di Enrico Gatto
Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi.
George Orwell, 1984 (1949)
Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativofinanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politicoeconomiche – soprattutto occidentali ma che si ripercuotono ovunque – e poiché è la scaturigine del cosiddetto Pensiero Unico (che sostiene, precipuamente, il primato dell’economia sulla politica).
In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un’inscindibile ideologia politica: il neoliberalismo) all’origine di tutti i nostri problemi. Semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere da parte della “classe dominante” (una rivoluzione passiva detta con Gramsci) risalente già agli anni venti del novecento (fondamentale fu, successivamente, il colloquio Walter Lippmann) ma iniziato ad attuarsi negli anni settanta (dal memorandum di Powell); è la reazione delle élite alla minaccia bolscevica e alla perdita di potere e ricchezza subita nell’età contemporanea e soprattutto nei trenta gloriosi quando le Costituzioni “socialiste” – apertamente avversate nel 2013 da JP Morgan – associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie (tanto che nello studio Crisi della Democrazia del 1975 commissionato dalla Trilaterale – della quale fecero poi parte Draghi, Prodi, Monti, Letta – si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso “eccesso di democrazia” da risolvere anche con l’introduzione di tecnocrazie).
Quindi, partendo dalle teorie della scuola austriaca di Mises e Hayek e con la scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questa nuova weltanschauung (grazie, tra le tante, alla influente Mount Pelerin Society fondata già nel 1947 da Hayek con l’intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere la teoria classica di Adam Smith): essi contestarono il compromesso keynesiano del liberismo espansivo con intervento statale (l’embedded liberalism della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza) e suggerirono di passare alla deregulation, a politiche di tagli alla spesa sociale, alle privatizzazioni (degli utili, con socializzazione delle perdite), alla finanziarizzazione dell’economia, al monetarismo, all’austerità, alla deificazione del Mercato (che, col laissez faire e la competizione, tende all’oligopolio) e quindi alla definitiva sottomissione dello Stato e della Politica agli interessi economici dei potentati privati (Stato che è quindi integralmente divenuto, come già denunciava Marx, il comitato d’affari della classe dominante). Il tutto andò in porto grazie alla solerte opera dell’industria culturale (Adorno), con la diffusione a reti unificate del nuovo credo tramite le “categorie previane” del circo mediatico, del clero giornalistico e accademico (colonizzato) e del ceto intellettuale (che, con la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante).
La manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle opinioni della massa è un elemento importante nella società democratica. I regolatori occulti di questo meccanismo sociale costituiscono un governo invisibile che è il vero governo del nostro paese. Uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare ci governano, modellano la nostra mente, formano il nostro gusto, suggeriscono le nostre idee.
Edward Bernays, Propaganda (1928)
Si partì dal “test pilota” dopo il golpe di Pinochet in Cile del ’73, poi, nei primi anni ’80, coi governi occidentali di Thatcher, Regan, Mitterrand e Kohl, quindi con la diffusa imposizione del Washington Consensus (da parte del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale) ai paesi del Terzo Mondo in crisi, per arrivare – passando, nel nostro Paese, dal divorzio Tesoro-Banca d’Italia – ai “capolavori” degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell’ordoliberismo incompatibile con la nostra Costituzione e del vincolo esterno incompatibile con la sovranità democratica) e della moneta “unica” europea a cambio fisso con banca centrale indipendente (e, sostanzialmente, privata). Fin da allora la distribuzione di ricchezza ebbe un’inversione di tendenza e andò concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un’oligarchia finanziaria che non fa che portare avanti programmi a proprio vantaggio e a detrimento dei popoli (vedasi dati oggettivi sulla sperequazione crescente).
Ciò che si è cercato di compendiare in poche righe va contestualizzato all’epoca ed è “solo” la lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino) ovvero la ribellione delle élite (Lash); è l’operato di un gruppo, dell’1%, che fa i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è lecito, pur se non etico). Il problema è stata la mancata risposta delle “classi subalterne” e dei loro rappresentanti politici e sindacali che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti (soprattutto dopo il 1989-1991 al venir meno della “forza catecontica” – niente affatto esente da difetti – del socialismo reale) e tendono a non vederli o capirli tuttora (molti ingenuamente, alcuni in malafede, sia a sinistra che a destra fino all’inservibilità della storica dicotomia).
Dobbiamo liberarci del giogo-inganno del debito-colpa e dei mantra che abbiamo introiettato: quelli del there is no alternative (Thatcher), dell’ineluttabile fine della storia (Fukuyama) e del “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”; in realtà tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate, il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale e irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo, basta pensare e agire altrimenti (poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato). Purtroppo però le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx).
Per giungere a un cambiamento è necessario arrivare a una “massa critica” di persone consapevoli (“pienamente sviluppate”) che comprendano che è in atto una “guerra” (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore), che non cedano al sempiterno divide et impera e si compattino riconoscendo il nemico (nell’accezione politica schmittiana del termine) da combattere (che personalmente ho identificato, appunto, nel neoliberismo e nelle sue ricadute politiche e sociali).
Dall’iniquo sistema economico vigente scaturisce l’onnipervasivo e catechizzante Pensiero Unico nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione (bellum omnium contra omnes, homo homini lupus, mors tua vita mea, giustificate come naturali attraverso l’uso ideologico del darwinismo), del do ut des mercatista, del narcisismo individualista, dell’egoismo, dell’edonismo, dell’utilitarismo, del consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica egocentrata; le suddette nefaste logiche fanno di noi degli “schiavi perfetti” poiché intessono quel velo di Maya (Schopenhauer) che ci rende incapaci di vedere le nostre pastoie e, quindi, impossibilitati a liberarcene.
Il governo dei manganelli e dei plotoni di esecuzione, della carestia artificiale, dell’imprigionamento in massa e della deportazione di massa, non solo è inumano, ma è palesemente inefficiente, e in un’epoca di tecnologia avanzata l’inefficienza è un peccato mortale. Uno Stato totalitario davvero efficiente sarebbe quello in cui l’onnipotente potere esecutivo dei capi politici e il loro corpo manageriale controllano una popolazione di schiavi che non devono essere costretti ad esserlo con la forza perché amano la loro schiavitù.
Aldous Huxley, Il Mondo Nuovo (1932)
All’interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria) appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più, esistono solo gli
individui: non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di homines oeconomici, di “imprenditori di sé”, di monadi senza finestre (Leibniz), la cosiddetta modernità liquida (Bauman) dell’insocievole socievolezza (Kant); prodromici furono i movimenti sessantottini e successivamente, grazie al neoliberismo – e alla sua sovrastruttura: il politicamente corretto – l’attenzione è stata sempre più focalizzata sui sacrosanti ma “cosmetici” diritti (individuali) civili a spese, però, di quelli (collettivi) sociali.
Perciò, dunque, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel), rifuggendo dalla crematistica e ritornando all’equilibrio e quindi, come ci insegnano gli antichi greci, ai concetti di misura e limite (è indispensabile rimettere contestualmente al centro l’Uomo e l’economia reale e, quantomeno, attuare la Costituzione del 1948).
Rimane, però, un ostacolo che Platone conosceva fin da 2400 anni fa e che, massimamente oggi, nella società dello spettacolo (Debord), ci si oppone: l’eventuale “liberatore” verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in “catene”; è davvero eloquente e attuale il mito della caverna in cui Platone descrive come una realtà mediata e manipolata venga invece percepita come “verità” dagli sventurati protagonisti che, poiché nati in cattività, non possono immaginare un’esteriorità rispetto all’antro nel quale sono imprigionati e quindi, non sapendosi schiavi ingannati, tantomeno ambire alla libertà.
Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un’altra parte, preferendo deificare l’errore, se questo le seduce. Chi sa illuderle, può facilmente diventare loro padrone, chi tenta di disilluderle è sempre loro vittima.
Gustave Le Bon, Psicologia delle folle (1895)
Se con la ragione neoliberale si è sostanzialmente passati dal governare la bestia selvatica (Hegel) del mercato a governare per il mercato (Foucault), negli ultimi 20 anni (soprattutto) il metodo di governo prediletto è stato quello emergenziale (terrorismo-finanza-debito-pandemia-clima): si sono sfruttate le crisi per imporre e accelerare cambiamenti – coincidenti, secondo i rapporti di forza, con gli interessi di determinati gruppi, con il rafforzamento del dominio e del controllo e con la compressione dei diritti sociali – che difficilmente, in periodi normali, sarebbero stati accettati di buon grado dalle popolazioni (la shock economy descritta dalla Klein). L’origine di questa ennesima regressione sta sempre nel “germe” neoliberale, nella sua ultima evoluzione, nella volontà del Potere (comunque difficile da valutare “in medias res”) di superare le liberaldemocrazie per un modello globale tecnocratico-autoritaristico a controllo panottico.
Soltanto una crisi – reale o percepita – produce un vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano […] finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile.
Milton Friedman, Capitalismo e Libertà (1962)
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