di Luigi Pecchioli
Quello che sta accadendo nel panorama politico e culturale italiano, con la rinascita di un pensiero meno direttamente “europeista” e più agganciato all’interesse nazionale, visto come prerequisito per potersi parlare successivamente di uno sviluppo di un corretto e sano europeismo, sta portando a riscoprire quella parte della Costituzione, diciamo meno “frequentata” ultimamente dai commentatori, ovvero quella dei diritti sociali.
Il tema del lavoro è stato toccato da riforme come il Jobs Act, ma non si è mai discusso se questa norma trovasse o meno legittimità nel dettato degli artt. 35 e 36 Cost.. Per un periodo si è ventilata una riforma dell’art. 41 Cost., in senso più “liberista” e si è tirato in ballo, vagamente e spesso a sproposito, l’art. 47 Cost. per giustificare riforme bancarie imbarazzanti dal punto di vista giuridico e per i risultati pratici, come il “bail in” o la nuova sorveglianza bancaria, ma nessuno degli articoli citati è stato veramente analizzato per mettere sotto osservazione da un punto di vista sistematico quanto il Governo, su impulso UE, stava attuando. Il crollo di consensi della sinistra, dettato anche e soprattutto da queste politiche che hanno impoverito le persone e tolto loro diritti e welfare, ed il sorgere recente di una corrente “sovranista” ed euroscettica all’interno della Lega, permette di riprendere oggi l’approfondimento di quel fondamentale problema il cui esame è stato interrotto troppo bruscamente in nome di un “Europe first”: i Trattati europei, che sono portatori di una visione macroeconomica liberista-hayekiana, possono integrarsi senza sforzo coll’ impianto della nostra Carta?
Non è questa la sede per dare una risposta, ma da qui può nascere un dibattito fra studiosi ed economisti che potrebbe essere ospitato in questa rivista e che permetterebbe di precisare il perimetro ed il contenuto di questioni fondamentali, come i limiti del diritto ad intraprendere, il lavoro come dignità, lo Stato “agente” in campo economico, il welfare ed il progetto di reddito universale e tanti altri. La base per la discussione a mio avviso è data dalle seguenti considerazioni: la nostra Costituzione è frutto di tre grandi correnti di pensiero: quella liberale, quella della Dottrina sociale della Chiesa, e quella socialista, ma sarebbe un errore pensare che la Carta sia una specie di “compromesso” fra queste posizioni, o peggio, una concessione fatta dai “deboli” democristiani ai comunisti, per paura di agitazioni sociali: le sue proclamazioni di principio, come spiega Mortati nelle “Considerazioni sui mancati adempimenti costituzionali”, “…risultano, se considerate nel loro nucleo essenziale, espressione univoca e coerente, in ogni loro parte, della volontà della grande maggioranza dell’Assemblea” ed in nota precisa “… Se alla concezione cristiana si voglia ricondurre il profondo motivo espresso dalla Costituzione essa deve essere intesa in un largo senso, non collegandola all’origine storica ed all’elaborazione dogmatica… Calata nella realtà di oggi quella concezione trova la sua più autentica espressione negli ideali del socialismo. Ed è a questa realtà che la nostra costituzione ha voluto adeguarsi.”. Nella costituzione c.d. “economica”, ovvero gli articoli dal 35 al 47 raccolti nel titolo III, questa influenza socialista è palese e si estrinseca, come afferma Federico Caffè, nel recepimento del modello economico keynesiano, nel nome dell’intervento statale a sostegno della domanda aggregata e dell’obiettivo del pieno impiego.
Questa è la chiave di lettura a mio avviso imprescindibile per iniziare un serio dibattito.
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