In Italia la Democrazia Diretta è fortemente limitata da leggi irragionevoli

La condanna delle Nazioni Unite

di Davide Gionco

La condanna delle Nazioni Unite

Lo scorso novembre 2019 il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha espresso ufficialmente una opinione negativa sulle difficoltà oggettive in Italia a ricorrere agli strumenti di democrazia diretta.


La sentenza fa riferimento alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici entrato in vigore per l’Italia il 23.03.1976, sottoscritto anche dall’Italia, in cui si prevede:

Art. 2, comma 1
1. Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a rispettare ed a garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione.
Art. 2, comma 3
Ciascuno degli Stati parti del presente Patto s’impegna a:

a) garantire che qualsiasi persona, i cui diritti o libertà riconosciuti dal presente Patto siano stati violati, disponga di effettivi mezzi di ricorso, anche nel caso in cui la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali;

b) garantire che l’autorità competente, giudiziaria, amministrativa o legislativa, od ogni altra autorità competente ai sensi dell’ordinamento giuridico dello Stato, decida in merito ai diritti del ricorrente, e sviluppare le possibilità di ricorso in sede giudiziaria;

c) garantire che le autorità competenti diano esecuzione a qualsiasi pronuncia di accoglimento di tali ricorsi.

Art. 25
Ogni cittadino ha il diritto, e deve avere la possibilità, senza alcuna delle discriminazioni menzionate all’articolo 2 e senza restrizioni irragionevoli:
a) di partecipare alla direzione degli affari pubblici, personalmente o attraverso rappresentanti liberamente scelti;
b) di votare e di essere eletto, nel corso di elezioni periodiche, veritiere, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, che garantiscano la libera espressione della volontà degli elettori;
c) di accedere, in condizioni generali di eguaglianza, ai pubblici impieghi dei proprio Paese.

La sentenza è la risposta ad una comunicazione del 2015 avanzata da Mario Staderini e Michele De Lucia, i quali hanno esposto alla suddetta commissione delle Nazioni Unite gli oggettivi impedimenti esistenti in Italia all’attuazione della Democrazia Diretta ovvero alla possibilità che i cittadini possano ricorrere ad un referendum per abrogare una legge dello stato.

La legislazione italiana in materia

Lasciamo al lettore la lettura della sentenza e cogliamo l’occasione per mettere in evidenza gli ostacoli oggettivi che le leggi italiane pongono ai cittadini che intendano avvalersi di quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione:
E` indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il 
referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al 
referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.
La proposta soggetta a 
referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del 
referendum.

Tutto ciò che riguarda il ricorso ai referendum è oggi disciplinato dalla Legge 352 del 1970, la quale pone tutta una serie di vincoli che, di fatto, limitano l’esercizio della sovranità popolare nelle forme di democrazia diretta previste dalla Costituzione.

Il vincolo irragionevole dei 3 mesi senza garanzia di accesso ai mezzi di informazione

Come noto per poter indire un referendum è prima di tutto necessario raccogliere almeno 500 mila firme di elettori (o almeno 5 consigli regionali), come prevede l’art. 75 della Costituzione.
La legge 352/1970 impone, fra le altre cose, che la raccolta debba avvenire in soli 3 mesi (dalla data di vidimazione del funzionario pubblico).
La possibilità di raccogliere 500 mila firme in questo breve lasso di tempo è evidentemente dalla pubblicità mediatica all’iniziativa: chi dispone dell’accesso ai grandi mezzi di informazione (televisioni, radio, principali giornali) ha molta facilità ad informare gli elettori dell’iniziativa, mentre chi non ne dispone ha una oggettiva difficoltà. In assenza di garanzie per il comitato promotore che una iniziativa possa essere adeguatamente pubblicizzata, gli elettori non potranno liberamente decidere se sottoscrivere o meno l’iniziativa. In sostanza la legge 352/1970 favorisce la messa in atto di iniziative referendarie da parte dei grandi gruppi economici che controllano i principali mezzi di informazione e, naturalmente, da parte delle principali forze politiche, che godono di ampi spazi sui mezzi di informazione per presentare le loro istanze, cosa che invece non avviene per un “semplice” comitato di cittadini, che non goda né dell’appoggio dei poteri economici, né dei principali partiti.

Affinché tutti concorrano ad armi pari sarebbe necessario o garantire per legge a tutti l’accesso ai mezzi di informazione per pubblicizzare l’iniziativa o almeno aumentare il tempo consentito per raccogliere le firme, ad esempio da 3 mesi a 6 mesi.
Per evitare che un qualsiasi gruppo di persone, costituitosi come comitato promotore per un referendum non di interesse generale, pretenda di avere accesso alle televisioni pubbliche, si potrebbe stabilire una prima soglia di 50 mila firme raccolte nei primi 3 mesi, che dia diritto ad usufruire di spazi informativi per pubblicizzare l’iniziativa, dando la possibilità di raccogliere nei 3 mesi successivi le restanti 450 mila firme.

Il vincolo irragionevole della necessità di autenticare tutte le firme

L’articolo 75 della Costituzione richiede semplicemente che per indire un referendum occorra la richiesta di almeno 500 mila elettori. L’attuazione della Costituzione richiederebbe, quindi, di non frapporre ulteriori ostacoli, essendo l’esercizio della democrazia diretta un diritto del popolo.
Il fatto di dover esprimere la richiesta di andare a referendum attraverso l’apposizione di firma di fronte ad un pubblico ufficiale, rende il compito della raccolte delle firme particolarmente ostico.

L’autenticazione delle firme è riconosciuta dalla legge a notai, giudici di pace, cancellieri e collaboratori delle cancellerie delle Corti di Appello e dei Tribunali, segretari delle Procure della Repubblica presidenti delle Province, sindaci, assessori comunali e provinciali, presidenti dei Consigli Comunali e provinciali, presidenti e vicepresidenti dei consigli circoscrizionali, segretari comunali e provinciali, funzionari incaricati dal sindaco e dal presidente della provincia, consiglieri comunali e provinciali che comunichino la propria disponibilità, rispettivamente al sindaco e al presidente della provincia.”


Delle varie categorie di “pubblici ufficiale” ve ne sono alcune che lo fanno a pagamento, come i notai, mentre altri, legati ad incarichi politici, non sussistendo obblighi di legge, possono liberamente rendersi disponibili o indisponibili sulla base della convenienza politica del proprio partito. In casi in cui l’iniziativa referendaria sia promossa da un comitato di cittadini in contrapposizione al sistema dei partiti, il rischio di non disporre di autenticatori provenienti dai politici eletti. Ovvero anche in questo caso viene facilitato il ricorso a referendum da parte di chi ha soldi per pagare i pubblici ufficiali o da parte di chi già detiene il potere politico, rendendo il ricorso al referendum più difficile a chi non ha soldi e non dispone dell’appoggio dei partiti.


Vi sono anche dei “funzionari pubblici” che devono per legge autenticare gratuitamente le firme, come ad esempio i segretari comunali, ma questi lo fanno solo se le persone si presentano al loro sportello, non avendo essi alcun obbligo di recarsi ai punti di raccolta delle firme. In genere le firme vengono raccolte nelle piazze e al di fuori delle ore di lavoro, quando gli elettori possono essere facilmente incontrati, spiegando loro le ragioni dell’iniziativa referendaria. Se per apporre la firma è necessario recarsi in orario di lavoro in Comune per firmare di fronte al segretario comunale (o chi per lui), è evidente che la raccolta delle firme risulterà molto più difficoltosa, vanificando il diritto dei cittadini di ricorrere alla democrazia diretta.

Eppure oggi verificare l’identità di una persona è molto semplice

L’introduzione di complesse procedure di verificazione dell’identità degli elettori che intendono sostenere un quesito referendario se poteva essere giustificata nel 1970, di certo non lo può essere oggi. Oggi infatti esistono molti modi per verificare l’identità di una persona, ad esempio la carta d’identità elettronica o il sistema SPID. In Svizzera, molto semplicemente, quando un comune emette una carta d’identità richiede di apporre la firma dell’interessato. In quel modo i funzionari del comune possono facilmente verificare che le firme apposte a sostegno di una iniziativa referendaria corrispondano a quella della persone dichiarata.
Il fatto di doversi necessariamente avvalere di funzionari pubblici per verificare l’identità di chi firma si configura con un irragionevole ostacolo all’espressione della volontà dei cittadini.
Sarebbe certamente possibile introdurre la possibilità di sottoscrivere delle iniziative referendarie identificandosi via internet o consentendo al comitato promotore di utilizzare dei servizi di verifica delle carte di identità elettroniche o di utilizzare il sistema SPID.

L’irragionevole iter da seguire per la verifica di legittimità da parte della Corte di Cassazione

La legge 352/1970 prevede che solo dopo il deposito di almeno 500 mila firme valide presso la Corte di Cassazione, l’Ufficio Centrale per il Referendum di tale corte esprima il proprio parare di legittimità della richiesta, ovvero che la richiesta sia conforme alla Costituzione.
In sostanza il comitato referendario non è autorizzato ad avere un parere di legittimità della proposta prima di avere messo in atto la macchina organizzativa capace di raccogliere la sottoscrizione di ben mezzo milione di cittadini. Questo iter obbliga i comitati referendari ad investire tempo e risorse, anche economiche, senza neppure la certezza che l’obiettivo di questo sforzo sia conforme alla Costituzione. Questo avviene mentre i partiti in Parlamento possono con estrema facilità votare leggi incostituzionali, senza alcuna verifica formale di costituzionalità da parte di un collegio di esperti.
Per evitare questi sprechi di risorse sarebbe sufficiente introdurre una prima soglia, ad esempio di 50 mila firme, superata la quale il comitato ha diritto ad avere un parere ufficiale dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Coste di Cassazione. Una volta ottenuto il parere favorevole, il comitato potrà proseguire nella raccolta delle restanti 450 mila firme, sapendo che questo sarà sufficiente ad arrivare al referendum. Se, invece, l’Ufficio dichiarasse l’illegittimità della proposta, il comitato avrebbe modo di correggere quanto necessario per fare una nuova raccolta di sottoscrizioni.

Un aspetto messo in evidenza dalla commissione delle Nazioni Unite è che in Italia non esiste la possibilità di fare ricorso al pronunciamento dell’Ufficio Centrale per il Referendum, cosa che contraddice la alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici sottoscritta dall’Italia nel 1976 e, quindi, in violazione dell’art. 10 della Costituzione, in cui si dice che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

L’irragionevole imposizione di un quorum di partecipazione al 50%

Un ultimo aspetto che ostacola l’utilizzo degli strumenti della democrazia diretta, quali espressione della sovranità popolare per modificare o abrogare delle leggi è il fatto che le votazioni siano valide solo se si reca a votare almeno la maggioranza degli elettori.
E’ un dato di fatto che molti elettori di norma non partecipano alle votazioni, per impedimento oggettivo (problemi di salute, distanza dai seggi per motivi di lavoro o familiari) o per generale sfiducia nelle votazioni. Alle ultime elezioni politiche solo il 72% degli elettori si è recato a votare.

Lo scorso novembre 2019 il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha espresso ufficialmente una opinione negativa sulle difficoltà oggettive in Italia a ricorrere agli strumenti di democrazia diretta.

Questo significa che la base effettiva dei votanti non è il 100% degli elettori, ma è il 72% degli elettori.
Quando si tratta di referendum abrogativi chi abbia l’interesse a non fare abrogare la legge in oggetto potrà limitarsi a convincere il 23% degli elettori (72 – 23 = 49%) a restare a casa (molto meno impegnativo che recarsi a votare) per portare il numero di votanti al di sotto del quorum, mentre chi voglia abrogare la legge in oggetto dovrà convincere almeno il 51% degli elettori a recarsi a votare (con la fatica di farlo) ed a votare SI. Ovvero il comitato referendario deve convincere (51/23 = 2,2) un numero di elettori più che doppio rispetto a coloro che sono contrari all’iniziativa.
Questo meccanismo favorisce quindi una minoranza dei cittadini nei confronti di una maggioranza e favorisce soprattutto coloro che hanno interessi a mantenere lo status quo in relazione a leggi sbagliate.
Da molti anni in Italia è attivo comitato “Quorum Zero” che propone di fare come nella vicina Svizzera, dove coloro che non si recano a votare sono considerati semplicemente “astenuti”, per cui l’esito della votazione referendaria viene deciso unicamente da coloro che si recano a votare.
In questo modo il comitato promotore di un referendum e l’eventuale comitato oppositore giocano ad armi pari, lasciando ai cittadini italiani l’ultima parola.
L’adozione del Quorum Zero è particolarmente importante per ridurre lo strapotere dei partiti, i quali hanno molta facilità a votare in Parlamento leggi non scritte negli interessi del popolo, sapendo che avranno estrema facilità ad impedire il successo delle iniziative promosse da semplici comitati di cittadini.

Conclusione

L’esercizio della Democrazia Diretta in Italia oggi è possibile, ma è condizionata da irragionevoli ostacoli che rendono estremamente difficile la raccolta delle sottoscrizioni e poi arrivare al pronunciamento degli elettori. Tali ostacoli vengono posti dalla legge 352/1970 e, in parte, dall’art. 75 della Costituzione, come se l’esercizio della sovranità popolare fosse una “concessione” che lo Stato fa ai cittadini e non come se fosse un diritto che deve essere garantito, rimuovendo ogni ostacolo possibile all’espressione della volontà popolare. Questo in violazione dell’art. 3 della Costituzione, che dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori (cittadini) all’organizzazione politica del paese.

Ai sensi dell’art. 1 “la sovranità appartiene al popolo” è quindi necessario che lo Stato faciliti quanto più possibile l’esercizio della Democrazia Diretta, rimuovendo gli irragionevoli ostacoli alla raccolta di firme a supporto dei referendum, garantendo i necessari spazi informativi sui mezzi di informazione e lasciando l’ultima parola ai cittadini che intendono esprimere il loro parere recandosi a votare, senza avvantaggiare coloro che detengono il potere economico e politico.

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