Gli investimenti pubblici in disavanzo abbassano o alzano il rapporto debito/pil ?
Le
stime dell’Ocse collocano il nostro paese in recessione nel 2019.
D’altronde anche la Germania sta subendo un deciso rallentamento
della sua economia.
Solo
il nostro export tiene mentre investimenti e domanda interna
continuano a decrescere.
La
necessità di
investimenti pubblici per lo sviluppo dell’economia e la risposta
ai bisogni interni del nostro paese, nei
più diversi settori, è tragicamente evidente e sotto gli occhi di
tutti.
Quando
però si dichiara di voler aumentare la spesa pubblica è immediata
la levata di scudi, obbediente a un riflesso condizionato di natura
ormai pavloviana, che la fede neoliberista ha inculcato e reso
automatico, grazie ad un uso sapiente e sistematico della propaganda
sui temi economici.
Il
credo ideologico dettato dalle politiche di austerity individua,
infatti, nella spesa pubblica la causa di tutti i mali e consiglia
ulteriori e «benèfici» tagli di servizi pubblici e blocco delle
assunzioni; impedisce di mettere in cantiere grandi piani per
l’energia e le infrastrutture, nega qualsiasi appoggio sostanziale
alle imprese, mancando così qualsiasi intervento laddove sarebbe più
necessario, lascia nell’incuria, senza tutela, né manutenzione
territorio e beni pubblici sino all’abbandono e alla successiva
svendita di tutto ciò che ci appartiene e ci aiuta a vivere e
lavorare, al solo fine di risparmiare e far cassa, per raccogliere
risorse da destinare al pagamento del servizio al debito nella
speranza di una sua riduzione. Malgrado l’attuazione di tali
strategie il debito, però, continua inesorabilmente a salire.
La
Unione europea ci chiede di abbassare il rapporto tra debito pubblico
e prodotto interno lordo (il PIL è un indicatore del reddito o
ricchezza nazionale prodotta annualmente), attualmente pari a 1,3
(130%) sino al 60%, imponendoci anche la ricetta
per ottenere tale risultato ovvero evitando gli investimenti pubblici
in disavanzo che farebbero lievitare il numeratore del rapporto. Ci
siamo così costretti, da quasi tre decenni, a fare “virtuoso“
avanzo primario nel tentativo, sempre frustrato, di far fronte al
debito evitandone la crescita. E anzi,
secondo i dettami del fiscal compact,
inseriti in Costituzione al tempo del governo Monti, tale rapporto
andrebbe abbassato sino al valore 0.6 (60%) in 20 anni! Una sorta di
suicida follia economica favorente solo chi è nella posizione di
arricchirsi approfittando delle “disgrazie“ procurate ad un
intero popolo.
Un
rapporto tra due grandezze (nel nostro caso, debito diviso PIL)
diventa più piccolo se il numeratore diminuisce e/o il denominatore
aumenta ma, attenzione, un rapporto può diminuire anche in presenza
di un aumento del numeratore, nel caso in cui l’aumento del
denominatore risulti sufficientemente sostenuto. Lo si impara alla
scuola elementare.
In
pratica, aumentare di un valore pari a x
gli investimenti pubblici (quando non si trova tutta la copertura
necessaria nelle entrate fiscali, che risultano insufficienti allo
scopo, e si determina un fabbisogno) comporta un uguale incremento
del numeratore, ossia del debito pubblico, di un valore addizionale
(pari a x)
che eleva il debito dal valore attuale di 2300 mld sino a 2300+x
e questo perché la spesa viene effettuata a deficit (a debito) o
come si dice in disavanzo. L’incremento di spesa per investimenti
comporta, però, un equivalente incremento del PIL (da 1800 a 1800
+x) a
denominatore del rapporto; la spesa per investimenti pubblici è,
infatti, una delle componenti del reddito nazionale (PIL). Questo
significa che l’incremento della spesa in deficit comporta un
immediato incremento del PIL di entità pari alla spesa effettuata
(1).
In sintesi, in seguito alla effettuazione di investimenti pubblici pari ad x euro, il rapporto Debito/PIL passa dal valore 2300 mld/1800 mld pari a circa 1.3 (130%) al valore (2300+x) / (1800 +x) dove x rappresenta l’entità degli investimenti effettuati. Ebbene ci si può chiedere se al crescere di x, ossia della spesa per investimenti, il rapporto aumenti come avvertono spaventati i media e i tanti commentatori cui essi danno voce e visibilità oppure diminuisca. La risposta è visibile nella curva rossa del grafico in figura.
Accade che al crescere degli investimenti, rappresentati sull’asse orizzontale, il rapporto debito/pil , riportato sull’asse verticale, decresce tendendo asintoticamente ad 1; il che significa che, al crescere degli investimenti pubblici, debito e pil tendono ad uguagliarsi. Il rapporto, quindi, diminuisce come richiesto dalla Ue!
Qualcuno di voi si starà chiedendo il significato degli andamenti del rapporto rappresentato dalle curve in verde. Ecco, a essere più precisi si deve considerare al denominatore anche il moltiplicatore degli investimenti pubblici (indicato con «m»)
Cliccando
qui
è visibile il caso dinamico muovendo il cursore ‘m’
(
https://www.geogebra.org/m/u6kyksv8
)
che è positivo, essendo stimato, anche dai più scettici, pari ad almeno 1,5. Come si vede, al crescere del valore del moltiplicatore, il fatidico rapporto scende sempre più rapidamente, a parità di incremento della spesa per investimenti. Loro lo sanno, ecco perché avevano stabilito che il deficit annuale permesso non potesse superare il 3% del PIL e a scanso di equivoci vogliono, e noi glielo abbiamo concesso, che quel 3% si riduca progressivamente a zero (obbligo di pareggio di bilancio tra entrate fiscali e spesa pubblica) impedendoci così qualsiasi spesa in disavanzo (in altre parole pretendono che il nostro ‘x’ sia lasciato al valore zero impedendoci qualsiasi investimento in disavanzo cosa che garantisce che il debito non si alzi ma assicura anche l’abbassamento del PIL e di conseguenza l’innalzamento del rapporto obbligandoci quindi a farvi fronte svendendo il patrimonio, tagliando i servizi pubblici ecc., lasciando che nel paese aumenti ogni giorno di più il degrado per mancato intervento, nel tentativo, sempre frustrato, di diminuire il debito e il suo rapporto con il PiL che però, in tali condizioni, non può che aumentare progressivamente quanto inesorabilmente.
Sono molteplici gli studi rinvenibili sul sito del FMI a conforto di quanto qui esposto. Si veda, ad esempio «Errori di previsione di crescita e moltiplicatori fiscali» di Olivier Blanchard e Daniel Leigh; documento di lavoro del FMI 13/01; 1 gennaio 2013 reperibile sul sito del FMI, in cui il capo economista del fondo, O. Blanchard, rivede l’impatto depressivo del moltiplicatore fiscale nelle politiche economiche adottate nella Ue.
In particolare, alcuni studi mostrano come, nell’immediato dopoguerra, tale rapporto fosse molto alto proprio a causa degli effetti della guerra sui sistemi economici. Ma dal ’45 al ’75 le politiche espansive, nei 30 anni del secondo dopoguerra, abbassano il rapporto del debito mondiale rispetto al pil mondiale dal 120% del ’45 al 30% del ’75. Il miglioramento drastico del rapporto è stato ottenuto grazie alla crescita costante del 4% annuo del Pil. Nel nostro paese, un capitalismo espansivo, in virtuosa alleanza con lo stato imprenditoriale, in accordo col titolo 3 della nostra Costituzione, permisero, nello stesso periodo, una crescita media del Pil del 5,25% all’anno (la più rapida al mondo) per 30 anni consecutivi ed una correlata evoluzione civile e sociale, senza precedenti. A scanso di equivoci, quegli stessi studi, del fondo monetario, hanno mostrato come il miglioramento del rapporto d/p sia stato ottenuto tramite la crescita del pil e non grazie a misure di austerity o a tagli fiscali che da soli garantiscono tutt’altro che crescita.
Negli anni ’80, a partire dai quali si riafferma il modello economico neoliberista su scala globale, il debito pubblico mondiale rispetto al pil mondiale riprende a crescere patologicamente sino a raggiungere il valore record nel 2011 del 120% (in Italia, tale valore era stato raggiunto già nei primi anni ’90, quale conseguenza del divorzio tra il governo (Tesoro) e la sua banca centrale che comporterà la lievitazione dei rendimenti promessi dai titoli di stato e quindi la accelerazione della rapidità di crescita del debito). Dall’81 in poi, infatti, la determinazione dei tassi di interesse, fondamentale strumento di regolazione dell’economia, sarà lasciata in balia del mercato. Si noti che prima del divorzio il rapporto debito/pil in Italia era del 58%, poco al di sotto del valore oggi imposto dal fiscal compact (60%).
Il
moltiplicatore fiscale misura l’intensità con cui il reddito di un
paese reagisce alla politica fiscale. Se supera il valore unitario,
allora una riduzione della spesa pubblica o un aumento delle tasse
provocano una diminuzione del pil più che proporzionale (non
lineare). Ad esempio, un moltiplicatore fiscale pari a 2 significa
che un taglio di spesa pubblica o un aumento di tasse dell’1%
provocheranno una riduzione del pil di entità doppia ossia del 2%.
In pratica, sono proprio gli aumenti delle tasse insieme ai tagli
della spesa pubblica, strategie proprie delle politiche ordoliberiste
di austerity, a causare il peggioramento del rapporto tra debito e
prodotto interno lordo forzando l’economia del paese verso la
recessione. Ciò è ormai esperienza comune a tutti noi. Il debito
pubblico in seguito alle «cure» è sempre aumentato e il rapporto
tra debito e pil peggiorato.
L’austerità
deprime l’economia portando ad un aumento della disoccupazione e
alla diminuzione della domanda interna. Di conseguenza il pil si
abbassa e con esso il gettito fiscale che è legato al reddito
prodotto, in un circolo vizioso pericolosissimo che conduce le
economie verso la paralisi deflattiva, imbrigliate permanentemente
nella trappola del debito.
Bisognerebbe
viceversa, mentre si riducono le tasse, aumentare la spesa pubblica a
beneficio di tutti, in modo che la crescita, amplificata dai fattori
moltiplicativi, generi un gettito fiscale supplementare tale da
coprire il deficit iniziale determinando la desiderata diminuzione
del rapporto tra debito e Pil.
Studi
autorevoli convengono nell’affermare che il moltiplicatore è più
elevato proprio nelle fasi di recessione economica e di stretta
creditizia giungendo sino a valori pari a 2,5-3.
In
Moltiplicatori
fiscali prociclici e anticiclici: evidenze dai Paesi OCSE – settembre
2014 di Daniel Riera Crichton, Carlos A. Vegh, Guillermo Vuletin
si
spiega come ogni euro di spesa in più, in certe condizioni di
depressione dell’economia, possa generare un fattore moltiplicativo
sulla crescita pari anche a tre volte (m=3)! così ogni euro non
speso può provocare una depressione sino a tre volte più grande…
In pratica quando il sistema economico risulta in sofferenza a causa
di fattori produttivi da lungo tempo sprecati: basso credito, alta
disoccupazione, risorse inutilizzate, ecc., e si è in presenza di
fattori recessivi in atto, è allora, quando ce ne è più bisogno,
che i fattori moltiplicativi degli investimenti pubblici risultano
più elevati.
Ecco
un estratto dell’abstract dell’articolo su citato:
«
(…) il ‘vero’ moltiplicatore di lungo periodo per i periodi
difficili (è la spesa pubblica in aumento) risulta 2,3 rispetto
all’1,3 se distinguiamo semplicemente tra recessione ed espansione.
In recessioni estreme, il moltiplicatore di lungo periodo raggiunge
3,1 »
In conclusione, la strategia di accettazione di un indebitamento iniziale con finalità espansive, abbinando taglio delle tasse e investimenti pubblici ben mirati, in un sistema economico in recessione o prossimo ad essa, paga davvero, essendo in grado di ridurre il debito rivitalizzando i processi economici conducendo infine ad un aumento del reddito nazionale.
Tutto
ciò può essere posto in relazione con l’attuale crisi di governo.
In
una intervista, l’economista Antonino Galloni svolge alcune
considerazioni sulla situazione politica, ritenendo che il vice
premier Salvini non abbia avuto altra scelta che aprire la crisi di
governo ( https://larouchepub.com/eiw/index.html )
:
«Penso
che Salvini abbia realizzato che non può fare la riforma fiscale
senza tagli alla spesa pubblica che sarebbero deleteri. Quindi
preferisce capitalizzare adesso il consenso che ha piuttosto che
rischiare di comprometterlo con la mancata promessa di qualcosa. Per
salvare questa alleanza occorrerebbe che Salvini avesse garanzie di
collaborazione da parte della componente moderata e tecnicoide del
governo stesso…
un
po’
difficile…»
Infine una riflessione dedicata ai tanti che, in buona fede, professano il credo della decrescita felice senza avvedersi dei vincoli imposti dalla Unione Europea, senza chiedersi, cioè, quale compatibilità vi sia tra gli obiettivi della decrescita felice del PIL (non recessione del PIL) e i vincoli imposti dalla Ue. Ridurre il Pil, infatti, seppure nei modi virtuosi indicati dai decrescisti, ha, in ogni caso, come conseguenza, la crescita del rapporto debito/PiL, dinamica in conflitto con il vincolo europeo che impone a tale rapporto un valore che non superi il 60%. Se il Pil diminuisse, in seguito alle strategie decresciste quel rapporto inevitabilmente peggiorerebbe… Ai decrescisti che volessero rispettare il dictat europeo piuttosto che contestarlo non rimarrebbe che assecondare le politiche di austerity ovvero dei tagli ai servizi pubblici e agli investimenti pubblici (anche quando fossero necessari alla realizzazione di obiettivi ambientali) dovendo accettare persino la svendita del demanio (2) idrico, minerario, culturale, naturale, svendita divenuta legge (come nel caso della legge ammazza foreste) e le privatizzazioni e la svendita del patrimonio pubblico in tutte le sue forme (storico-artistico, ad esempio), in modo da accumulare “risparmi“ in grado di ridurre il valore del numeratore del rapporto nella speranza, sempre frustrata, di riuscire così a far fronte al debito.
- Naturalmente, nell’attuale congiuntura, sarebbe conveniente effettuare parte di tale spesa con moneta non a debito, legale solo all’interno dei confini nazionali, come le statonote consigliate dall’economista A. Galloni ma di questa possibilità ci occuperemo in altra occasione non essendo essenziale al ragionamento che si svolge qui.
- Il più inaccettabile dei provvedimenti relativi alle privatizzazioni è stato il decreto legislativo 85 del 28 maggio 2010, istitutivo, in esecuzione dell’articolo 19 della legge 42 del 5 maggio 2009, del cosiddetto federalismo demaniale. Esso ha previsto la regionalizzazione del demanio idrico, marittimo e minerario, e la loro successiva vendita a privati, precisando che possono essere venduti anche beni artistici e storici, purché i relativi atti di alienazione siano approvati dal ministero dei Beni culturali e ambientali. Dunque, i beni dello Stato e degli altri enti territoriali, anche se facenti parte del «patrimonio indisponibile» o, addirittura, del «demanio», possono essere agevolmente venduti a privati, al solo fine di far cassa. Ed è questo un colpo mortale contro la «proprietà collettiva del territorio». Paolo Maddalena: Da http://temi.repubblica.it/micromega-online/per-una-teoria-dei-beni-comuni/
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