di Francesco Veronese.
È un saggista, giornalista, traduttore (tra gli altri di George Soros, Christopher Hitchens e Robert Reich) e autore di documentari. Scrive di questioni europee per varie testate italiane e straniere. Collabora con la rete della società civile Sbilanciamoci! Il suo sito è thomasfazi.net
Domanda: Tutti i partiti si sono appiattiti di fronte a Draghi, il consenso è al 100% compresa la Meloni che si astiene.
Dopo il Recovery Fund e/o il MES, poi ci saranno i famosi tre punti sostanziali:
- aumento tasse su immobili con revisione catasto;
- taglio pensioni;
- abolizione del contante e imposizione della moneta elettronica con controllo totale (se dissenti clic, sei spento e non compri nemmeno il pane o un farmaco salvavita).
Farà Draghi il lavoro sporco di provocare lacrime e sangue e di distruzione di ciò che è rimasto dell’industria italiana o lo farà fare ad altri magari puntando alla Presidenza della Repubblica?
Risposta: Purtroppo in Italia c’è rimasto proco da privatizzare, ahimè. Penso che un’indicazione di quella che sarà la filosofia che guiderà l’operato di Draghi al governo la possiamo rintracciare nella sua ultima uscita pubblica, ovvero il recentissimo rapporto sulle politiche post-COVID redatto dal G30 – ufficialmente un think tank, fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978, che fornisce consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale, secondo molti un centro di lobbying dell’alta finanza – presieduto proprio da Draghi insieme a Raghuram Rajan, ex governatore della banca centrale indiana.
In esso si dice chiaramente che i governi non dovrebbero sprecare soldi per sostenere le aziende che purtroppo sono destinate al fallimento, definite nel rapporto «aziende zombie» – pensiamo per esempio, per quello che riguarda l’Italia, alle centinaia di migliaia di negozi e di esercizi pubblici messi in ginocchio dalla pandemia e dalle relative misure di contenimento della stessa e solo parzialmente puntellati dagli insufficienti “ristori” del governo –, ma dovrebbero piuttosto assecondare la “distruzione creativa” del libero mercato, lasciando queste aziende al loro destino e favorendo lo spostamento dei lavoratori verso le imprese virtuose che continueranno a essere redditizie e che si svilupperanno dopo la crisi.
La tesi di fondo è che il mercato debba essere lasciato libero di agire (perché più efficiente del settore pubblico) e che i governi dovrebbero limitarsi a intervenire solo in presenza di conclamati «fallimenti del mercato» – concetto intrinsecamente liberista che sta a indicare una deviazione rispetto alla normale “efficienza” del mercato, mentre laddove è un’impresa a fallire per il “naturale” operato del mercato, lo Stato non dovrebbe mettersi di traverso.
Nel documento del G30 ci si concentra anche sul mercato del lavoro, scrivendo che «i governi dovrebbero incoraggiare aggiustamenti nel mercato del lavoro […] che richiederanno che alcuni lavoratori dovranno cambiare azienda o settore, con appropriati percorsi di riqualificazione e assistenza economica».
Il messaggio è chiaro: i governi non dovrebbero cercare di impedire le espulsioni di forza-lavoro dalle aziende destinate al fallimento, come in Italia e in diversi altri paesi si è tentato finora di fare, in parte, con il blocco dei licenziamenti (in scadenza a marzo) e il largo ricorso alla cassa integrazione. Piuttosto, dovrebbero assecondare e agevolare questo processo per permettere al mercato di provvedere ad una “efficiente” allocazione di risorse (tra cui gli esseri umani). Insomma, credo che da Draghi possiamo aspettarci «una visione “schumpeteriana” in salsa liberista che rischia di lasciare per strada una marea di disoccupati», come scrive l’economista Emiliano Brancaccio. La nomina del noto economista liberista Francesco Giavazzi come consigliere economico di Palazzo Chigi sembrerebbe confermare questa linea.
Domanda: Cosa pensi sia successo che ha provocato il voltafaccia di Borghi, Bagnai, Rinaldi.
Non credo che “tradimento” sia la parola giusta. Dando per assunta la buona fede delle persone in questione, cosa che non ho motivo di dubitare, credo si tratti piuttosto del naturale epilogo di un errore strategico di fondo, cioè che la Lega potesse abbracciare realmente la causa della fuoriuscita dell’Italia dall’euro. Parliamo in fondo di un partito storicamente europeista e il cui zoccolo duro ancora oggi rimane il mondo delle piccole e grandi imprese del Nord Italia orientate all’export, le quali sono pienamente integrate nella catena del valore europeo (cioè, tedesco) e beneficiano delle politiche europee volte alla compressione salariale.
E i rappresentanti locali di questo blocco, i potenti presidenti di regioni quali la Lombardia, il Veneto ed il Friuli Venezia Giulia, mantengono ancora una notevole influenza all’interno del partito. Per dare un’idea della divisione interna al partito sulla questione europea, basti ricordare che uno dei pesi massimi della Lega, Roberto Maroni – ex leader del partito e già presidente della Regione Lombardia –, ha recentemente proposto la creazione di un’ Europa federale. La stessa proposta di autonomia regionale – fortemente auspicata dalla base “nordista” della Lega – è perfettamente in sintonia con i progetti di regionalizzazione che da sempre fanno parte della strategia dell’Unione europea e che mirano a creare un rapporto diretto tra regioni (e cosiddette “macroregioni“) e istituzioni UE, bypassando (ed indebolendo ulteriormente) i governi nazionali. Un fatto che cozza con le credenziali suppostamente “sovraniste” del partito. Questo potrebbe spiegare l’atteggiamento in certo qual modo schizofrenico della Lega nel corso dell’esperienza di governo Conte I.
Ad esempio, la controversa idea della Lega di emettere dei titoli di Stato di piccolo taglio, i cosiddetti “minibot“, per pagare i debiti detenuti dal settore pubblico nei confronti dei suoi fornitori privati – un’idea inizialmente proposta dal portavoce economico della Lega Claudio Borghi – è stata affossata proprio da un altro esponente di spicco della Lega, Giancarlo Giorgetti (segretario del Consiglio dei Ministri nel governo M5S-Lega e rappresentante dell’ala filo-europea del partito).
La natura multicefala della Lega potrebbe anche spiegare perché Salvini, che ha esplicitamente contestato il MoVimento 5 Stelle su tutto, non abbia mai sollevato pubblicamente il problema dell’eccessiva deferenza del suo alleato di governo nei confronti di Bruxelles. Oggi mi pare che si possa dire che il blocco europeista del partito ne abbia definitivamente ripreso le redini, come dimostrano i membri del partito scelti da Draghi del governo, tutti provenienti da quella compagine. Quindi capisco che qualcuno possa aver creduto in buona fede che quel partito potesse farsi sinceramente portavoce delle istanze sovraniste, ma direi che si è trattato, nella migliore delle ipotesi, di un’ingenua illusione.
Domanda: Visto quanto avvenuto nell’ambito del sovranismo, pensi che i voltafaccia non siano ancora finiti?
Risposta: Certamente. Oggi vedo molti delusi dalla nuova linea europeista della Lega buttarsi sulla Meloni. Ma in questo caso la delusione è assicurata visto che la Meloni non fa neanche finta di essere sovranista. Noi di Italexit abbiamo scelto di caratterizzare in maniera molto netta la nostra posizione sull’Europa, fin dal nome – invece di optare per soluzioni più “inclusive”, come suggerivano alcuni – proprio per “autovincolarci” a quell’obiettivo, da cui a questo punto non possiamo retrocedere pena la perdita di senso del progetto stesso.
Domanda: Come vedi le prossime elezioni del Presidente della Repubblica? Draghi, secondo te ci sta puntando?
Risposta: Mi pare evidente che il progetto sia quello. Ormai la figura del presidente della Repubblica ha assunto un potere enorme, configurandosi effettivamente come garante non più della Costituzione ma della permanenza dell’Italia nel sistema UE-euro. In questo senso insignire Draghi di quel ruolo vuol dire garantirsi – salvo eventi eccezionali – la stabilità del sistema per altre sette anni almeno.
Commenta per primo