di Ilenia Sbrugnera
Inclusione è una parola polifonica: racchiude in sé tanti significati e al tempo stesso è ancora una sfida aperta. Si riferisce a fare le cose assieme e a dare a tutti la possibilità di partecipare alle attività di un determinato contesto, ma al tempo stesso è anche un diritto fondamentale, a prescindere dalle condizioni e dalle singole capacità individuali. Come afferma Jurgen Habermas (storico, filosofo e sociologo tedesco): “Inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche, e soprattutto, a coloro che sono reciprocamente estranei o che estranei vogliono rimanere”.
Entrando nel dettaglio, quando parliamo di inclusione sociale ci riferiamo alla società stessa e alle attività inclusive che realizza. La finalità è quella di garantire l’inserimento di ciascun individuo, senza contare la presenza di elementi limitanti quali possono essere, ad esempio, la disabilità, la nazionalità o la povertà.
In quest’ottica, dunque, l’inclusione si riferisce a tutti gli individui e riguarda tutte le differenze, porta al cambiamento del sistema culturale e sociale per favorire la partecipazione attiva e completa, mirando all’ eliminazione di ogni tipo di discriminazione. Inoltre, tende alla costruzione di contesti inclusivi e si pone a distanza rispetto alla concezione di “abilismo” e di “normativa”.
Il concetto di inclusione non vuole negare la presenza di disabilità o menomazioni (che devono essere trattate in maniera adeguata), ma sposta l’attenzione al contesto per individuarne gli ostacoli e per operare per la loro rimozione. Il fine, infatti, è promuovere condizioni di vita dignitose e un sistema di relazioni soddisfacenti nei riguardi di persone che presentano difficoltà nella propria autonomia personale e sociale, in modo che esse possano sentirsi parte di comunità e di contesti relazionali dove poter agire, scegliere, giocare e vedere riconosciuto il proprio ruolo e la propria identità.
Tuttavia, indipendentemente dalla loro natura, i vari tipi di disabilità tendenzialmente limitano l’autonomia di movimento della persona determinando una condizione di sedentarietà che finisce poi per ripercuotersi negativamente sullo stato di salute dell’individuo. Ecco perché lo sport può diventare uno strumento prezioso per abbattere la barriera della sfiducia in se stessi, far crescere l’autostima e acquisire sicurezza. Perché frequentare palestre e piscine, aiuta a migliorare la percezione delle reali potenzialità positive del proprio corpo, anche se limitato nelle funzioni.
Tra le parole straniere ormai di uso corrente possiamo citare “empowerment”, un termine che letteralmente significa “potenziamento” e “responsabilizzazione”. Per l’essere umano, avere potere su se stesso e godere di una buona autostima permette di percepirsi come persone capaci di cimentarsi in qualcosa e di riuscire ad ottenere dei risultati. Un’ottica basata sull’empowerment, dunque, prevede interventi di sostegno e proposte di nuove opportunità sociali per generare alternative in modo immediato, così come attività volte a far conoscere come e dove avere accesso alle risorse e a far incrementare la motivazione.
Non a caso, dunque, il Comitato Paralimpico Internazionale dello Sport ha definito l’empowerment come un tema di ricerca prioritario all’interno del settore della disabilità sportiva e come il “processo attraverso il quale gli individui sviluppano le competenze e le capacità di ottenere il controllo sulla propria vita e di intervenire per migliorare la loro situazione di vita”. Questo perché lo sport è considerato di per sé un insegnamento di valori positivi, uno strumento ottimale per costruire un carattere e un fisico più forti e maturi.
Per un disabile, quindi, la pratica regolare dell’attività sportiva aiuta ad incrementare la conoscenza del proprio corpo, dello spazio, del tempo e della velocità, incrementa la forza muscolare, la capacità di equilibrio, la cinestesia e la coordinazione motoria e permette di acquisire le conoscenze tecniche delle varie discipline sportive. Senza dimenticare che lo sport produce anche uno stato di soddisfazione generale, favorisce la disciplina, l’allenamento e la capacità di autocontrollo e aumenta l’autonomia individuale.
Negli ultimi 10-15 anni, tuttavia, si è parlato molto anche di turismo accessibile, ovvero l’insieme di servizi e di strutture che consentono a clienti con esigenze speciali di fruire delle vacanze e del tempo libero senza ostacoli né difficoltà. Parliamo di persone con mobilità ridotta, non vedenti e ipovedenti, non udenti o ipovedenti, sordocieche o con problemi dietetici, di orientamento e di comunicazione.
Tutti i turisti (anche quelli con disabilità e con esigenze specifiche), infatti, hanno diritto all’inclusione, alla partecipazione, al comfort, al divertimento, alla sicurezza ed alla informazione. E questi diritti devono essere garantiti attraverso la realizzazione di un sistema turistico in grado di accogliere e ospitare tutti e che agisca su più fronti. In altre parole: non esiste la nicchia del turismo accessibile, ma esso è completamente trasversale a tutte le tipologie di turismo.
In attuazione degli artt. 7 e 30 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini e delle persone con disabilità è considerato atto discriminatorio “impedire alle persone con disabilità di fruire, in modo completo ed in autonomia, dell’offerta turistica, esclusivamente per motivi comunque connessi o riferibili alla loro disabilità”. Lo Stato, infatti, deve promuovere la fattiva collaborazione tra autonomie locali, enti pubblici, operatori turistici, associazioni di rappresentanza delle persone con disabilità e organizzazioni del Terzo Settore. Sviluppando, altresì, anche azioni mirate di sensibilizzazione sugli aspetti del Turismo Accessibile rivolte a coloro che operano in ambito turistico.
Ciò non è semplice e richiede di fatto una capacità di visione che sappia uscire dal proprio micro-cosmo, nonché la consapevolezza che si tratta di un percorso non breve, che necessita di energie e di risorse. Significa andare oltre l’erogazione dei servizi alla persona per assumere un ruolo di responsabilità all’interno di possibili processi inclusivi, con il fine ultimo di rendere la realtà della disabilità una delle tante che interagisce con altre realtà. Garantire la professionalità all’interno dei servizi deve risultare, quindi, il punto di partenza e non quello di arrivo: è il livello minimo da garantire per andare oltre l’erogazione di servizi e per promuovere percorsi che consentano un reale miglioramento nella qualità di vita delle persone con disabilità e delle loro famiglie.
È ciò che permette il passaggio da una visione di risposta parcellizzata o di risposta all’emergenza del problema ad una visione progettuale e di lungo termine. È il progetto di vita. Per concludere, dunque, agire concretamente sul territorio significa creare occasioni d’incontro, scambio, conoscenza, condivisione e dialogo. Vuol dire promuovere occasioni di inclusione sociale e di sensibilizzazione ponendo l’accento non solo sulla condizione di disagio, ma soprattutto sulla ricerca di un benessere comune, come punto d’arrivo supremo.
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