di Davide Amerio
Chiara Appendino l’ho conosciuta, come è capitato con molti altri, in quegli assembramenti, più o meno festosi, che erano i meet up del M5S in origine. La prima volta che la intervistai, confesso, rimasi incantato dai suoi occhi, e dalla sua figura che mostrava intelligenza e fascino. Non entro nel merito della qualità della sua amministrazione su Torino. Lei, come la Raggi, hanno ereditato situazioni di città non solo problematiche, ma disastrate da decenni di mala politica. Il giudizio richiede un approfondimento che non saprei fare, essendomi da tempo trasferito in Val Susa; posso però dire che ho continuato a vedere una Torino in movimento, in questi anni, come cittadino, diversamente da quanti la dipingono, o la vorrebbero, per opportunismo politico, una città morta. Certo non tutto è andato secondo le promesse, e le critiche sono doverose.
L’intervista della sindaca sul Fatto Quotidiano, è l’occasione – per me,- di mettere ulteriormente in chiaro quali sono state le trasformazioni, e quelle che invece non sono avvenute, nel M5S, che mi hanno spinto a prenderne di gran lunga le distanze. Ovvero quella transizione che si è realizzata dall’essere il M5S a questa ‘roba’ che chiamo Dimaioleggio (come opera di Di Maio, Casalino, Casaleggio, con la compiacenza di Grillo).
Molti rimpiangono una ipotetica ‘età dell’oro’ del M5S, e vorrebbero un ritorno alle ‘origini’, consapevoli che questo Dimaioleggio è ben altra cosa, nei fini, e nei mezzi, dal progetto iniziale.
Come conseguenza logica di quanto ho scritto in questi ultimi anni, affermo che non esiste nessuna età dorata a cui tornare – per quanto possa apparire incomprensibile. Provo a spiegarmi.
Esistono una serie di coincidenze, politiche e sociali, per le quali una nutrita platea di persone aveva trovato, o pensava di aver trovato, un soggetto politico ‘nuovo’, estraneo alle putrefatte logiche di palazzo, alle corti di partiti trasformati in comitati d’affari, a quella ‘casta’ infestante che primeggia nella politica italiana ormai da decenni.
Le origini del pensiero pentastellato nascevano da principi semplici, di cui divenne megafono Beppe Grillo, che trovarono consenso in una parte di paese stanca e nauseata, e che ambiva a qualcosa di meglio. Il punto critico è dovuto all’assenza, in quel contesto, di un’analisi politica appropriata alla situazione, e alla costruzione di un progetto politico articolato e ‘programmatico’.
Ero a Milano, quando Beppe presentò la nascita del movimento. Non fu un congresso, non ci fu dibattito. C’era un foglio che Grillo teneva in mano, con una serie di punti di ‘programma’ che avrebbero dato vita al ‘non Statuto’, e a regolamenti successivi, non si sa bene formulati da chi e con quali criteri.
I punti erano l’estrapolazione dei sentimenti ricavati da sondaggi prodotti sull’allora sito di Beppe Grillo. Oltre alle famose, e sacrosante, cinque stelle (acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo e connettività), il progetto (rafforzatosi in tempi successivi) comprendeva delle voci che possiamo grosso modo riassumere:
– Uno vale Uno
– Max due mandati come “portavoce”
– Democrazia Diretta
– Non ci sono leader
– Taglio secco degli stipendi dei parlamentari
– Taglio numero parlamentari
– Fine dei privilegi della Casta
– Fine dei finanziamenti pubblici ai giornali
– Uscita dall’Euro e dall’Europa
– Blocco del Tav e di tutte le opere inutili
– Reddito di Cittadinanza/Universale perché nessuno deve rimanere indietro
– Movimento. Non Partito.
– Condannati fuori dal Parlamento
– Conflitti di interessi nel paese
Tutto bellissimo, a parole. Nei fatti, il nutrito gruppo di fortunati portavoce eletti progressivamente, e assiepati alla corte di Grillo/Casaleggio, non si è mai posto il problema se i regolamenti, la non struttura del movimento, la non analisi politica della situazione in corso, erano idonei a reggere le attese di un consenso straordinario, maturato nel paese, e della conseguente aspettativa.
“Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno”; “scapperanno con gli elicotteri” ; “usciamo da questo euro e da questa Europa”: erano queste le “promesse” dal palco di Grillo, che hanno entusiasmato milioni di elettori, affamati di una politica nuova, almeno un po’ pulita, più sincera, e sopratutto vicina ai bisogni reali delle persone.
Scrivo rammentando, da diversi anni, un principio elementare imparato nel corso del tempo come analista di sistemi. Se vuoi cambiare un sistema, qualunque esso sia, non puoi prescindere da tre fasi: l’analisi dell’esistente, la costruzione del progetto nuovo, la gestione della fase di transizione tra il vecchio sistema e quello nuovo. Se ometti uno dei passaggi, o non lo svolgi con la dovuta perizia, il progetto fallisce, o rimarrà, nella migliore delle ipotesi, monco o poco funzionale, e non rispondente agli obiettivi posti.
Di conseguenza ho suggerito, inascoltato, l’urgenza di una nuova fase ‘costituente’ del M5S, che avesse il coraggio di raccogliere i principi originari, metterli a confronto con l’esperienza maturata, per creare un progetto (e un regolamento) che fosse adatto a pianificare una strategia politica non improvvisata. Questa parte non sarebbe stata gradita a tutti, sopratutto ai ‘duri e puri’, ma sarebbe stata un’operazione trasparente, e avrebbe evitato la caduta del movimento in un verticismo dittatoriale, esclusivo per pochi intimi, dove è bandita la possibilità di critica.
Questo ha comportato la trasformazione del M5S dal poter essere protagonista di un radicale rinnovamento del paese, a quella condizione di trovar ancora voti perché, in fondo, è ancora il meno peggio, per alcuni versi, degli altri. Pessimo risultato dopo dieci anni, che ricorda quando Grillo diceva “in Italia siamo costretti a scegliere tra il peggio e il leggermente meno peggio”: ecco ora è il movimento a essere diventato il “leggermente meno peggio”.
Cosa c’era di sbagliato nei principi originali? Nulla, in linea di massima; tutto in pratica, se non ti rendi conto che vuoi applicare principi e regole incompatibili con una strategia politica adeguata al momento storico. Facciamo qualche esempio chiarificatore.
Uno vale Uno: bellissimo… ma in che senso? Ci stiamo raccontando che chiunque può essere preso dalla strada e trasformato in un eletto? Il principio è profondamente democratico, e risponde all’esigenza di avvicinare la politica alla società civile. Ma occorre il filtro delle competenze, e un percorso di studio pianificato, se queste mancano. Fare la pesca a strascico è penalizzante: puoi avere la fortuna di pescare ottime persone (e nel M5S ce ne sono non poche), ma anche semplici carrieristi od opportunisti, senza arte né parte (e gli esempi sono purtroppo numerosi). Se non hai un processo di valutazione adeguato, finisci per dover difendere il tuo potere come una roccaforte, prediligendo i ‘fedeli’ cani da guardia del tuo status quo.
Max 2 Mandati: ottimo principio… se vivessimo nell’anno 2220, nel quale le persone lavorano 3 ore al giorno per vivere, godono dei migliori servizi, posseggono un elevato livello di istruzione medio, e offrono gratuitamente, a turno, parte del proprio tempo alla politica per gestire il bene collettivo: locale e nazionale.
Se invece vivi nel 2020 in una vasca politica di squali, la situazione è differente. Non ti puoi imporre delle regole (credendoti migliore di tutti gli altri, e illudendoti che tutti ti seguiranno) che castrano la tua strategia politica. Una regola del genere (per inciso, non chiara per molti: a mia domanda il 50% rispondeva che due mandati erano da intendersi come 10 anni, l’altra metà che corrispondevano al numero delle legislature, indipendentemente dalla durata), quando affronti un tavolo di trattative, ti mette in condizione di inferiorità.
Esattamente quello che è accaduto con la Lega (e poi con il PD). Non puoi permetterti di far saltare il tavolo, perché quello che torna di sicuro a casa… sei tu!
Per chi dice che va bene così perché puoi insegnare ad altri il “mestiere”, si torni a leggere il punto “Uno vale uno”… fino a quando non lo si è compreso, tenendo in considerazione che i tempi della politica non sono quelli che desideriamo noi, ma quelli imposti dagli eventi.
Il problema di contrastare coloro che “vivono” di politica in modo immeritevole, è questione seria, ma non è questa la strada giusta.
Non ci sono Leader: soddisfa quel rifiuto della figura del “capo assoluto” che si è andata consolidando nei partiti negli ultimi decenni. Giusta preoccupazione, ma sbagliata la risposta. C’è una sostanziale differenza tra “capo” (colui che comanda autoritariamente), e “leader” (colui che genera consenso e legittimità, valorizzando le persone che collaborano con lui). Alcuni nascono leader, altri imparano, altri ancora si ritrovano nel ruolo accidentalmente spinti dalle circostanze.
La questione avrebbe dovuto essere: non il rifiuto dei leader (naturali), bensì della costruzione di una struttura democratica che ne tenesse sotto controllo il potere, e che ne consentisse il ricambio. Negando la questione si è prodotto un coacervo di leader o presunti tali.
Uscita dall’Euro e dall’Europa: problema serio, complesso, che richiede studio e competenza macroeconomica, nonché giuridica. Sull’argomento, dopo anni di propaganda, cadde il silenzio assoluto. Una vera vergogna. In questo modo si è abbandonato una fetta importante di elettorato sensibile al problema della sovranità (come difesa della nostra Costituzione), lasciando il tema nelle mani quasi esclusive dell’opportunismo sovranista (che sconfina facilmente nel becero nazionalismo); che è altra cosa dalla difesa della sovranità. Un errore insanabile, che oggi impedisce un dibattito costruttivo sul tema.
Taglio stipendi e parlamentari: non si possono improvvisare tagli al numero dei parlamentari con un referendum, sfruttando l’incazzatura della gente e il risentimento popolare. Se ottimamente aveva fatto il movimento nello schierarsi contro le modifiche di Renzi, troppa superficialità è stata dedicata alla questione della riduzione dei parlamentari, senza metterla in relazione con una nuova legge elettorale e il ridisegno delle circoscrizioni.
Anche il taglio degli stipendi, ha finito per essere propaganda. Problemi organizzativi a non finire, utile per manovre di potere verso i dissidenti. Chi ha fatto il furbo non ha pagato nulla, come era prevedibile, perché anche la propaganda della multa da 100mila euro e il contratto fatto firmare ai parlamentari era una cretinata. Le persone vanno retribuite per il livello di responsabilità che assumono: in Italia c’è un eccesso di stipendi, ma si poteva gestire diversamente, piuttosto che voler apparire come martiri che lavorano gratis per il bene comune.
Piuttosto ci sarebbe da aprire il capitolo per il quale gli eletti pentastellati sono costretti a versare alla Casaleggio (una società privata) una quota del loro stipendio per sostenere un sito (Rosseau) per il quale non è mai stato presentato un progetto industriale, valutando la legittimità di questa costrizione.
Vado a conclusione, tornando a Chiara Appendino, e trattando due argomenti da lei citati.
Reddito di Cittadinanza: ancorché incompleto nella sua attuazione, è stato uno dei baluardi dell’offerta politica del M5S (insieme ad altri importanti ma meno noti). Ottima iniziativa, non proprio ben gestita, perché si è finito per dar più peso alla propaganda che ai problemi della sua realizzazione. Il principio di un Reddito di Sostegno avrebbe dovuto essere difeso, e reso politicamente più incisivo, per creare uno spartiacque tra l’impostazione neoliberista imperante (che colpevolizza e marginalizza chi è in difficoltà economiche e/o non trova lavoro) e una visione socialdemocratica/liberale della società. Questo avrebbe reso più chiaro, nel panorama politico, la distanza con i fintamente di sinistra, che in realtà hanno sposato da tempo posizioni ordoliberiste ed europeiste in modo acritico. Ci si è invece più preoccupati di farne un vessillo, anziché uno strumento di strategia politica aggressiva. Un’occasione persa.
TAV e opere pubbliche: alcuni parlano di tradimento del M5S sulla questione. Non concordo: non si tratta di tradimento (che presuppone la consapevolezza del tipo di impegno precedentemente assunto), quanto la logica conseguenza di una assenza di capacità strategica, e di pensiero politico, che ho delineato sopra. La questione Tav/Grandi Opere, era, ed è, fondamentale per creare una separazione netta tra la gestione allegra, e malavitosa, dei soldi pubblici, indirizzando le energie verso infrastrutture realmente necessarie al paese.
Peggiore è stata la risposta (di Di Maio & soci, e anche della sindaca Appendino) a questa sconfitta: “non avevamo il 51% … e non abbiamo potuto fare di più”. Oppure quella riferita sempre da Appendino nella risposta al FQ: alcune battaglie le abbiamo vinte, altre perse.
La politica non è una contabilità ragionieristica tra vittorie e sconfitte. Si combattono, sempre e comunque, le battaglie nelle quali ci si identifica, perché si ritiene siano giuste! E non si molla.
Se il movimento No Tav, e tutti gli altri movimenti sociali sul territorio (e quelli mondiali), avessero ragionato in questi termini (non abbiamo la maggioranza), nessuna battaglia politica avrebbe senso nella storia delle lotte sociali. Sopratutto nessuno avrebbe mai conseguito delle “vittorie” combattendo strenuamente da posizioni di minoranza assoluta.
Peggio ancora è la constatazione di una forza politica che non ha saputo gestire il proprio patrimonio elettorale (maggioranza relativa). Se si potevano perdonare gli errori iniziali per inesperienza, ora questa insana inconsapevolezza del proprio ruolo politico è più ascrivile, per i vertici, a una immorale assenza di umiltà. Siamo stati tutti giovani e inesperti, ma tra la costruzione di una comoda Realpolitik di sopravvivenza e una sana dose di umiltà, ci passa il mare.
Su temi come il Tav sono state forniti ampi strumenti per portare a casa il risultato; per imporre quel ribaltamento di prospettiva atteso invano. Il discorso riguardava anche il Mose, il Terzo Valico, il Muos, le trivelle, il Tap, il Tav a Firenze, e un’infinità di lotte territoriali che sono state abbandonate a sé stesse, dopo aver preso i voti, per palese incapacità politica e disimpegno dei vertici del movimento.
Tutto questo non sminuisce il lavoro e l’impegno di molti eletti nel M5S (molti dei quali soffrono in silenzio questa situazione, se non sono stati già espulsi). Ingiustamente l’opposizione al movimento, quella del ‘sistema’ paese che vive di rendita politica da decenni, attribuisce a esso una incapacità diffusa e assoluta. Ciò non corrisponde al vero, ed è giusto riconoscerlo. Ma la questione complessiva della gestione del movimento è quella che ho delineato, al di là dei meriti dei singoli.
Il M5S è cambiato, non so se, e come, cambierà ancora, come spera la sindaca di Torino, ma le premesse non suggeriscono nulla di buono, al momento.
Oltre a risultare antipatico (ancora di più) a qualche fedele grillino, della prima e dell’ultima ora, spero questa riflessione (limitata) possa essere utile per qualcuno nel guardare alla realtà del M5S, a come è cambiato, e sopratutto perché. E a come invece si dovrebbe affrontare la politica, in modo più critico, piuttosto che fideistico.
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