Nell’anno del Signore 1347 l’Italia si
trovò a far fronte all’epidemia di peste nera, che nel giro di un anno si
diffuse a tutto il paese, facendo morire circa un terzo della popolazione del
tempo.
Nulla di comparabile al corona virus, che sembra avere in Europa un tasso di
mortalità dello 0,5%.
La peste ci mise 6 anni per diffondersi in tutta Europa.
Allora si trattava di un batterio, non di un virus, il bacillo Yersinia pestis, che si propagava tramite le punture delle pulci, diffondendosi di ratto in ratto, ma anche di animale in animale e di uomo in uomo, con ratti, animali e uomini (e pulci) che viaggiavano insieme con le merci in tutta Europa.
In realtà la pandemia era arrivata dalla Cina, passando per l’Asia centrale. Secondo alcuni studiosi, pare che si fosse originata ancora prima del 1320 nel regno di Pagan, nell’attuale Birmania.
Allora la “globalizzazione”
esisteva già, ma viaggiava molto a rilento. Per questo ci vollero molti anni
per propagare la pandemia.
Oggi siamo nell’epoca della “globalizzazione accelerata”, che viaggia
veloce, che riduce i tempi degli spostamenti a poche ore, che moltiplica le
occasioni di contatto fra persone che vivono molto distanti fra loro. e de
Sono molti anni che politici, giornalisti ed economisti decantano i grandi
vantaggi della globalizzazione, senza mai mostrarci gli svantaggi ed i
pericoli.
In questi giorni ci ritroviamo di fronte
ad una pandemia che avanza a ritmi velocissimi, proprio a causa della rapidità
e della frequenza di scambi e spostamenti di persone e di merci.
Tutto questo potrebbe causare un leggero aumento del tasso di mortalità fra la
popolazione, dato che la rapidità della diffusione è superiore ai tempi necessario
per mettere a punto un vaccino contro il nuovo virus.
Ma, al di là delle conseguenze sanitarie
e demografiche che in questo momento nessuno è in grado di valutare, è evidente
che vi saranno pesanti conseguenze economiche, in quanto vengono inceppati i
meccanismi della produzione in un mercato globalizzato.
Negli ultimi anni il modello economico del libero scambio delle merci ha
portato alla chiusura di moltissime attività produttive in Italia ed in Europa,
le quali sono state trasferite in paesi in cui i costi di produzione sono
inferiori. Questo perché l’unico parametro preso in conto dal sistema economico
sono la minimizzazione dei costi di produzione e la massimizzazione del
profitto.
Ora che la Cina blocca la produzione ed i
commerci per motivi sanitari, ci si accorge di non avere alternative alla
produzione di componenti fondamentali per le attività manifatturiere a maggior
valore aggiunto ancora presenti in Europa ed in Italia.
Senza i componenti la produzione si fermerà e resteremo senza la disponibilità
di molti prodotti utili e magari indispensabili per la nostra vita quotidiana.
I pochi prodotti ancora disponibili aumenteranno di prezzo, diventando
inaccessibili per la maggior parte della popolazione, che già da anni ha dovuto
fare i conti con la svalutazione salariale, sempre per “essere
competitiva” con i mercati globalizzati.
Negli anni ’60 l’Italia aveva scambi con
l’estero per circa il 10% del PIL ovvero produceva da sé il necessario per il
90% del PIL. La maggior parte dell’economia era economia interna.
Oggi l’Italia scambia con l’estero quasi il 30% del PIL ovvero produce da sé
solo per il 70% del PIL e dipende dall’estero per il 30% dei beni e servizi di
cui abbiamo bisogno per vivere.
Eppure l’Italia avrebbe la possibilità di produrre quasi tutto da sé, in quanto
abbiamo le competenze professionali per farlo. Potremmo limitarci ad importare
le materie prime che ci mancano ed alcune tecnologie che non siamo in grado di
riprodurre il Italia. Per il resto potremmo produrre tutto grazie alla capacità
dei lavoratori in Italia.
Si potrebbe quindi certamente “ritornare indietro” agli anni ’60 e riprendere a produrre in Europa ed in Italia, ma questo significa fare investimenti, significa ri-formare le competenze professionali. Se anche riuscissimo a trovare il denaro per gli investimenti (cosa molto difficile in una Europa in preda all’isteria delle politiche di austerità), ci vorrebbero comunque degli anni a rimettere in piedi un sistema produttivo adeguato a produrre quanto ci occorre per vivere, senza più dipendere dalle importazioni dalla Cina. E questo facendo solo accenno al fatto che in Italia ed in Europa facciamo sempre meno figli, per cui disponiamo di sempre meno giovani lavoratori. E per “fare” un giovane lavoratore ci vogliono minimo 20-25 anni, fra partorirlo, crescerlo e formarlo all’attività professionale.
Il fatto di riporre le proprie garanzie di benessere sulla capacità produttiva di altri paesi si rende disarmati di fronte ad imprevisti cambiamenti che potrebbero frenare quel sistema produttivo, sul quale non abbiamo alcuna forma di controllo.
Il modello non funziona male solo dal
lato importazioni, ma anche dal lato esportazioni.
La Germania ha fondato da molti anni il suo successo economico
sull’esportazione di merci in tutto il mondo. Ora che la storia decide di porre
un freno agli scambi economici internazionali, a motivo della pandemia o dei
dazi di Trump, il sistema produttivo tedesco non potrà che andare incontro ad
un crollo, con relativo seguito di un aumento della disoccupazione. E l’Italia
negli ultimi anni, non potendo espandere la sua economia sul mercato interno a
motivo delle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea, si è
conformata alle logiche produttive e mercantili della Germania.
Le prospettive sono tragiche: aumento
della disoccupazione, sia in Cina che in Europa (e in Italia), aumento dei
prezzi, indisponibilità di prodotti necessari e magari indispensabili.
Crollo del prodotto interno loro, con conseguente impossibilità a fare fronte
al pagamento dei debiti, pubblici, ma soprattutto privati. Fallimenti di
imprese, di banche. Difficile prevedere tutte le conseguenze su di un sistema
economico che non è altro che un gigante dai piedi di argilla.
Il destino prossimo che ci attende è,
quindi, tendenzialmente molto negativo. Soprattutto se non sappiamo leggere i
segni dei tempi e fare tesoro dell’esperienza, portando dei forti cambiamenti
all’attuale sistema economico mondiale e, in particolare, italiano.
Nel XIV secolo la diffusione della peste nera, con il suo strascico di morti e
di paura, ebbe un forte impatto culturale sulla società del tempo e portò a
mettere in discussione molti aspetti sociali del modo di vivere di allora.
Ritornando ad oggi, non si tratta di confondere gli aspetti sanitari con quelli
economici, ma si tratta di ragionare più a fondo sugli svantaggi di un modello
economico e sociale che implica la necessità di produrre merci in luoghi molto
distanti, che implica la necessità di fare molti viaggi, di avere molti
interscambi.
Negli interscambi vi sono certamente
degli aspetti positivi, ma non è saggio non tenere in conto gli aspetti
negativi.
Potremmo ad esempio continuare a far viaggiare le conoscenze, cosa oggi
relativamente semplice grazie all’impressionante evoluzione delle telecomunicazioni.
Ma potremmo senza troppi danni porre un forte freno agli scambi economici,
puntando a produrre beni e servizi soprattutto nei luoghi dove devono essere
consumati.
Mettere al centro delle nostre scelte economiche solo il business, senza tenere
conto degli aspetti sociali, ambientali e sanitari, alla fine non ci porta ad
essere più ricchi, ma più poveri.
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