Lavoratori muoiono per il profitto

Non si può ignorare quanto stà accadendo

da Si Cobas

Assassinato il coordinatore Si Cobas di Novara Adil Belakdim durante lo sciopero alla lidl di Biandrate (Novara)

contrariamente a quanto affermato su alcuni organi di stampa, Adil è stato ammazzato e altri due operai sono ora ricoverati in ospedale, travolti da un camion che ha forzato il presidio dei lavoratori ed è poi fuggito senza prestare soccorso. Pochi minuti fa l’autista del cmion è stato arrestato

Alle 11,00 conferenza stampa fuori ai cancelli lidl per chiarire la dinamica dei fatti.

Siamo ad un passo dallo sblocco dei licenziamenti di massa, e sulla stampa di regime, il regime-Draghi, è partito il battage propagandistico dell’“andrà tutto bene”, che già ci assordò tempo fa, e abbiamo visto com’è andata.

Al megafono il forzista Brunetta, ministro della p.a.: “Siamo alla vigilia di un nuovo boom economico. Stiamo vedendo all’opera gli ‘spiriti animali’ della nostra Italia. Con le nostre riforme (…), una rivoluzione gentile. È il momento Italia” (la Repubblica, 30 maggio).

Il capo di Bankitalia Visco ha lanciato l’identico messaggio.

C’è euforia nei palazzi del potere.

Il boom di cui parlano sarebbe in realtà un semplice rimbalzo dal fosso (-8,9%) in cui è caduta nel 2020 l’economia italiana insieme a quella mondiale; un rimbalzo che, se andasse “tutto bene” (+4,3% nel 2021, +4,0% nel 2022), la riporterebbe nel 2023 ai livelli del 2019, che erano inferiori a quelli del 2007.

Ma non è detto che vada come prevedono.

La loro euforia si fonda sull’ipotesi di una ripartenza a razzo di Stati Uniti e Cina in grado di trainare l’intera economia mondiale.

Su questa ripartenza a razzo gravano, in realtà, diverse incognite, che potrebbero farla cortocircuitare anche piuttosto a breve.

A cominciare dall’andamento della pandemia da covid-19 nel mondo, e dalla non remota possibilità di nuove pandemie in arrivo.

C’è poi il forte rialzo dei prezzi delle materie prime tradizionali (legno, ferro, rame, petrolio), e la scarsità di materie prime strategiche per la cd. “transizione ecologica”.

E il temuto riaffacciarsi dell’inflazione potrebbe portare al rialzo dei tassi d’interesse prima del previsto.

Il che, a sua volta, farebbe esplodere la miccia del debito di stato e privato innescando la crisi finanziaria finora scongiurata – e spezzerebbe l’incantesimo che assegna alla creazione di enormi quantità di moneta a credito senza un corrispettivo reale di produzione di valore, il magico potere di sanare le ferite della crisi.

E poi ci sono le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina, Stati Uniti e Russia che potrebbero avere, tra rappresaglie e contro-misure difensive, un impatto duro sulla stessa ripresa. Per non parlare dell’incognita costituita da una nuova grande insorgenza delle masse sfruttate e oppresse del mondo arabo e “islamico”, la cui forza sismica è stata evidenziata dalla recente sollevazione
palestinese.

Alla propaganda di regime tali incognite importano ben poco.

Questo è il momento dell’ottimismo, necessario a far dimenticare la disastrosa gestione della pandemia che ha fatto dell’Italia uno dei cinque paesi al mondo con il maggior numero di morti sulla popolazione – per la pretesa di Confindustria di tenere tutto aperto a qualsiasi costo, per essere privo di qualsiasi forma di medicina preventiva e territoriale, per la conseguente esclusione di ogni cura anti-covid che non fosse ospedaliera; insomma: per avere messo il profitto al di sopra di tutto.

Tale disastro va dimenticato.

Ora è il momento di ripartire, e di fare le “riforme” che devono placare gli ‘spiriti animali’ del capitale, spazzando via per sempre i residui lacci e lacciuoli creati dalla resistenza del movimento operaio dentro e fuori i luoghi di lavoro.

È l’ora della grande abbuffata privata allestita dallo stato-maggiordomo per il capitale nazionale e globale, l’ora di un grande massacro sociale di classe.

La macchina del governo prende velocità, contro la classe lavoratrice.

È cominciata l’era Draghi, e non finirà presto.

È cominciata qualche mese fa in nome dell’unità nazionale.

Poteva sembrare l’inizio di una nuova stagione di concertazione all’insegna di maggior “equità” nella suddivisione delle perdite e dei guadagni, e di un asse politico con i vertici di Cgil-Cisl-Uil, i quali, con Landini in testa, hanno fin dal primo momento elogiato il capo dell’esecutivo.

Per i primi mesi, perdurando l’emergenza sanitaria, il governo ha dovuto procedere con prudenza, a fari spenti e velocità moderata.

Ora i fari li ha accesi e la velocità con cui la macchina governativa si dirige contro la classe lavoratrice è sostenuta.

Lo provano il no secco alla richiesta sindacale di prorogare il blocco dei licenziamenti e la decisione di generalizzare gli appalti al massimo ribasso – una decisione che se è stata formalmente stralciata per dare un contentino ai bonzi sindacali, ma in realtà è riconfermata nei fatti.

La promessa governativa di una futura “maggiore tutela dei lavoratori” dei sub-appalti può ingannare solo chi vuol farsi ingannare.

Appalti e sub-appalti sono stati negli ultimi decenni il principale meccanismo per abbassare i salari, che ha permesso di applicare contratti di comodo e dividere i lavoratori in “aziendali” (di serie A) e “appaltati” (di serie B, spesso immigrati).

L’attuale ottimismo di regime è un’arma anti-operaia.

Perché serve a criminalizzare gli inevitabili conflitti che queste decisioni provocheranno: una ripartenza “alla grande” è a portata di mano purché la festa non venga guastata dalle irragionevoli pretese dei lavoratori e dai fissati con la lotta di classe.

A riguardo il caso FedEx, cioè lo scontro tra la FedEx e i facchini di Piacenza organizzati con il SI Cobas ha già detto tutto in anticipo.

La sola lotta di classe ammessa è la lotta di classe dall’alto, del capitale contro il lavoro salariato.

Il padrone FedEx è libero di stracciare gli accordi fatti davanti alle autorità di stato soli 30 giorni dopo averli sottoscritti, può licenziare 272 dipendenti a Piacenza, nel mentre assume squadracce di picchiatori in odore di ‘ndrangheta e militanza fascionazi – per premio il governo Draghi gli ha messo a disposizione magistrati prefetti questori poliziotti carabinieri giornali tv e quant’altro ancora occorra per isolare e stroncare la lotta operaia.

Salvo non riuscire a piegarla.

L’imminente sblocco dei licenziamenti non deve farci ipotizzare, però, un attacco sumultaneo, omogeneo e generalizzato a tutto il proletariato.

Non andrà così.

La cosa è ovvia, ma non scontata.

Dovremo tenerne conto per definire una linea di resistenza efficace, unificante.

Anzitutto: la crisi del 2020 ha colpito in modo assai differenziato.

Molto più i cd. servizi che l’industria e l’agricoltura.

I trasporti aerei, l’autonoleggio, la ristorazione, il turismo, l’intermediazione immobiliare, il piccolo commercio, le attività artistiche e ricreative: è soprattutto in questi rami che emergerà da luglio in avanti una massa di forza-lavoro da tagliare.

Se finora a perdere il lavoro sono stati in larga parte i salariati con contratti a termine, toccherà a breve a una quota significativa di quanti hanno contratti a tempo indeterminato – e con loro ci sarà un numero non minuscolo di
commercianti, artigiani, padroncini, partite iva.

Nell’industria, i settori su cui l’impatto della recessione è stato e sarà maggiore sono quelli a prevalente occupazione femminile: abbigliamento, moda, pelli, tessile.

Ha tenuto meglio il metalmeccanico, se si eccettua il comparto legato all’aviazione civile e gli elettrodomestici.

Tuttavia le mosse di Stellantis rivelano un piano di riduzione della produzione nel settore auto in Italia e Europa, con nuovi tagli dell’occupazione operaia.

Altri tagli sono annunciati nella logistica (ha cominciato FedEx), uno dei rami che più ha beneficiato dell’avvento della crisi sanitaria.

In questo caso si tratta, però, di licenziamenti da ristrutturazione del processo produttivo per accrescere i profitti con il taglio degli organici, aumentando i lavoratori precari (interinali), riducendo a quanti resteranno al lavoro salari e garanzie contrattuali conquistati in un decennio di lotte, e con il proposito dichiarato di cancellare il sindacato con i quali si sono organizzati.

Analoghe riorganizzazioni del processo produttivo avverranno su più larga scala.

La sigla che indica tali cambiamenti è industria 4.0.

L’incremento del ruolo dei computer (micro processori e micro computer), l’internet delle cose, i robot di nuova generazione, la connessione di elementi del processo produttivo finora isolati grazie a flussi d’informazioni centralizzati (piattaforme cloud), renderanno possibile asciugare all’estremo il tempo di lavoro.

Insieme all’inasprimento dello sfruttamento del lavoro e del controllo sul lavoro, ciò faciliterà la riduzione all’osso degli organici (sta avvenendo anche in agricoltura).

È vero, gli industriali italiani hanno record negativi in fatto di investimenti produttivi preferendo quelli speculativi, hanno puntato più sulla riduzione dei salari che sull’ammodernamento degli impianti; ma questa volta gli incentivi, e i rischi che si corrono a non investire davanti all’emergere di nuove potenze industriali in grado di ricorrere a macchine di ultima generazione, sono tali da sconsigliare il prolungamento dello sciopero degli investimenti.

Dunque sono in arrivo licenziamenti per ragioni differenti: il fallimento di un certo numero di imprese; il ridimensionamento dell’attività di altre; la ristrutturazione da industria 4.0; l’uso speculativo dei sussidi statali, ad esempio per sbarazzarsi di forzalavoro anziana, malata, scomoda e assumere al suo posto apprendisti o somministrati con paghe da fame.

Impossibile prevedere l’entità della massa di operai/e e proletari/e che saranno gettati per strada.

Circolano le cifre più disparate.

Ed è comprensibile, sia per le tante incognite su portata e durata della ripresa, sia per i diversi ruoli degli enti che fanno le previsioni.

Il solo dato certo è il consistente aumento dei disoccupati, da fine giugno in avanti.

Che si aggiungerà all’avvenuta distruzione di 945.000 posti di lavoro precari, coperti in stragrande maggioranza da donne, in molti casi obbligate ad auto-licenziarsi a causa dell’imposizione di turni incompatibili con la cura dei figli (vedi Yoox).

E si aggiungerà ai tanti licenziati per misure ritorsive e anti-sindacali contro le avanguardie di lotta che sono continuati senza sosta durante la fase del picco pandemico, e che prevedibilmente continueranno a moltiplicarsi nelle prossime
settimane e nei prossimi mesi.

I nuovi posti di lavoro, salvo eccezioni, saranno a condizioni peggiorative.

A fronte di questi licenziamenti di massa, con i fondi del Recovery Plan e con quelli ordinari ci sarà un rilancio che almeno all’inizio potrà essere veloce e sostenuto, delle imprese legate alla realizzazione delle infrastrutture (digitali, ferroviarie, autostradali, “grandi opere”), della produzione bellica (+8,1% previsto nel 2021), dell’immobiliare (i superbonus), della farmaceutica, del packaging, delle apparecchiature industriali.

Anche se il piano governativo prevede per i prossimi anni un andamento negativo del rapporto tra esportazioni e importazioni, a beneficiare dei flussi di denaro provenienti dall’UE saranno in prima istanza le grandi e le medie imprese italiane, a cominciare da We Build (ex-Impregilo), Finmeccanica, Fincantieri, Benetton (quelli a cui il fu-M5S giurò di spezzare le gambe, ricordate?), etc.

L’FCA, ora Stellantis, si era mossa in anticipo accaparrandosi un prestito garantito di 6 miliardi di euro.

Se in questi giorni è scoppiata la questione del massimo ribasso generalizzato negli appalti e del sub-appalto illimitato, è perché le grandi e medie imprese intendono fare ricorso proprio a questi strumenti per massimizzare i loro profitti.

Non a caso nella stesura finale del piano è scomparso il salario minimo.

“Creazione” di nuovi posti di lavoro sì, ma a condizioni peggiorative rispetto agli standard già molto compromessi della fase pre-covid: salari più bassi, orari più lunghi, ritmi più intensi, misure di sicurezza ridotte o azzerate, a norma di legge, utilizzando i contratti più favorevoli alle imprese, e al di fuori della legge.

La crescita del numero delle lavoratrici e dei lavoratori caduti per mano del capitale a causa della totale assenza di controlli sulla attuazione delle norme di sicurezza sui luoghi di lavoro, è un indicatore che parla da sé.

Altri indicatori li hanno forniti Bankitalia ed Eurostat: il 60% delle famiglie stenta ad arrivare a fine mese, e in un anno la massa dei salari si è contratta in Italia di 40 miliardi (-7,5%, rispetto alla media europea del -1,9%).

L’enorme allargamento dell’esercito proletario di riserva tipico di tutte le crisi agisce come una pressa per svalorizzare l’insieme della forza-lavoro, inclusa la sua sezione che resta nonostante tutto stabilmente impiegata.

Si può vederlo in ciò che è accaduto nel turismo, il più in crisi di tutti i comparti.

Che nell’ultimo anno è stato “un laboratorio di sperimentazione di vecchie e nuove forme di sfruttamento, organizzate secondo linee di genere, colore, provenienza, età” (v. Il turismo di chi ci lavora, un’indagine seria di C. Caravella e M. Cerimele, escluse le conclusioni, penose).

Dalla precarizzazione si è passati all’ultra-precarizzazione, dalla flessibilità all’iper-flessibilità.

Accanto agli abituali contratti stagionali, part-time e a tempo determinato, è stato amplissimo “il ricorso alle forme contrattuali più deteriori: lavoro esternalizzato, contratti di somministrazione, lavoro a chiamata e perfino lavoro gratuito”, gli stage, i voucher, il lavoro intermittente, orari settimanali di 50-60 ore, retribuzioni pari, talvolta, a poco più di un’elemosina.

I grandi alberghi “hanno progressivamente sottratto a lavoratrici e lavoratori il riconoscimento di vitto e alloggio, con conseguente erosione delle loro entrate complessive”.

Normale è diventata l’applicazione del contratto multiservizi (scaduto dal 2013) anziché quello del settore, soprattutto nelle pulizie, dove c’è “una netta prevalenza di lavoratrici, spesso immigrate, assunte per poche ore, non giovanissime, non di rado monoreddito, con problemi di salute”.

Cottimo mascherato, e se i traguardi non vengono raggiunti, tagli di salario.

In alcune regioni (la Campania, ad esempio), il lavoro integralmente al nero è arrivato al 50% del totale. Insomma gli spiriti animali del capitale erano in piena azione già sotto il governo di centro-sinistra Conte bis… e gli stessi hanno permesso di superare la crisi-covid nelle campagne con la generalizzazione del lavoro al nero di braccianti immigrati rimasti senza permesso di soggiorno grazie alla sanatoria beffa a firma Bellanova.

Al di là del turismo e dell’agricoltura, l’ulteriore abbassamento del costo e dei diritti della forza-lavoro resta elemento-chiave della ripartenza dell’economia sotto la regia del duo Confindustria/esecutivo di unità nazionale.

Non è tutto qui, ma in Italia il primo carburante del “reset” capitalistico, e del Recovery Plan, è questo.

In questa ‘ripartenza’ una penalizzazione speciale spetterà alle donne e ai proletari
immigrati.

Alle donne perché il piano di finanziamenti europeo è vincolato allo sviluppo di settori (il digitale, la riconversione “ambientale”) che sono a bassissima componente di forza lavoro femminile, e perché l’espansione del lavoro da casa che diventerà in molti casi permanente, produrrà uno stravolgimento della figura di donna lavoratrice creando un nuovo tipo di casalinga/lavoratrice h 24.

Ai proletari immigrati perché il governo in carica prosegue e sistematizza la linea di guerra varata dal Conte1, ammorbidita solo in apparenza dal Conte-2 con la truffa della sanatoria-Bellanova.

Mentre i nuovi permessi di soggiorno vengono dati con il contagocce, lasciando
volutamente nella irregolarità centinaia di migliaia di proletari immigrati, con la raffica di licenziamenti in arrivo altre decine di migliaia di immigrati/e rischiano di perdere il permesso di soggiorno.

Così, la riserva di caccia è garantita con un’abbondanza di pelli “nere” e “marroni”, a cui si sta negando anche l’accesso ai vaccini.

La ristrutturazione che hanno in mente Draghi & Co.

Il “reset”, la ristrutturazione del capitalismo nazionale dell’era-Draghi, avrà i seguenti tratti salienti:

  • ulteriore internazionalizzazione dell’economia italiana, in direzione crescentemente euro-atlantica, con la possibile tensione tra l’interesse a rafforzare l’UE e la costruzione di un rapporto privilegiato con Washington;
  • ulteriore concentrazione e centralizzazione del capitale, con lo sfoltimento delle piccole e piccolissime imprese artigiane, commerciali, industriali decotte;
  • pax mafiosa finale con le bande della criminalità organizzata, preannunciata dal silenzio di Draghi in materia di mafia nel discorso di insediamento, e sigillata con la priorità accordata ai “grandi lavori” infrastrutturali al Sud (con il rispolvero perfino del ponte sullo Stretto), gli appalti al massimo ribasso, l’apertura a modifiche all’ergastolo ostativo – in questo senso il suo è un vero governo di unità nazionale;
  • sforzo combinato per far crescere la produttività del lavoro da molti anni stagnante con un mix di nuovi investimenti in macchinari, innovazioni organizzative, ferrea disciplina sui luoghi di lavoro e incentivi salariali mirati;
  • uso sistematico e brutale della disoccupazione, della precarietà di massa, e della legislazione razzista contro gli immigrati per spingere il valore di una grossa quota della forza-lavoro al di sotto dei livelli di sussistenza;
  • ulteriore blindatura poliziesca della vita sociale, ed anzitutto del conflitto di classe, con l’applicazione dei decreti anti-sciopero e anti-immigrati del governo “sovranista” Salvini-Di Maio, caro a certa “sinistra” ultra-degenerata, nuove misure di ostacolo all’esercizio effettivo del diritto di sciopero, insieme con lo sdoganamento delle polizie private padronali (vedi ancora una volta FedEx);
  • proiezione militare in Libia, Africa occidentale, Balcani in funzione aggressiva antirussa e anti-turca, e su scala globale anti-cinese, candidando l’Italia al ruolo di nuova Gran Bretagna all’interno dell’UE, con l’intensificazione – sul territorio africano – della guerra agli emigranti, che ha riempito di cadaveri il Sahara e il Mediterraneo, e di campi di concentramento la Libia per “educare” i sopravvissuti e le sopravvissute attraverso le pratiche umanitarie della tortura e dello stupro – e il connesso rilancio del rancido nazionalismo tricolore e dell’anti-islamismo.

La natura anti-proletaria di questo programma pluriennale passa attraverso ciascuno dei tratti salienti qui indicati e la loro unità, e cerca di saldare in chiave anti-proletaria le diverse frazioni del campo borghese. Un’opera in cui il super-banchiere ha le sue gatte da pelare.

La nascita del governo Draghi ha prodotto un terremoto nelle forze politiche borghesi che lo sostengono.

Il riallineamento europeista-atlantista di M5S e Lega (nonostante l’ondivagare di Salvini), la finale scomposizione di quel che resta di Forza Italia, l’ulteriore impallidimento delle proposte di contrasto alle disuguaglianze provenienti da destra, centro e sinistra, sono solo le prime conseguenze di una marcia del governo che sta diventando decisa e spedita proprio sulle rovine della vecchia nomenclatura
politica.

Ma il groviglio di contraddizioni con cui il governo si deve confrontare, le frizioni tra potere centrale e poteri regionali, tra i grandi capitalisti e la mucillagine dei piccoli i cui margini di profitto saranno comunque erosi, tra i diversi comparti del capitale, tra interessi del Nord e del Sud, tra una magistratura screditata e una “classe politica” ancor più screditata della magistratura che si sforza di risalire la china, tra l’Italia e la governance europea, pone ostacoli non da poco alla quadratura del cerchio – anche in assenza, come oggi è, di un protagonismo di massa della classe operaia e del proletariato politicamente rilevante.

La crisi di Cgil, Cisl, Uil e delle varie sinistre

Nondimeno, al di là di un presente di sostanziale pace sociale, quella che si prospetta è un’oggettiva acutizzazione degli antagonismi del capitalismo e degli antagonismi di classe.

La grande crisi del 2008, con epicentro negli Stati Uniti, è stata brillantemente superata dal capitale globale con il predisporre tutte le condizioni per lo scoppio, un decennio dopo, di una crisi ancor più profonda, complessa, multifacce, la più grave da un secolo.

Il rilancio dell’accumulazione in corso, fondato com’è sul gigantesco incremento della massa monetaria, dei debiti di stato e privati, e la connessa illusione di affidarsi alle stregonerie del capitale fittizio per risolvere ogni problema, ha un sinistro suono di guerra e devastazione: guerra al lavoro salariato, guerra alla natura, guerra/e in senso stretto all’orizzonte.

Altro che la transizione ecologica (una menzogna senza pari), il “modello di sviluppo” friendly per donne e giovani, o la “rivoluzione gentile” dei piazzisti alla Brunetta!

Le dirigenze e il quadro esteso di Cgil-Cisl-Uil sono impauriti da questi processi.

E implorano Draghi&Co. di prestargli ascolto perché altrimenti può esplodere in modo incontrollato la collera degli sfruttati senza che loro siano in grado di contenerla.

Ma il sogno anche solo di una consultazione preventiva delle organizzazioni sindacali che sia in qualche misura tenuta in conto, resterà appunto soltanto un sogno.

Già Renzi l’aveva liquidato.

All’anno 2021 non c’è nulla in Italia che somigli ad uno sviluppo capitalistico capace di ricostituire un’aristocrazia operaia “di massa”.

L’erosione della condizione operaia e proletaria media procede inesorabile.

La sola aristocrazia del lavoro compatibile con questa tormentatissima fase del tardo-capitalismo è quella tecnica, di specialisti del lavoro digitale e della manutenzione del nuovo macchinario.

Il centinaio di operai e impiegati in distacco sindacale nella sola fabbrica FCA di Melfi è un “lusso” che il capitale non intende più consentire.

Le imprese rampanti dell’ultima generazione, da WalMart ad Amazon, da RaynAir a Microsoft, sono tutte allergiche alla presenza del sindacato.

E se i margini di profitto sono talmente elevati da permettere “elargizioni straordinarie”, come accade alla Luxottica o alla Tod’s, a farle ci pensa direttamente il padrone “illuminato” saltando la mediazione sindacale, in un rapporto diretto con la “sua” manodopera.

Quel rapporto diretto (di subordinazione aziendale e aziendalista) che il “welfare aziendale” promosso da Cgil-Cisl-Uil sta allargando e radicando.

La trasformazione dei grandi apparati sindacali in strutture di servizi (e di piccoli favori individuali), presagito e voluto dalla Cisl, strutture alle quali il ricorso allo sciopero e al picchetto appare ormai anacronistico, sta tutto dentro questo processo di necessario inasprimento strutturale dello sfruttamento del lavoro.

Tanto più in un paese come l’Italia, che arranca, quanto a competitività di sistema, dentro un’Unione europea che a sua volta arranca nella competizione mondiale scatenata con Cina e Stati Uniti – basta comparare il piano anticrisi di Trump-Biden con quello della Commissione von der Leyen.

C’è chi ipotizza che davanti ad una improvvisa riaccensione dello scontro di classe, queste strutture saprebbero rigenerarsi al modo del dopo-’68.

Noi no.

C’è una grande differenza tra la dura resistenza al dispotismo padronale fatta dalla Cgil nei primi vent’anni del dopoguerra da sindacato “classista”, e più di quaranta anni abbondanti, ormai, di accettazione sempre più supina della politica dei “sacrifici necessari”.

Le due pratiche hanno forgiato leve di quadri sindacali dalle caratteristiche molto diverse – benché, sia chiaro, anche la leva Di Vittorio, a suo modo “classista”, fosse del tutto interna al riformismo e all’esigenza imperativa di ricostruire il capitalismo nazionale.

Ciò che ipotizziamo, perciò, in circostanze di forti scontri di classe, è piuttosto una crisi profonda del rapporto tra le strutture sindacali e la massa dei loro stessi iscritti, già oggi molto allentato, che si aggiungerà alla crisi cronica del loro rapporto con le nuove generazioni proletarie, e l’emergere di una spinta all’auto-organizzazione operaia e proletaria, che è altra cosa dal votare contro gli accordi-bidone.

In nuce, in dimensioni minuscole per il momento, è quello che è accaduto a Piacenza con i trenta ribelli della Cgil solidali con la lotta dei proletari del SI Cobas, che sta accadendo a Melfi, e in alcuni porti con le iniziative dei portuali dei sindacati di base di non caricare le navi di armi.

Quanto alla “sinistra” politica istituzionale, si è quasi ovunque candidata in Europa ad essere il partito di riferimento del grande capitale, riducendo pressoché a zero le sue istanze tradizionali di “riforma” del capitalismo.

Mentre la sinistra extra-istituzionale, esclusa dai parlamenti quasi sempre contro la propria volontà, si è condannata nella gran parte dei casi all’irrilevanza coltivando l’idea, del tutto fuori dalla realtà, che si possa rieditare i “gloriosi trenta anni” dello sviluppo post-bellico – una congiuntura che è stata idealizzata anche da molti proletari della vecchia generazione come se fosse il massimo livello raggiungibile dal proletariato, sempre classe del capitale, priva di forza rivoluzionaria.

Il che fotografa indubbiamente l’attuale condizione della classe, specie in Italia, con il “piccolo” difetto, però, di eternizzarla diffondendo passività e malinconica assuefazione allo stato di cose presenti.

Per evitare le catastrofi incombenti, c’è un solo mezzo: la lotta organizzata, su basi classiste e internazionaliste, al capitale, al governo, al sistema sociale capitalistico!

Per noi internazionalisti rivoluzionari il capitalismo non può camminare a ritroso.

Il suo moto regolato da cieche, immodificabili leggi di movimento forza di continuo “in avanti” i suoi limiti, e non solo nella produzione di strumenti di produzione.

E ciò avviene con incontenibile furia proprio nelle crisi.

Nessuna crisi quanto l’ultima ha portato in luce che se il capitale resterà l’indiscusso padrone del campo, ci attende una catena di terribili catastrofi, che possono trascinare nella rovina comune la classe dominante e le classi sfruttate, il Nord e il Sud del mondo, l’imperialismo a stelle e strisce e il sedicente “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Tale eventualità non è mai stata tanto concretamente reale.

Ciò dà un carattere di oggettiva e soggettiva urgenza alla rinascita del movimento proletario internazionale e internazionalista.

Dal momento che le rivoluzioni comportano indicibili sacrifici, la massa delle classi sfruttate va alla rivoluzione per stato di necessità, per totale assenza di alternative.

Dall’inizio del secolo tutto ciò che il capitalismo riesce a “garantire” a queste masse, almeno in Occidente e gran parte dei paesi dominati e controllati dall’imperialismo (in Cina e altri paesi dell’Asia la situazione è differente), è un’interminabile discesa agli inferi intervallata da passaggi traumatici che fanno intravvedere un peggio senza limiti spazio-temporali.

Proprio questa esperienza sta spingendo internazionalmente il proletariato a ridestarsi, a cominciare dagli Stati Uniti con il movimento Black Lives Matter, e assumere di nuovo, sulla base di una forza materiale cresciuta enormemente rispetto a un secolo fa, il compito storico di classe rivoluzionaria.

Il governo Draghi è un passaggio ulteriore di questa discesa agli inferi cominciata decenni fa e mai interrotta nonostante le ripetute promesse di “ripresa” e “sviluppo” benefico per tutti, formulate volta a volta dai Berlusconi, Prodi, Bossi, Grillo, Renzi, Salvini, e dallo stesso re taumaturgo Draghi, incapace anche lui di fare il miracolo di tirare fuori il capitalismo dalla spirale di crisi di intensità e raggio crescenti (per rendersi conto di questa incapacità, basta leggere i suoi “memorabili” discorsi raccolti dai lacché del Foglio e confrontarli con l’effettivo andamento delle cose).

Per questo motivo si tratta di chiamare la classe lavoratrice alla lotta contro l’esecutivo Draghi, l’asse governo/Confindustria, l’UE che sorveglia l’operato dell’esecutivo in nome e per conto dei suoi creditori usurai, con la BCE in testa.

Nell’immediato il passaggio per cui attrezzarci è quello della lotta contro i licenziamenti di massa dei lavoratori e delle lavoratrici con contratti a tempo indeterminato che prenderanno corpo in un contesto di pesantissima precarietà, bassi salari e crescente inflazione (finora camuffata), e di frenetica repressione delle lotte in corso.

La piattaforma classista di difesa attiva da questa aggressione va centrata sui seguenti punti che hanno l’obiettivo di unificare i settori colpiti più duramente tra loro e alla sezione di classe più stabile – un tema fortemente sentito dal SI Cobas, dalla Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi e dal Patto d’azione anti-capitalista per il fronte unico di classe:

1) difesa dei posti di lavoro – per il proletariato nessun licenziamento è giustificato. Questa difesa ha uno speciale valore per le donne perché la perdita del lavoro rischia di chiuderle totalmente entro il “carcere domestico” sottraendole alla socializzazione di classe.

2) riduzione generale e drastica dell’orario di lavoro a parità di salario (in risposta all’intensificata torchiatura del lavoro e al dilagare di precarietà e disoccupazione), e salario medio operaio garantito a tutti i/le precari/e e disoccupati/e.

3) contro il tendenziale abbassamento di molti salari al di sotto dello stesso livello di sussistenza, che porta da un lato alla miseria e dall’altro all’allungamento degli orari di lavoro, salario di sussistenza, perché non si deve lavorare al di sotto di una certa paga oraria che garantisca un livello di vita dignitoso ad orari e carichi di lavoro che siano tollerabili – un salario che sia almeno pari al salario medio operaio garantito;

4) indicizzazione dei salari con un nuovo meccanismo egualitario di scala mobile, indispensabile per recuperare il salario perduto dall’abolizione del punto unico di contingenza, ancor più indispensabile in previsione di un ritorno dell’inflazione;

5) lavori socialmente necessari o utili come sbocco d’impiego per i disoccupati, quali la messa in sicurezza dei territori, la bonifica delle aree inquinate, la cura del verde pubblico e dei grandi parchi urbani, i servizi di igiene ambientale, l’opera di prevenzione dei roghi e degli sversamenti illeciti, la rimessa in sesto dei quartieri periferici, etc. (obiettivi proposti a Napoli dal Movimento 7 novembre).

Tale piattaforma si contrappone alle decisioni padronali e ai provvedimenti che il governo Draghi ha in cantiere, anzitutto la riforma degli ammortizzatori sociali che il governo getterà sul tappeto come contrappeso all’incremento della disoccupazione.

Si presenta con l’accattivante aggettivo “universale”, ma a quel che trapela abbasserà i livelli di copertura, già insufficienti, dell’attuale cassa integrazione e porrà stringenti limitazioni di tempo.

Com’è avvenuto coll’introduzione dell’assegno familiare unico universale: ha esteso la platea ad autonomi e disoccupati riducendo però, a quel che pare, l’attuale importo medio per le famiglie operaie.

L’una e l’altra misura sono comunque a carico della fiscalità generale, in larga misura della classe proletaria, quindi, chiamata a dar assistenza pure ai piccoli accumulatori.

Laddove la piattaforma di lotta che noi sosteniamo contiene la rivendicazione della patrimoniale del 10% sul 10% per finanziare una vera medicina preventiva (a cui Draghi non ha lasciato neppure le briciole), i lavori socialmente utili, il salario garantito a disoccupati e disoccupate.

Nel 1922 il Pcd’I prevedeva che “l’indennizzo” per i lavoratori licenziati e le loro famiglie fosse a carico della “classe industriale” e dello stato insieme; noi, per ragioni che abbiamo argomentato altrove, riteniamo che debba essere a totale carico della classe capitalistica, anche attraverso l’integrale detassazione del salario di sussistenza e l’assoggettamento di profitti e rendite a un’imposta fortemente progressiva.

Quanto alle forme di lotta, possono essere tutte utili – dai picchetti agli scioperi di filiera, dall’occupazione di fabbriche o magazzini alle campagne di boicottaggio, alle manifestazioni, etc. – l’essenziale è che servano a collegare e compattare le forze, anziché a disperderle.

E che si mettano in grado di fronteggiare con le necessarie misure organizzative gli interventi repressivi dello stato e dei padroni, che già avvengono a colpi di manganelli, lacrimogeni, denunce, fogli di via, ritorsioni su permessi di
soggiorno e diritti di cittadinanza.

La lotta alla repressione non sta a sé, non va affidata agli “specialisti” del diritto –
fermo restando che bisogna difendere con le unghie e con i denti gli spazi di libertà che la nostra classe ha conquistato.

La lotta alla repressione padronale e statale è più che mai parte integrante della nostra battaglia, e richiede un’azione di contrasto di massa incentrata sul criterio “chi tocca uno, tocca tutti”.

Come lo è la lotta contro i decreti Salvini, Minniti e tutta la legislazione speciale apprestata da decenni contro i lavoratori immigrati e i richiedenti asilo, di cui non dobbiamo stancarci di chiedere la abolizione totale in quanto legislazione classista e razzista, il cui scopo è creare un fossato tra proletari autoctoni e immigrati per sfruttare e opprimere di più gli uni e gli altri.

Lotta contro i licenziamenti, la disoccupazione e la precarierà; lotta alla repressione statale e padronale; lotta per l’abolizione della legislazione speciale contro i fratelli e le sorelle di classe immigrati e, in prima istanza, per il permesso di soggiorno europeo incondizionato a tutti/e gli immigrati, sganciato dal contratto di lavoro; sono tutt’uno con la lotta per l’autodifesa della salute sui posti di lavoro, con il potenziamento dei poteri e delle funzioni ispettive degli RLS, e nella vita sociale; con la lotta per un servizio sanitario pubblico, realmente universale e gratuito, fondato sul principio “la salute non è una merce, e non si monetizza”, e la prevenzione delle malattie e degli infortuni deve essere la priorità; un servizio sanitario in cui trovino piena soddisfazione tutti i bisogni delle donne e delle popolazioni immigrate, spesso negati.

La lotta contro il governo dovrà vederci impegnati con altrettanta determinazione nella denuncia e nelliniziativa contro il suo aggressivo atlantismo, il suo militarismo, l’incremento delle spese per la produzione di morte, i campi di concentramento creati in Africa del Nord, per aver sguinzagliato le truppe italiane in più di venti missioni militari all’estero, per l’appoggio all’azione colonialista e razzista dello stato di Israele, etc.

Ed è evidente, almeno per noi, che la lotta al governo Draghi sarebbe monca senza un’azione di denuncia del ruolo dell’Unione europea all’interno e al di fuori dei confini europei, e per sprigionare appieno la sua efficacia richiede il coordinamento a livello internazionale tra settori di lavoratori in lotta e organismi sindacali militanti.

Nessun aspetto dell’attacco che sta sferrando il governo Draghi è soltanto “italiano”, e nessuna difesa può essere efficace se si chiude entro la ridotta nazionale. L’impatto straordinario dell’ultima Intifada palestinese lo ribadisce a chiare lettere.

Si può vincere solo con la più ampia e determinata auto-organizzazione degli sfruttati alla scala internazionale, solo con l’internazionalismo proletario contrapposto al capitale globale.

Dopotutto il covid-19 è solo uno dei tanti virus in giro per il mondo.

Ma il virus dei virus da debellare è il sistema sociale capitalistico.

 

 

 

 

 

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