di Francesco Carraro
L’emergenza Covid ha riproposto, con prepotenza, un quesito: il nostro Sistema Sanitario è diventato un’emergenza nazionale? La grande stampa si dedica spesso alla questione e, in particolare, a uno dei suoi aspetti più inquietanti: la penuria di medici. È un fenomeno reale, e in allarmante aumento, tale da far ritenere che, in futuro, non ci saranno cure a sufficienza per tutti. Ma i dottori sono solo la punta di un iceberg molto più grande e di una sofferenza assai più profonda; che riguarda non solo i camici bianchi, ma anche gli infermieri, le strutture e gli stessi malati. In dieci anni, secondo l’associazione dei medici e dirigenti del sistema sanitario, sono stati tagliati 70.000 posti letto. Inoltre, abbiamo 6 infermieri per 1.000 abitanti contro i 13 della Germania. Dagli anni Ottanta a oggi siamo passati da 642 unità locali sanitarie a 101 Asl e abbiamo perso 175 nosocomi.
Di fronte a una simile “Caporetto”, indagare le cause è doveroso. La prima, la più evidente, e in qualche modo ovvia, è legata ai quattrini. Cioè ai tagli brutali alla spesa sanitaria effettuati indiscriminatamente negli ultimi lustri e al contemporaneo crollo degli investimenti pubblici. Dal 2013 al 2017 la spesa sanitaria pubblica è aumentata appena del 2 per cento, mentre quella privata ha messo il turbo: +9,6 per cento. Allargando l’orizzonte temporale, dal 2010 al 2018, la spesa sanitaria pubblica, rispetto a quella complessiva, è percentualmente diminuita, passando dal 78,5 per cento al 75 per cento, mentre quella sanitaria privata è aumentata, passando dal 21,5 al 25 per cento (in base all’ultima relazione della Corte dei Conti citata da un’indagine Istat dell’aprile 2019).
Significa che – su 6,7 miliardi di incremento di spesa sanitaria – il 95 per cento è stato sopportato da privati e famiglie e appena il 5 dallo Stato. Tuttavia, questi sono ancora, e solo, numeri che fotografano le cause prossime e più evidenti di un fenomeno, ma ci nascondono quelle più remote e occulte. Non c’è dubbio che i tagli alla spesa pubblica siano un cascame collaterale del culto della spending review. Ma ciò non basta a spiegare l’ostinazione con cui i nostri politici si accaniscono sul SSN. Anche perché in Italia non si tagliano solo gli sprechi, ma si risparmia su tutto, persino sui farmaci salvavita. E anche perché, se paragonata con altri “virtuosi” paesi europei, la nostra percentuale di spesa pubblica su PIL è pari ad appena il 6,5 per cento, contro il 9,6 per cento della Germania, il 9,5 per cento della Francia e il 9,1 per cento della Svezia. E allora cos’altro c’è dietro? Semplice: il mercato delle assicurazioni.
Le corporation operanti nel ramo della sanità integrativa (il cosiddetto “secondo pilastro”) e delle polizze malattie e infortuni (il cosiddetto “terzo pilastro”) guardano con grandissimo interesse al business del salute cui è stato attribuito anche un nome ben preciso: white economy (economia bianca). Non è un caso che molti dei report, degli studi, delle analisi degli ultimi anni siano stati realizzati da compagnie di assicurazione. Le quali hanno idee molto chiare su come risolvere il problema. Esse segnalano l’emergenza di cui sopra e, contestualmente, offrono la soluzione: più polizze per tutti.
Nel dossier RBM Censis 2018 si legge: “Secondo le ultime stime dalla Ragioneria Generale dello Stato, di qui al 2025 saranno necessari dai 20 ai 30 miliardi di euro aggiuntivi per finanziare i nuovi bisogni di cura dei cittadini italiani”. E poi, a seguire: “In questa prospettiva appare chiaro che se non si avvierà anche nel nostro Paese un Secondo Pilastro Sanitario, attraverso un sistema di polizze e Fondi Sanitari aperti a tutti i cittadini, il costo delle cure che i cittadini dovranno pagare di tasca propria finirà per superare (nel 2025) oltre 900 euro a testa”.
Quindi, possiamo serenamente, e oggettivamente, affermare che – quanto più la politica taglia le risorse alla sanità pubblica – tanto più crescono le opportunità per chi desidera investire in questo settore. Infatti, un cittadino il quale non riceva più le prestazioni in teoria garantite dall’articolo 32 della Costituzione e dalla legge nr. 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, si rivolgerà altrove. Così da trovare una risposta ai bisogni che nascono dalla fuga dei medici, dai biblici tempi di attesa, dalle enormi disparità di servizio tra i vari sistemi regionali.
Che poi in Italia, soprattutto, la white economy sia una prateria tutta da conquistare lo dimostra la scarsa propensione dei nostri concittadini a servirsi dei prodotti assicurativi. Secondo i dati Ocse, nel nostro paese l’out of pocket intermediato (cioè la spesa privata “coperta” da qualche contratto assicurativo), rappresenta appena il 13,4 per cento del totale, mentre in Germania è il 43 per cento, in Francia il 65,8 e negli Stati Uniti il 76,1. Ergo, i tagli al comparto pubblico non vanno letti solo come un dovere per una Repubblica alla canna del gas. E ciò sia perché l’Italia non lo è, sia perché il nostro sistema sanitario era considerato il secondo al mondo, dall’OMS, nel 2000 e il terzo al mondo, da Bloomberg, nel 2014.
Questi tagli vanno dunque, e piuttosto, interpretati come un generoso favore della nostra classe politica al comparto assicurativo privato. A questo punto, le domande da porsi sono due, entrambe di carattere giuridico. La prima: è conforme alla Costituzione ciò che sta accadendo? La seconda: quali garanzie di tenuta offre l’Unione europea rispetto alla vocazione tendenzialmente universalistica, pubblica e gratuita del nostro sistema sanitario? La risposta alla prima domanda è, ovviamente, no: ciò che sta accadendo non è costituzionale. Ce lo ha rammentato una importantissima sentenza del Giudice delle Leggi, la numero 275 del 2016, allorquando venne scritto nero su bianco che i tagli alle spese non possono essere giustificati neppure dalla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio avvenuta nel 2012: la logica del contabile non può prevalere (anzi, deve cedere) davanti a diritti fondamentali della persona come quello della salute. Quanto al secondo quesito, è sufficiente consultare il sito della UE e, in particolare, una interessante e poco conosciuta sezione dedicata al TISA (il trattato di libero scambio sui servizi – pure sanitari – in fase di negoziazione tra UE, USA e altri 21 Paesi). Nella parte delle Q&A (domande e risposte) si legge chiaramente che il TISA non obbligherà gli Stati membri a privatizzare i propri servizi sanitari. E tuttavia – ecco la chicca – “ovviamente, se un paese dell’UE decide di privatizzare in parte o in toto il suo servizio sanitario, è libero di farlo”.
Questa affermazione, in scandaloso contrasto con i principi ispiratori della nostra Carta fondamentale, esprime perfettamente la filosofia di fondo dei futuri Stati Uniti d’Europa. Nonostante non si tratti della norma di un trattato o di un regolamento, essa ci rivela la “filosofia” di un intero modello politico, economico e sociale. Siamo passati, quasi senza accorgercene, da uno “schema” costituzionale in cui la salute è un diritto pubblico per definizione – e il sistema sanitario è, per elezione, universale e gratuito – a una nuova cornice di riferimento in cui anche una soluzione drastica, diciamo pure “all’americana”, è pienamente compatibile con i valori europei. Concludendo, il quadro che abbiamo tratteggiato deve seriamente preoccuparci perché l’emergenza sanitaria di cui parlavamo in apertura non è solo un grave problema sociale o un dato di fatto certificato dalle cifre. È anche una capitolazione della politica agli interessi del grande capitale. Ed è, altresì, una deriva considerata pienamente legittima nel quadro delle nuove “regole” a cui dobbiamo sottostare in quanto partner della UE.
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