di Gioele Valenti
Da Darwin in giù, passando per la sociologia malthusiana e finendo nelle sacche sulfuree di ambiti d’intolleranza travestita da progressismo, di fascismo dell’antifascismo (per dirla con Pasolini), scendendo giù giù lungo una linea di discendenza neoliberista, che tutto àncora alla finanza internazionale, giungiamo così alle forre del realismo capitalista, che così bene Mark Fisher ha codificato nella sua critica radicale all’universo del capitale alienante, dove la capacità critica è bandita – ma sarebbe più giusto dire, è stata azzerata – e dove l’autoritarismo scientista tiranneggia su tutto e tutti. A svettare dunque su una struttura produttiva che fa del cannibalismo tra classi la sua forza propulsiva, dell’invidia sociale il suo carburante, della competizione l’unica dinamica possibile, sta una sovrastruttura di immanenza assoluta, molto simile a una teurgia della natura, non come ente senziente, bensì come inerte proscenio su cui consumare la sopraffazione del forte sul debole, e che come tutte le religioni ha bisogno di casta sacerdotale e riti propiziatori.
Così non è difficile scorgere nelle dichiarazioni di “alto profilo istituzionale”, i nuovi sacerdoti all’opera entro una matrice riconoscibile, una una koiné cinica e disumanizzante, se prendiamo le incredibili parole di Mario Monti sull’opportunità di chiudere le aziende considerate improduttive e tenere in piedi quelle invece più forti, finirla con i ristori e iniziare a fare sul serio, così come del resto sostenuto dall’altro aedo dei poteri forti che ci è toccato in sorte, Mario Draghi, nato postkeynesiano e fulminato sulla via del neoliberismo più spinto. Echi angosciosi di un passato non poi così lontano balenano alla memoria, sul sottile discrimine tra cosa è produttivo e cosa va eliminato, cosa è organico al sistema o invece disfunzionale, e con il corollario estetizzante dell’assenza di pietà. A forme dunque improntate ad una selezione naturale, che in questo caso è invece profondamente culturale e schiettamente eterodiretta, corrisponde pure un’impennata nell’assenza di decoro istituzionale, a sentire un Walter Ricciardi qualunque che vuole continuare a suggerire lockdown eterni, spingendosi addirittura a invocare la fucilazione per negazionisti e no vax.
Negli anni ‘70, quando esisteva una coscienza di classe, politici e giornalisti, prima di fare dichiarazioni di questo tipo (ricordiamo la Lucia Annunziata che dal canale RAI, invitava il governo a torcere il collo al dissenziente?) ci avrebbero pensato cento e cento volte, tanto la coscienza collettiva era sensibile a revival dispotici e prontamente reattiva ad ogni spinta lontanamente eversiva. Fin qui ci siamo spinti nella narcosi collettiva, e nell’ipersaturazione di bassezza morale e qualunquismo politico?
Dal caso Palamara – recuperato poi spettacolarmente, nel tentativo palese di depotenziarne il contenuto criminale – all’omissione dei protocolli medici domiciliari, che tante persone avrebbero potuto salvare, ciò che viene meno è appunto la naturale spinta all’indignazione, al conato contro un potere che sta veramente travalicando i confini della decenza e ci sta spingendo verso un punto dal quale sarà difficile tornare, visto la tendenza naturale delle istituzioni a inglobare l’eccezione, normalizzare l’emergenza, e renderla consustanziale ad una logica di sistema tout court. Di rane bollite e finestre di Overton, ne abbiamo francamente le tasche piene.
Se mai tutto questo dovesse finire, guarderemo a questo periodo storico come uno dei momenti più bassi del bipede chiamato uomo, un’inversione storica che ripercorre gli stadi dell’evoluzione a ritroso.
Dal sapiens alla scimmia, senza offesa per il primate.
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