8 marzo festa delle donne di tutto il mondo

Intervista immaginaria con l’inimmaginabile

8 marzo

di Alida Parisi

Pausa pranzo; una corsetta al bar, giusto accanto al lavoro, per un pasto frugale, veloce come il tempo e simpatico come la compagnia di colleghe allegre e spensierate. All’angolo una ragazza, appoggiata alla veranda di un bar, occhi verdi, cappello, mascherina, che guarda dritto negli occhi le persone che passano. Al ritorno, lo strascico delle risate portate fuori dal locale rumoreggiano nella strada e girato l’angolo, in mezzo al fumo della mia sigaretta intravedo lo sguardo della ragazza, ancora ferma all’angolo. Il mio sguardo scivola sull’abbigliamento: gonna lunga, giaccone. Lasciando rientrare le altre, temporeggio un attimo al supermercato. In una delle corsie, avverto non lontana da me la sua presenza. Gli sguardi si incrociano di nuovo e il verde dei suoi occhi emerge con forza. Alla cassa è in fila dietro di me; al mio sacchetto di pane fanno seguito un suo pacco di pannolini per bambini con una pagnotta grande di pane, una vaschetta di mortadella e un sacchetto grande di patatine, non di marca. Guardo la sua spesa, mi rendo conto che è una povera e decido di pagarle la spesa, in attesa della quale, le dico di andare a prendere anche un pollo e dei biscotti. Tutto si svolge in silenzio, tra lo sguardo indifferente del cassiere e quello spazientito, se non alterato, degli altri clienti in fila.

Si esce insieme e, avendo a disposizione ancora una mezz’ora abbondante e, soprattutto, avendo assodato trattarsi di una povera, penso che offrirle una bevanda calda riscalderebbe un po’ di più quella giornata uggiosa e fredda, oltre che soddisferebbe la curiosità di una giornalista. Sedute al tavolo, continua a tenere su la mascherina, ringraziandomi di tutto e rifiutando qualsiasi bevanda. Sollecitata, dice di aver un po’ male alle labbra e che, se proprio deve, forse preferirebbe una bevanda fresca. Arrivato il vassoio, davanti al suo tè freddo, dopo un attimo di incertezza, abbassa la mascherina e, senza alzare i suoi meravigliosi occhi verdi, avvicina lentamente le labbra al bicchiere, lasciandole un tempo infinito adagiate sul bordo freddo del bicchiere. Resto ad osservarla senza un minimo di discrezione, impietrita di fronte a tanta purulenza e virulenza di vescicole bianco-rossastre piene di siero, o già croste, che rompono a tratti la delineazione delle sue labbra, deformate dalla tumefazione dei diversi focolai accesi dall’infezione. Ogni volta che allontana e riavvicina il bicchiere il dolore fuoriesce in tutta la sua pienezza con spasimi silenti attraverso profondi respiri e gli occhi socchiusi. Riconquistando una certa discrezione, chiedo se ha dei figli, pur sapendo già la risposta. Con le dita ne indica tre – non poteva essere altrimenti. Ipocritamente mi congratulo e aggiungo che anche io ne ho. Approfitto dell’accenno di una quasi normale conversazione per chiederle l’età. A tratti alza lo sguardo in modo sfuggente e risponde a monosillabi ciò che, giusto un attimo prima, in strada, proferiva con una sorta di cantilena, ripetuta no stop a tutti i passanti per strappare un minimo di elemosina. Ha diciassette anni, quasi diciotto. Quel numero, quell’età così giovane che, a seconda dell’appartenenza ad un’etnia, assume un significato piuttosto che un altro, detto da lei, in quella circostanza, esprime la condizione di un pezzo di carne buttato ai bordi di un marciapiede, un sacco di sporcizia buona per i cassonetti dell’immondizia, un corpo da usare, abusare, violare, perforare, abradere, spezzare, sporcare, vendere, comprare e rivendere per anni, pochi in verità, fino a quando le carni riescono a tenere il turgore della giovinezza. Di fronte al mio sguardo di pena, dalla sua bocca martoriata fuoriesce il racconto della sua vita, una storia breve, ancora una volta nulla di nuovo di fronte a quanto immaginato; dai dieci anni in poi, giocattolo dei maschi della comunità, senza limiti di età né possibilità di difesa o resistenza. Poi le gravidanze, a partire dai 15 anni, e subito il lavoro; tutti i giorni per strada a chiedere l’elemosina per la comunità, per i maschi del villaggio, per i suoi tre figli, per sé. Un mondo parallelo a quello del tavolino accanto al nostro dove una coppietta, tra baci, sorrisi e carezze, dopo aver consumato cioccolata calda e pasticcini si alza e va via, dimenticando, lei, la rosa offertale dal suo compagno per il loro S. Valentino. Entrambe focalizziamo lo sguardo sulla rosa abbandonata sul divanetto, assolutamente insignificante. Fosse stata un pezzo di pane sarebbe stata sicuramente un grande oggetto di desiderio.

 

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