di Mao Valpiana
Cari Gad Lerner, Luigi Manconi, Adriano Sofri, Emma Bonino,
arrivo subito al punto che oggi ci divide: “armi sì / armi no” dall’UE all’Ucraina.
Scrivo a voi perché, a differenza di gran parte degli opinionisti italiani che sbeffeggiano il pacifismo facendone una caricatura, so che ne avete considerazione, per amicizia e sensibilità comuni, e perché avete motivato la vostra scelta anche in riferimento a Gandhi che, davanti ad un sopruso, tra ignavia e violenza dice chè preferibile quest’ultima. Ma il Mahatma sceglie la terza via, quella della nonviolenza del forte. In gioco ci sono princìpi e pratica, fini e mezzi, filosofia e politica.
Questo tipo di pacifismo nonviolento ha due esigenze: etica ed efficacia.
Partiamo dall’efficacia.
Non sappiamo quali armi “letali” vengano inviate, perché coperte dal segreto militare. Sappiamo però quanto costano (fino ad oggi un miliardo di euro), già pagato all’industria bellica con fondi anticipati dalla “transizione ecologica” (il fondo italiano di 100 milioni prelevato dalla “cooperazione”), dunque è una riconversione dal civile al militare. Queste armi arriveranno all’esercito regolare ucraino, o saranno intercettate dalle milizie paramilitari di “difesa territoriale” che stanno crescendo, anche con mercenari in arrivo dall’estero? Non ci sono bastate le lezioni della Libia e dell’Afghanistan dove le armi occidentali sono finite in mano alle bande rivali o ai talebani, con le conseguenze che sappiamo? E siamo sicuri che queste armi potranno fare la differenza sul piano della capacità militare, della potenza di fuoco, o non bisognerà alzare continuamente il tiro, nella logica militare che vince chi ha armi più letali, fino alle estreme conseguenze? (partendo dall’arruolamento dei bambini soldato, fino alla minaccia anche da parte occidentale delle armi tattiche nucleari?).
Infatti, questo è il punto che rende la guerra di oggi diversa da tutte le altre: la minaccia nucleare.
È la situazione che ha configurato, all’indomani della crisi dei missili di Cuba, papa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris: “In un tempo come il nostro, che si gloria della potenza atomica, è alieno ad ogni ragione che la guerra possa essere utilizzata come strumento per ripristinare diritti violati”. Anche molti osservatori militari sostengono che l’invio di nuove armi aumenta il pericolo di escalation incontrollata e rinvia ulteriormente la possibilità di successo delle trattative.
E veniamo all’etica.
I Costituenti intesero mettere al bando (ripudiare) l’intervento armato (la guerra) come mezzo per risolvere le controversie internazionali anche quando la controversia ha assunto il carattere del conflitto armato. La nostra Costituzione non nega il “diritto naturale di autotutela individuale o collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite” sancito nella Carta delle Nazioni Unite, ma ribadisce quanto la medesima Carta dell’Onu impone: “I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo”.
È in questo contesto che va considerato il problema dell’invio di armi ad una nazione che subisce un’aggressione armata. Condannare l’aggressione e sostenere le giuste ragioni di quella nazione non significa automaticamente che si debba intervenire militarmente in quel contesto. Se così fosse, si dovrebbe fornire armi a tutti i popoli che lottano per la propria sovranità, come i palestinesi i cui territori sono illegalmente occupati da decenni da Israele. Non viene fatto perché inviare armi configura sempre una situazione di belligeranza.
Zelenskyj ha deciso di intraprendere la via della difesa armata: “meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. Noi diciamo che va cercata la terza via: “vivere in piedi”.
Tutto questo impone certamente di aiutare chi sta resistendo, ma con quale difesa?
Vanno ascoltate anche altre voci che ci arrivano proprio da Kiev. Come quella di Yurii Sheliazhenko, referente nazionale del Movimento pacifista ucraino che sull’invio delle armi ci ha detto: «Follia! È alimentare l’escalation e lo spargimento di sangue. I media internazionali sono manipolati dalla macchina da guerra. C’è bisogno di pressione internazionale per il cessate il fuoco e per arrivare a una vera negoziazione».
È urgente anche sostenere, finanziare, rafforzare il crescente movimento degli obiettori di coscienza russi, e delle mamme dei soldati che si oppongono al richiamo dei ragazzi di leva, per indebolire Putin sul fronte interno.
Bisogna mettere in atto tutti gli strumenti nonviolenti per giungere al più presto al “Cessate il fuoco” – che è bilaterale e non è la resa di una parte – e promuovere il vero negoziato (per cui sta lavorando anche la Santa Sede). Le sanzioni commerciali nei confronti della Russia sono misure importanti, ma non sufficienti. Occorre il salto di qualità della ratio della lotta nonviolenta che è “fare per primi il primo passo”. In concreto ciò significa promuovere la de-escalation militare, iniziando a fare ora quello che andava fatto prima: ritirare le bombe nucleari presenti nel territorio europeo smantellando la “nuclear sharing”; richiamare i contingenti militari della NATO recentemente inviati nell’Est Europa, e indire una Conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite mettendo sul tavolo il compromesso della Ucraina neutrale.
Dalla caduta del muro di Berlino sosteniamo la trasformazione della Nato da alleanza militare, ad alleanza per la sicurezza e la cooperazione. Dal 1995 abbiamo avanzato proposte e progetti operativi per la costituzione della polizia internazionale (corpi civili di pace europei), con formazione professionale per operatori e mediatori di pace, che avrebbero potuto intervenire preventivamente nella crisi del Donbass, e che oggi potrebbe essere una vera forza di de-escalation e di intervento sul campo. Anziché aumentare ulteriormente i bilanci militari dei singoli stati, come deciso a Versaille, bisognerebbe utilizzare quei fondi per mettere le basi oggi della difesa europea di domani, costituendo la polizia internazionale che ancora manca.
Il disarmo unilaterale è una pia illusione? Non ho certezze, la nonviolenza ha tanti se e tanti ma.
So però che due antifascisti storici, che parteciparano alla Resistenza e al CNL, come Aldo Capitini e Carlo Cassola, giunsero a questa scelta politica e ne fecero la missione della propria vita e penso al pacifismo nonviolento del nostro comune amico Alex Langer (“Un movimento per la pace che fosse fatto principalmente di condanna di certe aggressioni militari, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto, non avrebbe grande credibilità. Sono convinto che oggi il settore ricerca e sviluppo della nonviolenza debba fare grandi passi in avanti”).
E so anche che quando Gorbaciov fece il primo passo di disarmo unilaterale si arrivò, per la prima volta nella storia, al Trattato del 1987 che ha smantellato 2700 missili nucleari russi e americani, mettendo fine alla guerra fredda. Forse è proprio questa la strada giusta.
Tra l’arruolarsi per la guerra o predicare la resa, c’è la terza via della nonviolenza attiva.
Movimento nonviolento
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