Abbattere i partiti per abbattere la democrazia

Per imporre i dogmi dell’oligarchia tecno-finanziaria bisognava distruggere i luoghi di selezione, formazione e organizzazione delle classi dirigenti popolari.

di Marco Moiso

Il fenomeno sociopolitico più pericoloso del nostro secolo è l’involuzione antidemocratica che sta attraversando la società occidentale. Questa involuzione è stata attuata anche grazie alla destabilizzazione dei luoghi di organizzazione, selezione e formazione della classe dirigente: i partiti. L’attacco sistematico alla credibilità dei partiti, e del sistema politico, è servita a convincere la popolazione che i luoghi in cui la rappresentanza popolare si organizzava fossero corrotti, che le soluzioni proposte dai partiti fossero tutte uguali e che fosse più opportuno credere all’approccio scientista degli economisti che alle visioni sociali di politici e filosofi. Il vilipendio dei partiti è stato quindi funzionale all’affermazione del modello sociale sviluppato già a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 del XX secolo da Friederick A. von Hayek e che vedeva l’economia imporsi come disciplina imprescindibile e infallibile al di sotto della quale l’azione politica doveva limitarsi ad una funzione meramente amministratrice. Von Hayek, con l’impianto filosofico-economico oggi chiamato neoliberismo, sosteneva che le ideologie dovessero essere superate in quanto incompatibili con l’indipendenza dei mercati nei confronti degli interessi economici della collettività. Per la realizzazione dell’impianto sistemico di von Hayek i partiti, intesi come luogo di sviluppo e promozione di ideologie, dovevano necessariamente essere combattuti. Questo abbattimento non poteva essere attuato nell’immediato dopoguerra. Il modello economico keynesiano, che vigeva all’epoca, vedeva nello Stato e nella partecipazione democratica un motore per lo sviluppo della società e dell’economia.

L’attacco alla democrazia sostanziale – poggiata sull’attività dei partiti – può essere organizzato solo trent’anni dopo, alla fine di quello che viene ancora ricordato come il Trentennio Glorioso, quando diversi gruppi di interesse cominciano a riscontrare nelle democrazie, e nella loro tutela dell’interesse pubblico, un ostacolo al perseguimento di interessi economici apolidi e spesso antisociali. Nel 1975, la Trilateral Commission pubblica un inquietante documento dal titolo: The Crisis of Democracy. Report on the governability of democracies to the Trilateral Commission. In questo pamphlet dal titolo ingannevole, decine tra le persone più influenti in America, Europa e Asia lamentano l’eccesso di democrazia che si è andato a sviluppare nel dopoguerra e pianificano una involuzione antidemocratica, usando economia e finanza come strumento di controllo dell’attività politica. È da quel momento, e grazie alle crisi petrolifere degli anni ’70, che si mette in discussione il modello economico keynesiano: le nuove regole della finanza globale delegittimano la libertà dell’iniziativa politica. I nuovi dogmi scientisti della teocrazia economica neoliberista vengono prima testati nei Paesi africani e poi esportati nel mondo occidentale grazie all’elezione di Margaret Thatcher, prima, e di Ronald Reagan, poi. La famosa frase di Margaret Thatcher “there is no alternative” significa proprio questo: non c’è altra alternativa al primato dei mercati sull’azione politica. Eppure, non sono le forze conservatrici, da sole, a guidare l’involuzione antidemocratica alla fine del ‘900; tale operazione sarebbe risultata troppo evidente ed avrebbe permesso al popolo di reagire in maniera unitaria.

Sono invece le forze sedicenti progressiste ad agire sui due fronti che più causano l’involuzione antidemocratica che oggi stiamo vivendo: da una parte realizzano una globalizzazione sbagliata, presentandola sotto le vesti di quella che invece avrebbe potuto davvero essere la globalizzazione di libertà, giustizia sociale e democrazia; dall’altra sviliscono e mortificano sistematicamente il ruolo della politica nella società. In effetti, la maggior parte delle vittorie sistemiche globali e nazionali vengono portate a segno da finti progressisti: la Firma che porta alla costituzione del WTO nel 1994 a Marrakech, la cancellazione del Glass Steagal Act negli U.S.A., l’espropriazione delle politiche monetarie dal parlamento britannico a vantaggio della Commissione dei Nove in U.K.; la guerra senza quartiere a debito pubblico e inflazione in Italia, sono tutte operazioni messe in campo da sedicenti forze progressiste. Alle riforme antisociali di carattere economico viene accompagnato anche un vile attacco alla politica, intesa come strumento utile a tutelare gli interessi del popolo.

In Italia, a causa del colpo di Stato bianco chiamato Tangentopoli, abbiamo un esempio lampante di come si possa fare fuori una intera classe dirigente e contemporaneamente insinuare una sfiducia sistemica nella politica. È la sfiducia nata negli anni ‘90 a creare i cortocircuiti culturali di oggi: a fronte di una insufficiente rappresentanza popolare tagliamo il numero dei parlamentari, raddoppiando il numero di cittadini che questi devono rappresentare; a fronte dell’inadeguatezza degli “onorevoli” si pensa di diminuire i loro stipendi, rendendo quel lavoro poco appetibile per coloro il cui valore è stato già riconosciuto altrove; e a fronte della necessità di combattere potenze economiche apolidi e private si tagliano i vitalizi ai parlamentari, creando nei politici la necessità di tornare a bussare ai portoni dei poteri che dovrebbero combattere, alla fine del mandato. Per ultimo, di fronte alle intromissioni del mondo finanziario nella politica si tagliano i finanziamenti pubblici ai partiti, consentendo solo a chi riceve finanziamenti condizionati di organizzare campagne elettorali.

Viene costruita intorno ai partiti una narrativa mendace e contraria agli interessi del popolo: I partiti, da strumento del popolo, diventano nemico del popolo. Ecco l’ennesima, grande vittoria del neoliberismo: minare la volontà della collettività di organizzarsi e rappresentare i propri interessi. Per combattere il primato della finanza sulla politica dobbiamo ricominciare a organizzarci. I sondaggi indicano che sempre più persone vogliono “l’uomo solo al comando”. La teoria del consolidamento democratico sembra sgretolarsi, dimostrando come la democrazia sia una anomalia storica da difendere con ogni mezzo. C’è bisogno, oggi più che mai, di risvegliare lo spirito critico nelle persone e risvegliare la consapevolezza che la mancanza di democrazia, libertà e giustizia sociale non si combatte rinunciando ai luoghi di rappresentanza, ma rivendicando il ruolo che ci spetta in qualità di latori pro quota di sovranità popolare. C’è bisogno, oggi più che mai, di organizzare partiti forti, strutturati, radicati nel territorio e determinati a rifiutare la logica nominalistica dell’uomo solo al comando, anche all’interno dei partiti stessi. I partiti non possono essere ridotti alla voce di un uomo, devono tornare ad essere lo strumento del popolo, accettando correnti e democrazia interna; dando esempio pratico della società che si vuole creare. La riscoperta del valore dei partiti è fondamentale per l’organizzazione di una risposta consapevole e duratura, poiché la democrazia è in pericolo.

 

 

 

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