Il fallimento epocale delle riforme liberiste in Italia

A partire dagli anni 1979 l’Italia ha cominciato ad adottare les cosiddette “riforme strutturali“, che avrebbero dovuto assicurare all’Italia il “benessere nel lungo periodo“.
Nel 1979 in Italia il tasso di disoccupazione era intorno al 7%. Mediamente ogni famiglia riusciva a risparmiare ogni mese oltre il 20% del proprio reddito. Le imprese investivano, lo Stato realizzava opere pubbliche.
Nonostante i molti problemi, l’Italia era un paese che offriva prospettive di speranza alle imprese, alle famiglie, ai giovani.

Gli economisti, “quelli che sanno”, esaltati seguaci dei vari Ludwig Von Mises, Friedrich Von Hayek, Milton Friedman, convinsero molti politici occidentali a realizzare delle “riforme” finalizzate a migliorare la situazione economica, con l’obiettivo di ridurre il tasso di inflazione ed il debito pubblico, fattori ritenuti fortemente penalizzanti per lo sviluppo economico.
Negli USA le loro proposte furono attuate dal presidente Ronald Reagan. Nel Regno Unito dalla “lady di ferro” Margareth Thatcher, quella che diceva che “non c’è alternativa” a queste riforme.
In Italia i protagonisti di questa stagione di riforme furono certamente Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi, Beniamino Andreatta e Giuliano Amato.
E’ la corrente di pensiero che oggi viene definita “neoliberismo”, fondato su alcune certezze ideologiche sulle question economiche, senza la capacità di confrontarsi con la realtà dei fatti.

Riforma n. 1 – L’adesione allo SME
La prima “riforma” realizzata fu l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo (SME), un meccanismo che limitava le oscillazioni dei tassi di cambio fra le diverse valute europee. Fra i principali sostenitori dell’adesione ci fu Giovanni Malagodi, segretario del PLI. Ci dissero che le oscillazione dei tassi di cambio fra le diverse valute ostacolavano gli scambi commerciali all’interno del Mercato Comune Europeo. Limitando le oscilazioni gli scambi commerciali sarebbero aumentati, con beneficio per tutti. Non ci dissero che per controllare il tasso di cambio l’Italia avrebbe dovuto, negli anni successivi, aumentare i tassi di interesse sui titoli di stato, i quali portarono ad un rapido aumento del debito pubblico in rapporto al Prodotto Interno lordo, con tutte le successive conseguenze negative per l’Italia derivanti da questo aumento.

Riforma n. 2 – Il divorzio fra Tesoro e Bankitalia
La seconda riforma messa in atto fu la separazione della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che avvenne nel 1981.
Scopo della “riforma” era quello di evitare che i vari governi aumentassero in modo scriteriato la spesa pubblica, per motivi di consenso popolare, causando di conseguenza un aumento del tasso di inflazione.

Effettivamente in quegli anni il tasso di inflazione in Italia era molto elevata, intorno al 21% annuo.
Ma non ci dissero che la causa principale dell’inflazione non erano gli eccessi di spesa pubblica, quanto soprattutto l’aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi, causato a sua volta dalle politiche imperialiste degli USA in Iran, con la conseguente rivoluzione islamica di Khomeini e dalla conseguente guerra fra Irak e Iran. Insomma: una cura sbagliata derivante da una diagnosi sbagliata.

La riforma fu attuata da Beniamino Andreatta, con decisione personale “di ministro” del Tesoro, senza alcun coinvolgimento del Parlamento, inviando una lettera il 12 febbraio 1981 a Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia. Fu il cosiddetto “divorzio“, l’auspicata “indipendenza” della banca centrale dal potere politico democraticamente eletto.
Prima di allora la Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro erano di fatto due organismi pubblici che lavoravano in tandem: il Tesoro emetteva titoli di stato per finanziare i fabbisogni di spesa del governo; Bankitalia provvedeva a stampare nuove banconote (il lire) per acquistare i titoli di stato invenduti (compratore di ultima istanza), consentendo in questo modo al Tesoro di decidere unilateralmente i tassi di interesse dei titoli emessi, senza dover dipendere dai “mercati” per finanziarsi.

Riforma n. 3 – Fine della “scala mobile”
La terza riforma messa in atto fu la fine della “scala mobile” ovvero al meccanismo di indicizzazione automatica dei salari dei lavoratori dipendenti al tasso di inflazione, in modo da tutelare il potere di acquisto degli stipendi.
Il provvedimento era scaturito da un accordo fra i sindacati e Confindustria nel 1975 ed aveva effettivamente difeso i potere d’acquisto dei lavoratori dalla turbolenze dell’inflazione causate dai rincari del petrolio.
Ci dissero che gli aumenti dei salari derivanti dalla “scala mobile” erano la causa dell’alto tasso di inflazione in Italia. Per questo motivo Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio, promosse una legge che tagliava di 4 punti l’adeguamento dei salari. Il referendum abrogativo promosso da Enrico Berlinguer nel 1985 confermò la legge di Craxi.
La soppressione definitiva dell’accordo del 1975 avvenne ad opera di Giuliano Amato nel 1992.

Sia per la riforma n. 2, che per la riforma n. 3, ci dissero che l’inflazione è una tassa iniqua che colpisce chi vive del proprio reddito da lavoro, mentre in realtà con la scala mobile i salari vengono automaticamente adeguati all’aumento del costo della vita, mentre per le imprese l’importante è che la crescita del PIL non sia inferiore al tasso di inflazione. La lotta all’inflazione, quindi, era un falso obiettivo, mentre le conseguenze delle “riforme” per combattere l’inflazione furono di altro tipo: il blocco degli investimenti pubblici causato dalla mancata cooperazione con il Tesoro della Banca d’Italia e la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti causato dalla fine della “scala mobile”.

Tuttavia sui mezzi di informazione come colpevoli dell’aumento del tasso di inflazione furono additati gli eccessi di spesa pubblica, da parte di una classe politica irresponsabile, ed il meccanismo della “scala mobile”

Riforma n. 4 – Le privatizzazioni delle partecipazioni pubbliche
Ci hanno detto e ci dicono tutt’ora che lo Stato è inefficiente, mentre il privato è efficiente.
Di conseguenza è bene che lo Stato venda i propri “carrozzoni”, facendo cassa per ridurre il debito pubblico e consentendo al settore privato di fornire le stesse prestazioni economiche in modo più efficiente.
Sulla base di questo dogma partì anche in Italia, molto più che negli altri paesi europei, la stagione della privatizzazioni di ciò che prima era pubblico, in modo da ridurre il peso dello Stato nell’economia del Paese.
Le prime privatizzazioni iniziariono nel 1985, ma la stagione vera e propria ebbe inizio nel 1991, con un apposito decreto legge durante l’ultimo governo di Giulio Andreotti.
La prima privatizzazione significativa fu quello della SME, parte dell’IRI. In seguito vi furono le privatizzazioni dell’IRI, dell’ENI, dell’INA assicurazioni, dell’ENEL. Quindi delle Ferrovie dello Stato, della Telecom, di Alitalia, ecc.
Protagonisti di questa stagione sono stati Romano Prodi e Pierluigi Bersani, anche se sostanzialmente tutti i governi che si sono succeduti hanno portato avanti la stessa linea politica delle privatizzazioni.
Secondo un’analisi della Corte dei Conti del 2010, nel periodo 1985-2007 ci sono state 93 operazioni di privatizzazione, per un totale di 152 miliardi.
Se guardiamo all’obiettivo della riduzione del debito pubblico, nel 2007 il debito era di circa 1’602 miliardi di euro. Le privatizzazioni avrebbero quindi consentito di ridurre il debito del’8,7%. Dopo di che non è rimasto più nulla da privatizzare, mentre il debito ha continuato a salire (a causa degli alti interessi e della bassa crescita economica) fino agli attuali 2’400 miliardi.
Se guardiamo ai vantaggi per i cittadini, secondo la Corte dei Conti le privatizzazioni hanno portato a maggiori utili per i nuovi proprietari delle ex società pubbliche, grazie agli aumenti delle tariffe nei servizi in monopolio, portando nel contempo a maggiori esborsi per le famiglie italiani dell’ordine di 170 miliardi (secondo i calcoli di Adusbef e Federconsumatori).

Riforma n. 5 – Le privatizzazioni delle partecipazioni pubbliche
Lo Stato si ritirò anche dalla partecipazione nelle banche, che cessarono di essere degli organismi finalizzati allo sviluppo economico del territorio, trasformandosi in società private con fini di lucro.
Questo in particolare dal 1993, quando fu riformato il Testo Unico Bancario TUB, avendo come regista Mario Draghi, il governatore uscente della BCE.
Con questa “riforma” fu eliminato il divieto per le banche commerciali, quelle che detengono i nostri risparmi, di dedicarsi anche ad attività speculative nel mondo della finanza.
Ci avevano detto che avremmo avuto delle banche più moderne, più internazionalizzate, più efficienti e presenti nei mercati.
Le riforme infinite

Potremmo continuare con l’elenco delle “riforme” attuate dai vari governi, aderendo al Trattato di Maastricht, quindi all’euro moneta unica, poi al Trattato di Lisbona, al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), senza dimenticare l’adesione ai trattati commerciali internazionali, come il WTO, con la libera circolazione dei capitali e l’ingresso in Italia dei prodotti cinesi.
Ci stanno già parlando da tempo dell’unione bancaria europea, degli eurobonds, del CETA e di altri accordi di libero scambio, della riforme del MES.
Ci sono sempre delle nuove “riforme” che arrivano, perché l’economia continua ad andare male, sempre peggio, dato che il debito pubblico continua a crescere, dato che l’economia non è stata ancora sufficientemente liberalizzata, dato che lo Stato è ancora troppo presente nell’economia…
Le riforme non fiiniscono mai, perché è sempre colpa nostra se le riforme già attuate non hanno funzionato, per questo dobbiamo fare “altre riforme”: le riforme infinite.

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Mi ricorda tanto una simpatica e geniale striscia dell’indimenticato Bonvi

Ogni volta ci hanno detto tante cose.
Ci hanno detto che dovevamo affrontare dei sacrifici “per un futuro migliore”.
Ci hanno parlato della necessità di “cedere quote di sovranità” democratica a delle organizzazioni internazionali, che “ne sanno più di noi”.
Ci hanno parlato dei benefici della libera circolazione delle merci e dei capitali.
Ci hanno parlato dei benefici delle privatizzazioni.
Ci hanno parlato della necessità di ridurre l’inflazione.
Ci hanno parlato della necessità di rendere il lavoro flessibile…

Ci hanno detto che tutte queste “riforme” ci avrebbero portato un maggiore benessere “nel lungo termine”.
Perché loro erano degli economisti competenti, che vedevano lontano, mentre noi, che pensiamo che aumentare la spesa pubblica oggi porta più lavoro oggi e aiuta i disoccupati ad uscire dalla povertà, siamo quelli che non capiscono una economia che è “molto complessa”, che non capiscono che la nostra idea sarebbe sbagliata “nel lungo termine”

Ci sorge ein dubbio: che ci abbiano fregaten?

Kenyes ricordava a tutti che “nel lungo termine, saremo tutti morti“. Le politiche sono molto una questione di corto termine e molto poco una questione di lungo termine.

Considerando che le prime “riforme” sono iniziate oramai 40 ani fa, e che il Trattato di Maastricht è entrato in vigore 27 anni fa, il “lungo termine è già arrivato. Oggi è il “lungo termine”.
O forse gli “economisti che sanno” vogliono sostenere che le loro previsioni superavano l’arco temporale di 40 anni?

Il fallimento epocale delle riforme liberiste
La situazione dell’economia italiana è disastrosa.

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Il crollo del Ponte Morandi di Genova è emblematico della situazione del paese.
Crollano le strade costruite quando lo Stato era troppo presente nell’economia, mentre oggi, con le autostrade privatizzate e con i tagli ai fondi per la manutenzione ordinaria delle strade, ci ritroviamo con città come Genova isolate dal resto del territorio.
Tutto questo mentre i “capitali stranieri” arrivano, comprano le nostre imprese e se le portano via, grazie alla libera circolazione dei capitali.
I nostri giovani emigrano in cerca di lavoro.
Non facciamo più figli, andando incontro ad un inarrestabile declino democrafico.
La sanità inizia a perdere colpi, nonostante l’impegno e la professionalità dei pochi operatori sanitari rimasti negli ospedali.
I soffitti delle scuole crollano in testa ai nostri ragazzi, per mancanza di manutenzione.
Le località colpite dai terremoti degli ultimi anni sono ancora ridotte in macerie, dato che “non ci sono i soldi” per ricostruire le loro case.

Oramai persino l’attuale governo si trova davanti a situazioni senza via di uscita, se non quella di ritornare alle situazioni precedenti al periodo delle riforme.

E’ evidente che solo una nazionalizzazione delle autostrade consentirà di garantire una loro corretta manutenzione, unita a tariffe oneste per gli utenti.
E’ evidente che non esistono soluzioni per la ex ILVA di Taranto, se non quella di nazionalizzarla, di mettere dei fondi pubblici per il risanamento ambientale e di lanciare una stagione di opere pubbliche in Italia, che comportino un aumento della domanda interna di acciaio e commesse per assicurare il mantenimento dei posti di lavoro dell’ex ILVA. Magari applicando dazi sull’acciaio proveniente dall’estero o almeno da fuori della UE.
E’ evidente che per l’Italia è strategico avere una compagnia aerea di bandiera, persino se non fosse redditizia. E non saranno i mercati a garantircela. Se, poi, il governo sapesse affidare, finalmente, Alitalia a degli amministratori capaci, potrebbe certamente prosperare, come tutte le altre compagnie del mondo.

Per chi volesse comprendere, dopo averlo constatato a livello pratico, perché i dogmi neoliberisti sono evidentemente falsi anche se sottoposti ad una rigorosa analisi teorica, consigliamo la lettura di questo illuminante articolo dell’economista Jacques Sapir.

Margareth Thatcher ci aveva detto “There is no alternative“, che non c’è alternativa a quanto ci viene raccontato.
Anche questo è falso.
Esistono studi economici, esistono paesi nel mondo che organizzano la propria economia controllando i flussi di capitali, ponendo limitazioni al libero commercio, con partecipazioni statali nell’economia, con una banca centrale dipendente dal potere politico, che non fanno parte di tutte le organizzazioni internazionali.
Diciamo di più: la nostra Italia, quando l’economia andava bene, era un paese in cui i flussi di capitali erano controllati, che poneva dazi sulle merci importate, con l’IRI attraverso la quale lo Stato partecipava attivamente all’economia, con un sistema di banche pubbliche, ecc.

Ci stiamo avvicinando ad un cambiamento epocale, in cui tutto quello che ci hanno raccontato per decenni dimostra di essere stato falso.
Il fallimento delle politiche neoliberiste, e delle dottrine che le sostengono, è sotto gli occhi di tutti.

Noi ci stiamo preparando per l’alternativa.
E voi?

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