di Valetina Neri
Psichiatra psicoanalista, attiva in istituzioni convergenti -Salute Mentale del Territorio, OPG e carcere, ha aperto la strada a teorie fondate sulle pratiche e a frequentazioni operative con la Giustizia. Fonda nel 1996 e dirige la rivista Il reo e il folle e nel 1995 la Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria, promuovendo il concetto di coazione benigna e gli strumenti utili a evitare l’abbandono del portatore di sofferenza psichica non compliant, tra cui l’Amministrazione di sostegno. Il quadrimestrale tiene insieme arte e diritto, architettura e medicina, filosofia e cinema, antropologia e carcere, utilizzando iconografie preziose e contando su un comitato scientifico di rilievo internazionale. Diploma quadriennale e Master in Immunologia ed Endocrinologia SAT. Autrice di 303 pubblicazioni. Ha curato l’uscita di 7 libri. Ideatrice ed estensore di progetti innovativi finanziati da Ministeri e Regioni ininterrottamente dal 2000, iniziative che ha realizzato con ottimi risultati. Discente in 110 eventi formativi. Docente in 229 convegni; in 61 docente/organizzatore. Docente in 48 Corsi di Formazione istituzionali, anche universitari; in altri 39 è stata docente/organizzatore. Ha ricevuto tre premi: Quality of life, Don Luigi Di Liegro per il giornalismo e la ricerca sociale, Internazionale Nuove lettere per un volume di poesie dal titolo In forma di dedica. Ha rilasciato 28 interviste pubblicate. Consulente convenzionata con il Ministero della Giustizia dal 1981 al 2008 e dipendente del Servizio Sanitario della Toscana dal 1982 al 2017, ha diretto per quattordici anni e mezzo un Servizio di Salute Mentale e per oltre due anni e mezzo è stata Responsabile della Salute in carcere della Azienda Sanitaria di Firenze, confluita nella Azienda Toscana Centro. Coordina attualmente la Commissione per la Integrazione delle Medicine Complementari dell’Ordine dei Medici di Firenze e fa parte della Commissione Pari Opportunità dello stesso organismo da circa venti anni. Collabora con il Comune di Firenze, attraverso una convenzione tesa a migliorare le pratiche relative ad ASO, TSO e AdS, e a promuovere il Progetto di vita. È coordinatore per la Toscana di Diritti in Movimento.
Gentilissima Dr.ssa Brandi, è un piacere ospitarLa in questa nostra rubrica e grazie per aver accettato l’invito. Dagli ultimi eventi e cambi di guardia sulla sanità mentale, si ha la sensazione che la linea anti- basagliana, ossia quella di Franco Basaglia, colui che con la Legge 180 del 1978 ha ridato dignità alla malattia mentale e restituito l’identità di persona a degli individui ormai tenuti ai margini della società, trattati quasi come bestie. Legge che ha poi trovato ulteriori diritti nell’amministrazione di sostegno ideata da Paolo Cendon, che in buona parte ha sostituito, un’altra barbarie, quella dell’Interdizione che avrebbe continuato a tenere sotto catene virtuali il paziente psichiatrico. Sono passi di civiltà che sappiamo esserLe molto a cuore. Che percezione ha di ciò che sta accadendo intorno a noi su questi temi? C’è un rischio reale che queste Leggi possano subire arretramenti e per quale motivo?
Il reale pericolo che queste leggi emancipatorie corrono consiste nella erronea declinazione delle stesse. Applicare la Legge 180 al grido la libertà è terapeutica, avendo in mente la libertà da ogni limite, non importa quale, anche a costo di abbandonare qualcuno alla sua deriva certa, dominati da indifferenza e accidia, applicarla senza avere la consapevolezza di quale ne sia la chiave, ecco come si decretano la ipocrita e isterica proclamazione di principi astratti e la perdita del fil rouge che attraversa la invenzione basagliana: l’impegno. Questo, bel al di là dell’impegno politico, non è obbligo, ma esigenza, non è incombenza, ma premuroso fervore. Lo stesso potremmo dire per l’altro strumento di coazione gentile, ossia l’Amministrazione di sostegno, che per essere tale va declinato con impegno, affinché non diventi uno strumento di tortura. Lo è, ad esempio, una Amministrazione di sostegno disimpegnata che si limiti a infilare in una RSA un anziano che -bada un po’! – pretende ancora di esprimere le proprie idee, anziché aiutarlo a conciliare le sue esigenze con i suoi bisogni.
Quali sono gli interventi migliorativi che Lei apporterebbe per garantire maggiormente la salute mentale del soggetto fragile?
Direi di riportare al centro della scena la responsabilità, peraltro sorella gemella dell’impegno, e la interdisciplinarità, chiave di volta della modernità. Occorrerebbe impedire agli psichiatri di sostenere che suicidi e atti gratuiti siano per definizione imprevedibili e imprevenibili, a prescindere dalle condizioni psichiche di chi li attua, perché questo assolve l’abbandono e l’accidia istituzionale. E così, per l’Amministrazione di sostegno, andrei ben oltre le responsabilità patrimoniali, che continuano a schiacciare la norma sul capitale e a creare quel pasticcio che rende ben poco equa l’indennità, visto che la si commisura, con riduzionismo logico, alla ricchezza del beneficiario, anziché alla complessità dei suoi bisogni, distorcendo una norma che guarda al benessere ben più che alla proprietà. Forse non sarebbe fuori luogo pretendere che il rendiconto annuale cessi di essere il conto della spesa, per diventare un racconto delle azioni predisposte a salvaguardia della qualità della vita della persona tutelata, uno spaccato del rapporto costi/benefici umani. Essere disposti a un cambio di passo sul valore da assegnare all’indennità, affinché sia equa e dunque commisurata alla reale complessità della situazione da amministrare, non è solo consigliabile, ma indispensabile per avere uno strumento di tutela più adeguato ai bisogni delle persone. Ne conseguirà giocoforza che non saranno i patrimoni a primeggiare, bensì i bisogni, e non sarà la semplificazione ad avere la meglio, bensì l’impegno. Occorre un uso colto e convinto degli strumenti della coazione gentile, tra i quali figurano il TSO basagliano e l’Amministrazione di sostegno, e non la loro denegazione, la loro messa al bando.
Quali fatti nell’ultimo periodo, Le hanno recato maggiore sconcerto e preoccupazione?
La moltiplicazione dei fatti di sangue commessi da malati di mente lasciati in balia della loro supposta libertà, mentre gli esperti scrivono volumi sulla imprevedibilità/imprevenibilità dei medesimi, attraverso consulenze tecniche e teorizzazioni che lasciano sempre più solo il portatore di sofferenza psichica severa deciso a non farsi aiutare, mi allarma alquanto. Sono al contrario convinta che morti e reati si potrebbero prevenire con un sapiente uso degli strumenti della coazione gentile, quale un TSO necessario, umano, progettuale di una persona la cui vita delirante è assai più datata del gesto delirante che la porterà a confrontarsi con la giustizia, dopo avere magari spazzato via altre vite. È ignobile continuare a nascondere la escalation di atti gratuiti dai risvolti tragici dietro l’inesistente raptus, dietro la imprevedibilità/imprevenibilità del gesto-reato. Questo gioco a nascondino e quindi a tana liberatutti ha da finire. I suicidi e gli omicidi legati a condizioni psicopatologiche sono in larga parte prevedibili e prevenibili, adottando idonee misure di attenzione e di intervento. Come può la Magistratura tollerare l’oltraggio alla intelligenza del Giudice insito in CTU che ridimensionano il potere-sapere della psichiatria, trasformandolo nel lancio di una monetina? E se oggi si reclama che siano gli Amministratori di sostegno a procedere a TSO in collaborazione con i Giudici Tutelari, se cioè ci si limita a spostare il pallino altrove rispetto ai destinatari di una responsabilità diagnostica-prognostica-terapeutica (la Salute Mentale pubblica), si commette il fondamentale errore di non riconoscere la fuga di questo ente statale dalla sua responsabilità per restituire questa, con un velocissimo passo a ritroso, all’ambito cui la medicina intese strapparla, vale a dire alla Giustizia, pensando all’epoca di sostituire la cura alla pena che è rimasta fondamentalmente punizione. Non sarebbe altro che un vorticoso indietreggiamento di tre secoli, e poco importa se si invoca come una innovazione la giustizia civile in luogo di quella penale e della medicina. Il risultato resta la negazione della realtà: il mancato impegno con il quale vengono affrontati problemi complessi e spinosi.
La fuga dall’uso sapiente di TSO e Amministrazione di sostegno, in chiave anche preventiva, visto che, come Virchow sosteneva, la medicina è una scienza sociale, non sarà corretta ricacciando altrove la soluzione immaginifica del problema, né si potrà pretendere che la giustizia civile diventi medicina su larga scala. Gli Amministratori di sostegno che auspicano di diventare gestori del TSO in collaborazione con i Giudici Tutelari, hanno una vaga idea dell’impegno e della competenza che richiede effettuare un TSO rispettoso dei problemi di salute in gioco? Senza questo impegno, senza questa competenza sarà come friggere con l’acqua.
Non vorrei qui dimenticare le declinazioni indegne della Amministrazione di sostegno: cosa dire di chi, per facilitarsi il compito, trasferisce addirittura in altra Regione il suo beneficiario, cambiandone tutti i referenti sanitari, contrari all’inserimento in RSA della persona, per poi negare a questa il diritto di incontrare vecchi amici e addirittura difensori e addirittura curanti? Coloro che difendono il diritto dell’anziano di cui sia stato decretato un ricovero non assolutamente necessario in RSA, rischiano di fare una brutta fine. Intorno al malcapitato si fa il deserto, l’Amministratore di sostegno impedisce qualsiasi contatto in nome della presunta tranquillità del malcapitato che perderà in breve la forza per protestare e, foss’anche solo questo, si troverà costretto ad adeguarsi a un addio alla vita diverso da quello che avrebbe auspicato. E che dire di quegli Amministratori di sostegno che, indifferenti ai bisogni del loro beneficiario e dunque incapaci di stabilire un rapporto di fiducia con questi, ne promuovono la interdizione?
Talvolta mi trovo a confidare nella Pubblica Accusa come autentico organo di garanzia, immagino che il Magistrato del Pubblico Ministero, sul cui tavolo passano storie siffatte, possa/voglia promuovere confronti interdisciplinari sugli strumenti della coazione gentile e si faccia garante inossidabile dei diritti, con la forza civile che riesce ad avere il diritto penale quando applicato con impegno. Le parole usate dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia qualche giorno fa, mentre richiamava la Salute Mentale a interventi urgenti che evitino ai soggetti prosciolti di restare per anni sequestrati in carcere, per l’insufficiente numero di posti nelle REMS, e a garantire il benessere psichico dei reclusi sofferenti psichicamente, sono parole ferme e consapevoli che aprono alla speranza. Dopo anni di silenzio sul tema, questa posizione decisa mostra il barlume di lucidità e di progettualità di cui si avverte da tempo il bisogno.
Sappiamo che recentemente ha sostenuto un cortometraggio scritto e diretto da Andrea Simonella in cui si parla di un episodio di violenza sessuale avvenuto in un OPG. Cosa l’ha convinta a collaborare affinché fosse realizzato?
Se è vero che non muoverei a cuor leggero una accusa tanto grave, come ho visto accadere in passato, non sopporterei che una aggressione così sinistra e deturpante passasse sotto silenzio, che la fragilità situazionale del portatore di una sofferenza comportasse la violazione del suo corpo e quindi della sua mente. Non vorrei mai essere tra chi copre simili evenienze. La cautela dell’accusa è l’altra faccia della medaglia del riconoscimento della colpa e dell’aiuto da offrire a chi ha il coraggio emancipatorio di parlarne, vuoi pure attraverso una messinscena. Non avrei potuto che sostenere questa opera d’arte. E d’altronde l’autore del crimine deve essere fermato, a tutela delle vittime potenziali e della qualità della sua stessa vita. Una colpa si può pagare, aprendo a un futuro meno diabolico chi è spinto a commettere oscenità che traumatizzano l’altro. Non si pagherà, al contrario, il senso di colpa conculcato nella vittima che è indotta a tacere e a portare su di sé il peso di una colpa che non le appartiene. Il coming out è di per sé una cura soggettiva e sociale.
Di recente ho avuto modo di intervistare nel libro “L’arte ha bisogno di carezze.” Santelli Editore , un suo conterraneo, lo storico dell’arte Luca Nannipieri che, con mia grande sorpresa, quando gli ho chiesto quali fossero gli storici dell’arte che avevano influenzato la sua visione, mi ha risposto, appunto, Franco Basaglia. Cito testualmente come lo ha definito: «Non si è limitato a elucubrare mentalmente delle riflessioni sulla psichiatria, sulla malattia, sulla salute, sul buon stato di diritto che deve avere una mente. Era colui che ha lottato con la sua esperienza affinché quei reclusori, di discriminazione, di segregazione, di infertilità, di omicidio legale delle persone, che erano i manicomi, venissero aboliti, colui che ha dato dignità di vita a persone considerate indegne di vivere, marginalizzate alla camicia di forza, al letto sprangato, all’edificio rinchiuso da alte mura e cancelli chiusi a doppia mandata. Quindi colui che ha trasposto, il piano teorico su un piano militante e pratico. È ciò che io chiedo allo storico dell’arte, cioè non limitarsi a riflettere sullo stile, l’epoca e la data degli artisti ma porre il proprio corpo, la propria presenza, nel cuore del proprio tempo per affrontare le proprie ingiustizie, le grandi disattenzioni, le grandi differenze che nutrono i nostri sguardi.»
Cosa pensa Gemma Brandi di questa affermazione?
Penso che Luca Nannipieri abbia colto il riflesso della consapevolezza innovativa della trasgressione, sia questa una trasgressione autolesiva, ostile, suscettibile, sia questa una trasgressione creativa, sensibile, rivelatrice. Transgredior, ossia andare oltre, sui due versanti di uno stesso crinale trasgressivo. Come dunque non provare interesse per la follia, per una trasgressione che coinvolge anche le regole del linguaggio? Non c’è autentica differenza tra l’interesse per l’arte e per la follia e questa consapevolezza Basaglia l’aveva e provava interesse per la vita dei matti quanto molti sperimentano per quella degli artisti. Se si parte da questa simpatia per l’altro trasgressivo, sarà facile andargli incontro, che si tratti di un folle o di un artista, sarà facile diventare militanti della liberazione vera, che è quella dai pregiudizi, ma anche dalla sofferenza evitabile. Stare con i folli per me è stata una grande scuola di vita e il modo per sentirmi parte di una umanità che osa, che sente, che indica nuove strade, che chiede di essere ascoltata e rispettata, proprio mentre sembra mancare di rispetto.
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