di Paolo De Marchi
Già a settembre scorso i media annunciavano fortissimi rincaro delle bollette di gas e elettricità; in questi due primi mesi del 2022 tutte le utenze, industriali, commerciali, domestiche, li stanno subendo concretamente. Il Governo è più volte intervenuto con provvedimenti tampone (ristori) volti a calmierare i costi energetici per il sistema produttivo; molto meno se non per niente per quelli domestici. Una possibile riduzione delle diverse voci della bolletta recuperando la differenza, ad esempio, tassando i profitti dei gestori energetici, non è stata presa assolutamente in considerazione nonostante si sia in presenza di un impoverimento del reddito per larghi strati della popolazione, di un ulteriore allargamento delle fasce di reddito medio-basse, di un’estensione del numero di persone con lavori precari e intermittenti e di una popolazione lavorativa i cui salari, unico caso nella UE, sono diminuiti nell’ultimo decennio.
Nel denunciare gli effetti dell’attuale crisi energetica la maggior parte dei commentatori, opinionisti, analisti e politici vari, imputano i rincari del prezzo del gas alle fibrillazioni geopolitiche che hanno avrebbero come protagonista un dei principali fornitori di gas, cioè la Russia e, con molta meno enfasi, anche le conseguenti speculazioni determinatesi sul mercato energetico.
Per gli Stati dell’Unione e, i particolare, per l’Italia l’obiettivo principale da perseguire a fronte di questa improvvisa crisi sembra essere l’autosufficienza energetica; una autosufficienza da fonti fossili ovviamente. Nonostante tutti i governi della UE indicano concorsi nel perseguire una transizione ecologica verso fonti rinnovabili come panacea per salvare il pianeta (ma sarebbe opportuno dire “per salvare la specie umana nel Pianeta” perché questo, senza di noi, continuerà ad esistere comunque), il loro proposito è smentito dagli investimenti e e dalla ricerca ancora preponderantemente basati sull’estrazione di gas e petrolio e, persino, sullo sfruttamento del carbone. Investimenti, ricerca, sfruttamento degli impianti esistenti, a gas e a carbone rafforzati ora dall’emergenza di questa strana crisi energetica.
Il dibattito negli e tra gli esecutivi degli Stati dell’Unione sulla necessità di ridurre la dipendenza dal gas russo e di approntare una propria autosufficienza per una parte più rilevante del fabbisogno rispetto alla situazione attuale ha favorito, inoltre, il ritorno all’illusione del nucleare come alternativa alle fonti fossili più credibile delle fonti rinnovabili, quasi fosse dietro la porta la possibilità di sfruttare le nuove frontiere della ricerca sulla fusione per produrre energia e fosse risolto il nodo delle scorie nucleari, della loro collocazione e smaltimento, della sicurezza degli impianti. Questo edificante dibattito tra politici e “esperti”, oltre a descrivere come marginale e insufficiente l’apporto delle fonti energetiche rinnovabili al fabbisogno delle singole nazioni, imputa persino agli investimenti di questo settore, almeno nella discussione nazionale, costi che sarebbero con-causa rilevante dell’aumento delle bollette energetiche.
Michael E. Mann, climatologo di fama mondiale, definisce queste fake news come la nuova strategia negazionista dell’apparato industriale-finanziario-politico fossile che, non potendo più negare gli effetti evidenti del cambiamento climatico, si concentra nel ritardare più possibile la transizione a fonti alternative alle fossili, instillando dubbi e scetticismo sulla capacità delle rinnovabile e sostenibili di sostituire carbone e gas nel fabbisogno energetico delle nazioni.
La cortina fumogena mediatica dell’informazione sulle cause degli aumenti delle bollette energetiche più prosaicamente nasconde l’interesse del settore petrolifero e del gas a mantenere inalterata la propria predominanza, governando oligopolisticamente e speculativamente il mercato energetico. Il nocciolo della questione sta proprio qui!
Se non fosse così perché i più grandi gruppi bancari internazionali continuerebbero a investire persino sull’industria del carbone nonostante si parli tanto di decarbonizzazione? La fotografia in tal senso fornita dall’osservatorio messo in piedi dal 2017 dalla ong tedesca Urgewald, capofila di oltre 20 realtà della società civile, tra cui l’italiana ReCommon, fornisce una risposta chiara a questa domanda. L’osservatorio denuncia, infatti, i lauti profitti che i fondi di investimento più importanti stanno facendo sostenendo il settore carbonifero: nel 2021 gli investimenti finanziari in favore di questo settore sono stati oltre 1200 miliardi di dollari, in netto aumento rispetto ai 1000 miliardi del 2020. Fra i finanziatori e gli investitori ci sono anche le due più importanti banche italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit che, tra il 2020 e il 2021, hanno aumentato il loro sostegno all’industria del carbone, la prima quadruplicando il finanziamento, passato da 446 milioni a 2,1 miliardi di euro, la seconda passando da 1,36 a 1,71 miliardi di euro. Lo stesso dicasi per gli investimenti in questo comparto. Non vi è stato alcun disivestimento sul carbone: lo sottolinea Simone Ogno di ReCommon rilevando come il recente trend al ribasso delle principali banche italiane di investimento nei confronti del settore carbonifero era evidentemente dettato più dalla contingenza pandemica che da una volontà di favorire effettivamente la decarbonizzazione.
Che dire poi dei profitti dei grandi gruppi energetici come, ad esempio, ENI. Proprio il 18 febbraio scorso un articolo Ansa sottolineava come nel 2021 il ricavato Ebit (misura di risultato aziendale prima delle imposte e degli oneri finanziari) di ENI sia stato di +400%, con un utile pari a 4,7 miliardi, migliore performance dal 2012. Performance positiva che si allinea a quella di tutti i gruppi energetici e petroliferi, da BP a Shell e così via come ricorda Federico M Butera in un articolo nel Il Manifesto del 20 febbraio, riportando la compiaciuta conferma al Guardian dell’11 febbraio di Murray Auchincloss, direttore finanziario della compagnia petrolifera e del gas BP, di tale andamento positivo dei profitti.
Mentre le famiglie italiane sono alle prese con salassi dovuti ad un generale aumento dei prezzi e in particolare di quelli energetici – l’aumento inflazionistico dei prezzi secondo l’Istat peserà sui bilanci familiari 1.389 euro in più rispetto al 2021, arrivando per famiglie con due figli a 1.715 e con tre a 1.923 euro, ovviamente con un aggravio maggiormente sentito dai redditi medio-bassi che sono la maggioranza in Italia – probabilmente i grandi ricavi di questi gruppi energetici (ENI compresa) andranno a rimpolpare ulteriormente le tasche dei loro azionisti.
Basterebbe questo per capire che dietro la partita dell’aumento delle bollette ci sono interessi e profitti che non possono essere intaccati e che questa è probabilmente una partita truccata se è vero quanto dichiarato dal Presidente della Russia, Putin, durante l’incontro tenutosi recentemente in piena crisi ucraina con i responsabili delle grandi imprese italiane e riportato dal Il Sole24ore del 26 gennaio. Secondo quanto dichiarato da Putin, “le aziende energetiche italiane continuano a lavorare con Gazprom sulla base di contratti a lungo termine e oggi sono in grado di acquistare gas a prezzi inferiori, direi molto inferiori ai prezzi di mercato, i cosiddetto prezzi spot di mercato, che sono aumentati significativamente tra l’inverno freddo e le carenze di approvvigionamento”. Quindi ENI e le altre aziende energetiche Oil&Gas non starebbero pagando le forniture di gas a prezzi aumentati ma sulla base di contratti a lungo termine sottoscritti in periodo pre-crisi.
Possibile che Draghi, Franco, Cingolani e C. Ignorino tutto ciò? Tanto più che in ENI lo Stato, direttamente attraverso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e indirettamente, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, detiene il 30,3% delle azioni. Evidentemente no ma si guardano bene dall’informare in tal senso l’opinione pubblica e porre rimedio all’impennata dei prezzi e delle bollette energetiche partendo da questi evidenti speculazioni.
Anche ammettendo che l’improvvisa carenza di approvvigionamento determinata da un lato dalla supposta vigorosa ripresa produttiva post-pandemia e dall’altro dalle speculazioni geopolitiche scatenatesi a seguito dell’impennata della crisi ucraina, abbia costretto i fornitori energetici nazionali a integrare le forniture russe di gas con acquisti nel mercato libero e, quindi, a prezzi decisamente più alti (e soggetti, va ribadito, a ulteriori speculazioni – qualcuno ci guadagna sempre e comunque), la quantità di gas lì acquistata non incide a tal punto da triplicare e a volte quadruplicare il suo prezzo così come, invece, stiamo subendo. Sempre che la partita non sia truccata come invece lo è. Truccata perché figlia ancora una volta delle caratteristiche predatorie e speculative del sistema neoliberista che ad ogni crisi fa seguire politiche emergenziali utili a ripristinare livelli di comando, di controllo e a garantire ulteriori margini di profitto per chi, di volta in volta, si trova a impugnare il coltello dalla parte del manico, in questo caso le grandi imprese energetiche fossili e il sistema finanziario e bancario, come abbiamo visto, a loro sostegno.
E ogni emergenza consente di indirizzare provvedimenti e investimenti pubblici a sostegno del perpetuarsi di condizioni di vantaggio come in questo caso per i sostenitori della necessità di una lunga durata della transizione ecologica, improntata sulla permanenza della dipendenza dal gas e dalle fonti fossili più in generale.
Dopo aver favorito in tutti i modi consentiti ENI e gli altri gruppi industriali energetici nella stesura del Pnrr per quanto riguarda le misure relative alla transizione ecologica, il Governo, sostenuto dal consenso più o meno esplicito di tutti i partiti e dalla campagna mediatica dei maggiori gruppi editoriali mainstream che indicano fra le soluzioni di questa crisi la ricerca di una autosufficienza energetica fossile nazionale, apre alla prospezione e all’estrazione di gas nel Mediterraneo (soprattutto nell’Adriatico creando lo spauracchio della concorrenza croata sui giacimenti di gas nei suoi fondali); perpetua l’approvazione di sostegni e sussidi alle aziende del fossile mentre tassa i profitti dei produttori di energia rinnovabile; arriva persino a farsi capofila nei confronti della Commissione Europea per la definizione del gas come fonte energetica “verde” nella nuova tassonomia chiedendo l’innalzamento dei limiti di emissione di CO2 per le centrali a gas che il Pnrr prevede di installare; riesuma il nucleare nella versione della fusione come una soluzione concreta per uscire da questa crisi. Eolico, solare, fotovoltaico rimangono, invece, al palo, definite fonti energetiche pulite ma insufficienti alle necessità nazionali.
Non è un caso, infatti, che l’Italia abbia aderito durante il COP6 di Glasgow del novembre scorso al Boga – Beyon Oil and Gas Alliance – dei Paesi che si impegnano a porre fine a nuove concessioni di licenza di esplorazione e produzione di petrolio e gas non come associato, bensì con la formula ambigua di “amico” che gli consente di dichiararsi da un lato Stato impegnato nella transizione ecologica e dall’altro di continuare a favorire il settore industriale fossile nazionale. Solo poche settimane dopo il COP6 infatti il MiTE dichiarava come centrale il gas nel processo di decarbonizzazione al 2050. Persino il Pitesai – Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee per le esplorazioni e le coltivazioni del gas sul territorio italiano – presentato l’11 febbraio ha obiettivo raddoppiare la produzione di gas da 3,3 a 6,7 miliardi di metri cubi l’anno. Quantità per altro assolutamente insufficiente a rispondere alle impennate dei prezzi del gas ma sbandierata come una delle soluzioni urgenti da mettere in atto per fronteggiare questa emergenza. Al massimo, come scrive Livio De Santoli su l’Extraterrestre del 17 febbraio, questo raddoppio di produzione, sempre che fosse realizzato completamente, potrebbe alimentare massimo un terzo delle centrali termoelettriche esistenti ma con costi molto significativi e approvvigionamenti destinati, comunque, all’esaurimento.
Che a fine 2021 secondo dati Tesla vi siano state richieste di connessione alla rete di alta tensione di impianti rinnovabili per 200GW circa (150 GW per fotovoltaico e eolico), dato tre volte superiore al target da realizzare secondo le indicazioni europee da qui al 2030, la dice lunga sulla balzana affermazione dell’insufficiente capacità delle fonti rinnovabili di rispondere al fabbisogno energetico nazionale in misura sufficiente così come oggi vi rispondono prevalentemente le fonti fossili. Ma rendere evidente questo fatto, così come denunciare che non aver avviato per tempo processi di autoproduzione energetica a fianco dello sviluppo degli impianti energetici da fonti rinnovabili significherebbe per il Governo ammettere che il ritardo nella transizione a queste fonti lo stiamo pagando a caro prezzo di fronte alla attuale crisi speculativa energetica. Un costo che evidenzia lo stretto legame che esiste tra questione sociale e questione ambientale, tra rivendicazioni di salario, reddito, servizi e, più in generale, di welfare e lotte e rivendicazioni ambientali. La denuncia delle speculazioni e dei disegni di rafforzamento della presenza e dei profitti del settore industriale energetico fossile così come della complicità del Governo attraverso una transizione ecologica falsa perché basata sul rafforzamento del ruolo del gas diventa una azione fondamentale in ogni occasione possibile. Ma bisogna altresì approntare una risposta all’aumento dei prezzi delle bollette energetiche e più in generale dei prezzi organizzando forme di recupero del reddito – dallo strumento dell’autoriduzione delle bollette alla rivendicazioni di aumenti salariali e pensionistici anche attraverso meccanismi automatici conseguenti all’aumento del costo della vita per fare due esempi – che possono convivere e autoalimentarsi con lotte e rivendicazioni ambientali, per una prospettiva di vita migliore per tutti.
Note
1 Sono indicativi della tendenza del dibattito italiano sulle cause dell’aumento delle bollette energetiche alcuni articoli uscite nel giornale delle Confindustria già a settembre scorso, in particolare, quelli scritti da Jacopo Gilberti “Energia, ecco perché (e come) rincara la bolletta” in Il Sole 24ore del 14 settembre 2021 e “Stangata senza precedenti sulle bollette: +30% per il, +20% per l’elettricità” in Il Sole 24ore del 10 settembre 2021.
2 Michael E. Mann è un climatologo e geofisico statunitense, direttore dell’Earth System Scienze Center presso la Pennsylvania State University, professore emerito Scienze atmosferiche. In una intervista del 16 settembre scorso fattagli da Stella Levantesi per Il Manifesto ha appunto denunciato questo cambio di passo dell’apparato industriale-finanziario-politico del settore dello sfruttamento delle risorse fossili. Si veda Stella Levantesi “Contro gli inattivasti”, Il Manifesto, 16 settembre 2021
3 Luca Manes “I miliardi (1.200) che le banche danno al carbone” in “l’Extraterrestre” inserto settimanale del Il Manifesto, 17 febbraio 2022
4 Federico M. Butera “L’aumento dei prezzi del gas tra profitti da capogiro”, Il Manifesto del 20 febbraio 2022.
5 Roberto Petrini “Rincari, la stangata per famiglie numerose e pensionati” in Avvenire.it, 3 febbraio 2022
6 Il Sole24ore, 26 gennaio 2022 “Imprese: Putin, Italia tra partner principali, Russia è fornitore affidabile gas”. Per un commento critico si veda Federico M. Butera “L’aumento dei prezzi del gas tra profitti da capogiro”, Il Manifesto del 20 febbraio 2022.
7 Livio De Santoli “Gas italiano, l’inutile piano di Cingolani”, l’Extraterrestre, inserto settimanale del Il Manifesto, 17 febbraio 2022.
Tratto da: https://bit.ly/3IzhCwY
Commenta per primo