diga fissa trasversale, che avrebbe potuto contenere solo per un certo tratto la parte mobile, sarebbe stata, dal punto di vista dell’impatto paesaggistico, poca cosa confronto l’Isola Nuova, le lunate, i lavori di spalla e quelli dei servizi alle bocche costruiti ex novo in prossimità delle file di paratoie.
Gli autori hanno descritto inoltre come le paratoie mobili, progettate e costruite dal Consorzio, siano la parte più debole del sistema Mose, quella che ha dato i problemi maggiori, per i quali si sono adottate soluzioni complesse, costose e che fanno presagire i maggiori costi di manutenzione. Sarebbe quindi stato più avveduto ridurre al minimo indispensabile la sua estensione.
- I progettisti e i costruttori hanno dichiaratamente trascurato il gravissimo rischio della risonanza sub-armonica delle paratoie.
Gli autori ritengono concreta e molto pericolosa l’incombenza di questo rischio, accertato dalle prove su vasca fatte a Delft (si veda meglio nella seconda parte del libro al n° [4]). I danni conseguenti potrebbero essere gravissimi.
- Autorevoli esperti sostengono che le condizioni ambientali peggioreranno nei prossimi decenni.
Il livello medio del mare si innalzerà, di conseguenza aumenterà la frequenza dell’innalzamento delle paratoie, tanto da diventare necessario anche per maree normali. Questo fenomeno renderà sempre meno agevole il ricambio dell’acqua nella laguna a scapito della sua vitalità.
Ai tempi della Concessione Unica, l’innalzamento del livello medio del mare era stato previsto di 22 cm, ora più realisticamente portato ad almeno 80/120 cm. Ne segue che le paratoie dovranno essere sollevate sempre più frequentemente con il passare del tempo, fino a rischiare di rimanere stabilmente innalzate, con le conseguenze sulla laguna che possiamo immaginare.
- È in corso ormai da tempo un vero conflitto tra le esigenze della salvaguardia della città dagli allagamenti delle acque alte e quelle del traffico portuale.
Tra le opere di spalla e di servizio del Mose erano previste conche di navigazione a Malamocco e a Chioggia che avrebbero consentito il transito del traffico anche con le paratoie alzate. Poco dopo la sua costruzione, l’ingresso della conca di Malamocco è stata danneggiato e non più riparato, e quella di Chioggia non è ancora messa in esercizio, pertanto il traffico nautico è bloccato durante l’azionamento delle barriere. Fra l’altro la conca di
Malamocco risulterebbe di dimensioni troppo piccole per le grandi navi e dovrebbe pertanto essere ampliata.
- La corruzione emersa nella “tangentopoli veneziana” del 2014, appare insignificante rispetto allo spreco di denaro pubblico provocato dalle scelte progettuali, fatalmente rimaste poi sempre fuori da ogni adeguato giudizio.
Come si fa a non dare a questo aspetto l’importanza che avrebbe meritato?
Non è stato indagato.
Infatti la Magistratura non ha approfittato degli scandali del 2014 per imporre una verifica/revisione dell’opera. Di certo non ci si è preoccupati di controllare se le scelte progettuali fatte dal Consorzio e avallate dai controllori corrotti, accertate dalle sentenze, avessero avuto lo scopo di gonfiare il più possibile le spese nel loro interesse, trascurando quello precipuo dei cittadini.
Le scelte progettuali, che sono le maggiori responsabili dell’attuale situazione del Mose, sono rimaste le stesse anche dopo le sentenze. Tutto poi è proceduto come prima, con la stessa impronta, senza che si siano individuati i veri responsabili a tutti i livelli: i cittadini hanno tutto il diritto di sapere.
- Il meccanismo politico-istituzionale che ha prodotto il sistema Mose, ha privato Venezia, per quasi quarant’anni, di una protezione indispensabile per la salvezza del suo patrimonio e della sua economia, in attesa di una fideistica conclusione incerta e con costi astronomici.
Nel frattempo i danni alla città si sono moltiplicati e aggravati per lungo tempo.
Sarebbe giusto esporre i veri responsabili al giudizio dei cittadini che pagano le tasse.
Ci sembra che le argomentazioni, esposte con molta chiarezza e indubbia competenza dai nostri autori, se validate da una commissione ufficiale, indipendente e di indiscussa competenza, ci potrebbero indurre ad una doverosa indignazione che ci porti all’adozione di controlli sistematici e regolamentati, adeguati all’importanza e al costo dell’opera. È chiaro che sarebbero necessari validi correttivi nel nostro sistema politico-istituzionale, affinché non si possano più ripetere situazioni senza fine come quella del Mose, paventata in questo libro.
D’altronde “sappiamo che queste cose succedono”, potrebbe osservare il solito uomo di mondo, scafato, esperto di politica, furbo, smaliziato e che la sa lunga. Questo però non ci sembra un buon motivo per lasciare che queste cose possano ripetersi all’infinito impunemente: finirebbero per incoraggiare eventuali comitati di affari che potrebbero approfittare del carattere di pubblica utilità di una grande opera, come pretesto, per coprire la loro occasione di depredare lo Stato e i suoi cittadini.
Pare che tutto questo sia frutto di una millenaria tradizione radicata nella democrazia sin dai tempi di Platone, il grande filosofo che la denunciava a gran voce.
Abbiamo riportato, all’inizio del libro, una pagina del capitolo ottavo de La Repubblica, scritto circa 2500 anni fa, che sembrerebbe indicare i pericoli insiti nella democrazia, che purtroppo riconosciamo sopravvissuti fino ad oggi, nella nostra quotidianità. Quella democrazia dei tempi di Platone produsse la deriva autoritaria che generò il governo dei Trenta Tiranni.
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